§ DELLE MONETE

LA "RESISTIBILE" ASCESA DEL DOLLARO




Rossana Livolsi



Salta l'ambasciata degli Stati Uniti a Beirut, la New Jersey bombarda i siriani, e il dollaro sale. Aumenta il prezzo spot del petrolio, e il dollaro sale. I sovietici ribaltano il tavolo delle trattative a Ginevra, e il dollaro sale. Un comportamento ormai consueto, questo della moneta americana, con il quale abbiamo assunto confidenza. Negli ultimi tre anni i mercati internazionali dei cambi sono stati dominati dalla forza del dollaro. Fra il quarto trimestre del 1980 e il quarto trimestre del 1983, il dollaro si è rivalutato del 46 per cento nei confronti della media ponderata delle valute dei maggiori Paesi industriali. Nei confronti del marco l'apprezzamento é stato del 40 per cento, sulla sterlina del 59 per cento, sul franco francese dell'83 per cento, sullo yen del 13 per cento. Dal gennaio 1983 al gennaio dell'anno in corso la rivalutazione ha sfiorato il 12 per cento, a dispetto delle valutazioni degli osservatori, che annunciavano una caduta del cambio in riferimento all'atteso e poi confermato deficit del commercio estero.
Sulla constatazione dell'andamento costantemente crescente del dollaro si fonda il giudizio di una sua "sopravvalutazione". Una sopravvalutazione rispetto a cosa, considerato che il valore del cambio riflette, in linea di principio, l'equilibrio fra domanda ed offerta di capitali internazionali? Risulta così molto difficile contestare l'affermazione del Segretario del Tesoro Donald Reagan secondo il quale "il valore reale di una moneta é il valore del mercato". Tradotto in termini correnti questo significa che "il mercato ha sempre ragione". Giudizi diversi, che discendono da valutazioni diverse sulle ragioni del rafforzamento del dollaro. Sul ritmo e la durata di questa corsa della moneta Usa si interrogano operatori finanziari ed economisti.
Gli operatori finanziari, anche se in modo non unanime, tendono a prevedere che nel medio/lungo periodo il dollaro seguiterà ad apprezzarsi.
Numerosi economisti, al contrario, ritengono che il dollaro sia sopravvalutato e che debba, almeno a medio termine, manifestare segni di assestamento, se non addirittura di cedimento. Il gruppo di previsioni econometriche dello Harris Trust di Chicago, basandosi principalmente sul fenomeno del crescente deficit di parte corrente registrato dagli Stati Uniti negli ultimi trimestri, e sulla perdita di competitività delle produzioni americane per effetto del livello relativamente elevato del dollaro, ipotizzano un cedimento medio del cambio di questa moneta rispetto a quelle europee (e soprattutto rispetto al marco) intorno al 10 per cento entro la fine del 1984.
Più che soffermarsi sull'indebolimento (relativo) del dollaro sulle monete dei Paesi che si affacciano, oggi, alla ripresa - con segnali avvertibili sin dai primi mesi del 1984 e comunque destinati a consolidarsi per effetto della nuova domanda mondiale, che premia alcune economie a dispetto di altre più lente nell'avviare i processi di riaggiustamento reali - gli economisti si dimostrano più prudenti degli operatori finanziari nel valutare la "tenuta" della ripresa americana. Ed anche più divisi tra loro. A fronte di un Lawrence Klein, Nobel per l'Economia, che fonda il suo ottimismo - un aumento previsto del prodotto interno lordo, per il 1984, del 5,9 per cento, dopo un anno che ha regalato agli americani un + 6,5 per cento degno del ciclo positivo postbellico - sugli indicatori forniti dal modello econometrico della Wharton Econometrics di Philadelphia, il Link, c'é un Milton Friedman che non nasconde il suo disappunto e il suo scetticismo per lo stato di salute dell'economia americana.
Il Nobel monetarista disegna per il 1984 uno scenario preoccupante: tasso di inflazione in aumento, crescente disoccupazione; in altre parole una nuova fase recessiva, che potrebbe giungere fulminea tanto quanto quella del 1981. Responsabile della "svolta", secondo il professar Friedman, é la politica della Federal Reserve, che nel giro di un anno e mezzo (dal luglio 1982 al dicembre 1983) ha adottato prima misure di espansione della moneta (la cui circolazione écresciuta del 13,5 per cento) ed in seguito, dal luglio 1983, ha imposto la "stretta" più rigida del dopoguerra, realizzando una decelerazione, nella circolazione monetaria, di ben 12 punti.
