§ LE COSE CHE CAMBIANO

MENO OSTILI ALLA SOCIETA' INDUSTRIALE




Aldo Bello



Molte cose in questo Paese mutano in fretta e spesso con rapidità inattesa. Un esempio. Solo pochi anni fa studiosi e uomini d'azienda descrivevano la nostra come una società ancora caratterizzata da un diffuso, prevalente anti-industrialismo: cioè da quella cultura collettiva che rigetta i valori tipici delle società, appunto, industriali avanzate, e specialmente che è ostile sia al sistema delle imprese sia all'impresa (in quanto organizzazione produttiva con una sua "logica" intrinseca).
Ora è evidente, da molti segni, che la situazione è cambiata radicalmente. Vediamo come.
1) Sta velocemente scemando l'anti-industrialismo di matrice arcaica: quello, per intenderci, di coloro che sono anti-industriali perchè sono pre-industriali, che non capiscono e rifiutano il mondo della cultura urbano-industriale in quanto - per così ire - non vi sono mai "entrati", essendo portatori di valori e di esperienze, di atteggiamenti e di comportamenti tipici dell'Italia rurale (l'Italia piurimillenaria delle campagne, dei piccoli paesi, dell'antico cristianesimo delle pievi, dell'umanesimo galantomistico).
Si badi: ancora alla fine degli Anni '40 quasi la metà della popolazione adulta si inscriveva pienamente in questa cultura arcaica; e all'inizio dello scorso decennio più di un quarto restava abbarbicato a queste idee e a questo stile di vita. Due anni fa, invece, solo un italiano ultratredicenne su sei faceva parte dell'ormai esigua minoranza pre-industriale; e, nel corso degli ultimi due anni, la percentuale è scesa ancora, dal 16 per cento dell'81 al 14 per cento odierno.
2) Nello stesso tempo, all'estremo opposto del "continuum" socio-culturale, un'altra cultura è in via di indebolimento: quella dell'anti-industrialismo post-industriale.
Può sembrare un paradosso ed è invece una realtà tipica di tutto l'Occidente: il dispiegarsi delle società dell'affluenza (magari modesta, ma di massa) e dunque dalla liberazione dalla miseria materiale (da sempre minaccia permanente per i più) ha determinato una nuova opposizione, in particolare da parte di gruppi giovanili, figli, a volte privilegiati, proprio delle società che alcuni chiamano post-materiali. La conseguenza è stata una sola: come spesso capita, proprio lo sviluppo intenso e contraddittorio ha creato i propri antagonisti, e non necessariamente o prevalentemente tra gli esclusi della crescita.
Tutto ciò è stato ben visibile negli Anni '70, dal fatidico 1968 almeno fino al 1977: quando larga parte dei movimenti collettivi e anche della sinistra d'opposizione ("rossa" e in misura crescente "verde") si è fatta testimone rumorosa e portatrice aggressiva di istanze anti e post-industriali insieme.
Ma le cose sono cambiate, e in poca tempo: dal "tetto" del 72 per cento degli adulti raggiunto circa all'inizio del 1978, l'anti-industrialismo moderno è sceso all'8 per cento di tre anni fa; per poi precipitare - dal 1982 ad oggi - fino ad un ancora più modesto (oltre che fortemente minoritario) 6 e qualcosa per cento.
3) Che cosa significa tutto questo? Significa che:
- cresce l'integrazione nel sistema, sempre più accetto e legittimato anche nei suoi aspetti produttivi (oltre che istituzionali e politici);
- in particolare, sono in recupero i valori sociali funzionali allo sviluppo (dal merito alla professionalità, dall'accettazione funzionale dell'autorità e della gerarchia - certo, fuori da ogni esaltazione dell'autoritarismo e delle caste - ad un'altra accettazione, quella della divisione sociale del lavoro, e così via);
- la società (che ne è l'"ambiente esterno") diviene per le imprese meno minacciante, oltre che più stabile e prevedibile;
- il conflitto sociale e culturale non cessa affatto né diminuisce d'intensità, ma muta di segno: non più ostilità pregiudiziale e "ideologica", ma controllo specifico e pragmatico dell'impresa (legittimata, ma non adorata ... ); e sempre - come ovunque in Occidente - lotta per la ripartizione del reddito prodotto e della ricchezza accumulata, per la divisione dei "carichi", per gli aspetti simbolici delle relazioni sociali, comprese quelle di potere;
- tende a diminuire la tradizionale distinzione tra le imprese a seconda del titolo di proprietà: dopo la prima fase, che vedeva privilegiate le imprese pubbliche, perchè identificate con lo "Stato che non fallisce" ma anche perché "sociali" e dinamiche; e dopo la seconda fase, nella quale quasi solo le aziende private erano "buone", in quanto percepite come più efficienti e meno protette e clientelari; siamo ormai alla terza fase, nella quale il giudizio collettivo si fonda su indicatori oggettivi di serietà, produttività, innovatività (qualità proprie - a seconda dei casi - ora delle imprese private e ora delle altre";
- ugualmente, sempre meno si fa questione di dimensioni: anche qui, dopo la prima fase del "grande è bello" (perché forte, rassicurante, efficiente) e dopo la seconda fase del "piccolo è bello" (perché agile, autonomo, flessibile e più produttivo), si è giunti a una considerazione più selettiva e specifica, caso per caso;
- e infine, è in calo la demonizzazione delle multinazionali (vissute prima come grandi, invincibili, ecc.; e poi, all'opposto, come colonizzatrici, incontrollate, ecc.), senza che questo comporti alcuna visione negativa delle imprese nostrane (spesso anch'esse d'ambito internazionale).

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