Tenendo presenti queste diverse e talvolta divergenti valutazioni e le loro rispettive implicazioni, cosa ci si può aspettare sul mercato dei cambi nel medio periodo?
Il cambio della moneta é un prezzo che risponde con le sue peculiarità alla legge della domanda e dell'offerta. Se prevale, o continua a prevalere, la domanda sull'offerta di dollari, tale moneta si apprezzerà ulteriormente. E la domanda è sostenuta da fattori precauzionali, economici e finanziari.
E' fuor di dubbio che parte del fascino del dollaro sia dovuto ad un concorso particolare di circostanze estranee all'economia e alla finanza, per cui gli Stati Uniti si presentano come il rifugio più sicuro contro le minacce di guerra e le complicazioni politiche e sociali, e la moneta americana diventa bene-rifugio per eccellenza: in momenti di tensione internazionale, detentori di fondi in altre monete smobilitano queste posizioni e cercano di procurarsi dollari. Sono testimonianze di tale fenomeno gli acquisti di dollari da parte dell'Unione Sovietica nei momenti più tesi della crisi libanese e gli acquisti da parte di operatori del Medio Oriente all'indomani degli attentati nel Kuwait. Acquisti che spiegano l'andamento erratico del dollaro e gli sbalzi quotidiani sul mercato dei cambi.
Gli acquirenti in dollari hanno individuato nell'attuale amministrazione americana un punto di fermezza e di resistenza, in uno scenario mondiale dominato dall'instabilità, dall'incertezza, dalla indeterminatezza. Chi punta sul dollaro scommette sulla risolutezza dell'amministrazione Reagan. E le' prospettive di una riconferma dell'ex-governatore della California alla Casa Bianca dovrebbero funzionare da catalizzatore dei consensi attorno alla moneta Usa.
Gli Anni '70 sono stati dominati dall'instabilità, soprattutto monetaria, determinata dalle aspettative inflazionistiche sulle quali gli operatori economici basavano il loro comportamento. Di qui la rincorsa tra prezzi, salari e tassi di interesse alimentata da politiche monetarie accomodanti, perché la crescita economica appariva come un obiettivo alternativo alla stabilità monetaria. Il deteriorarsi della situazione ha prodotto quello che va comunemente sotto il nome di stagflazione, una condizione economica per cui inflazione e disoccupazione presentavano incrementi concomitanti. Le nuove politiche di stabilizzazione adottate a cavallo fra gli Anni '70 e '80 sono basate, al contrario, sulla proposizione che stabilità monetaria ed espansione non sono obiettivi alternativi
C'è stata una modifica di "policy regime" che ha interessato in particolare la politica monetaria, sia per quanto attiene i trade off (le priorità relative) tra i diversi obiettivi finali, sia per la gestione degli interventi. Si é così passati da un approccio fondato sul controllo dei tassi di interesse nominali ad un approccio monetarista, centrato sul controllo dell'offerta di monete, che ha dato risultati rilevanti sul fronte del contenimento dell'inflazione.
A questa modifica di "policy regime" ha corrisposto un ineguale adattamento dei diversi operatori e mercati. In particolare, mentre la politica monetaria é diventata più attenta alla determinazione di uno stabile e contenuto trend di crescita degli aggregati monetari, gli operatori finanziari sono diventati più sensibili alle loro variazioni di breve periodo. Il risultato paradossale é stato che il tentativo di stabilizzazione dei mercati finanziari si é tradotto in una accresciuta volatilità dei prezzi e dei tassi di interesse, dovuta ad una minor dispersione delle previsioni accompagnata ad una rapida reazione ad ogni nuovo elemento di informazione.
L'alto livello al quale si sono collocati i tassi di interesse in seguito all'adozione di misure per il contenimento delle aspettative inflazionistiche, ha fatto crescere l'onere reale del debito, spostando lo stato di "sofferenza" dai bilanci delle imprese al sistema bancario, poi sui conti nazionali e quindi all'intero sistema economico, con la minaccia di insolvenza dei Paesi in via di sviluppo. Fu la percezione di questo rischio che convinse le autorità americane, verso la metà del 1982, a decidere una discesa dei tassi di interesse dal 15 al 8-9 per cento. Questa prova di flessibilità ha procurato un alleggerimento dell'onere reale del debito estero dei PVS: un risparmio che si aggira intorno ai 6 miliardi di dollari per ogni punto percentuale di riduzione dei tassi di interesse per l'insieme dei PVS.
Per valutare il successo ottenuto nella lotta all'inflazione va detto che per la prima volta da molti anni, l'economia americana é uscita da una fase di recessione, con prezzi che crescono ad un tasso inferiore a quello registrato nella recessione precedente. In altri termini, é stata arrestata la lungo tendenza al peggioramento della performance in materia di stabilità monetaria.
La somma dei guadagni di produttività, risultanti dagli aggiustamenti sollecitati da una gestione non inflazionistica della moneta, e il recupero del potere d'acquisto reale, hanno stimolato una ripresa dell'attività economica destinata a spiegare impulsi espansivi sulle altre economie: verso i Paesi produttori primari tali impulsi servono a soddisfare le condizioni per la loro solvibilità; verso i Paesi industriali, servono a ripristinare condizioni di stabilità internazionale. A questo proposito va osservato che l'incremento delle importazioni statunitensi (il bilancio del commercio estero registra, dopo una serie positiva durata sino al 1976, un deficit di 70 miliardi di dollari, quasi il 50 per cento in più rispetto al passivo di 42,69 per cento miliardi di dollari del 1982) - riguarda essenzialmente l'area del Pacifico e solo in misura assai più contenuta quella europea. Gli effetti della maggiore domanda statunitense insieme all'alta quotazione del dollaro, tuttavia, cominciano a diffondersi anche sull'altra sponda dell'Atlantico, con benefici notevoli per la bilancia commerciale dei Paesi CEE. Per la prima volta il disavanzo dell'Italia é sceso, nel 1983, al di sotto delle due cifre, attestandosi sui 9000 miliardi. Rispetto al 1982 il recupero é di quasi 8000 miliardi.
L'export é aumentato di oltre il 10 per cento in valore e del 4 per cento in volume (3 punti al di sopra della media mondiale). L'import, al contrario, é cresciuto solo del 3 per cento in valore e diminuito dello 0,5 per cento in quantità. Questa "preferenza" americana verso il Pacifico é sintomo di un trend destinato ad accentuarsi nel futuro, anche in considerazione del fatto che la ripresa americana ha "incontrato" le economie del Pacifico pronte a rispondere e ad adeguarsi agli stimoli della nuova domanda.
Negli Stati Uniti - al contrario dell'Europa, dove hanno continuato a prevalere fattori di rigidità nella struttura della capacità produttiva, nel mercato del lavoro, nei bilanci pubblici - ha fatto premio la flessibilità negli assetti patrimoniali delle imprese, come nella struttura e composizione dei product mix e nel l'organizzazione dei processi produttivi. Un approccio diverso alla "crisi" che ha condotto alla formazione di 15 milioni di nuovi posti di lavoro, mentre nell'insieme dei Paesi CEE, a fronte di tassi crescenti di disoccupazione, non si creava alcun nuovo posto di lavoro.
La forte caduta del tasso di inflazione, attuale ed attesa negli Stati Uniti, ha sviluppato le premesse di quella vigorosa ripresa in atto oltre Atlantico, che contribuisce a determinare la forza del dollaro. I fattori economici che sostengono il cambio della moneta americana sono in primo luogo costituiti dal livello record dei profitti industriali in Usa nel 1983 e dalle previsioni per il 1984. Il 1983 si é chiuso con un ragguardevole + 15 per cento. Le blue chips, azioni delle grandi società prese come indice di riferimento dei Dow Jones, hanno distribuito profitti maggiorati del 20,3 per cento. Esattamente il doppio delle remunerazioni garantite dai tassi di interesse, imputati di essere la calamita che sottrae denaro al resto del mondo.
Proprio tra le cause che spingono verso l'alto il tasso di interesse reale, va annoverata la prospettiva di una crescente profittabilità degli investimenti reali in Usa. Il valore attualizzato dei profitti attesi di 425 società industriali é aumentato del 60 per cento fra il secondo trimestre del 1982 e il secondo trimestre del 1983. Questi livelli record dei profitti hanno attirato fondi dall'estero e creato perciò domanda di dollari, sia per investimenti in imprese americane sia per investimenti nel mercato borsistico di Wall Street. Dato che si é assistito nel 1983 (e dovrebbe confermarsi nel 1984) a una sostenuta crescita della produttività per ora lavorata. A fronte di una dinamica salariale abbastanza contenuta, la prospettiva di profitti elevati per il 1984 appare più che giustificato e ciò costituirà un punto di forza del dollaro.
Il 1984 per l'economia americana sarà l'anno del superprofitto: su questo pronostico convergono le opinioni degli istituti di previsione del mondo finanziario ed imprenditoriale. Sul fronte dei profitti si dovrebbero registrare risultati addirittura sensazionali: + 22 per cento, secondo le stime della Data Resources Inc.; + 26 per cento, nelle previsioni della Wharton Econometrics, 25 per cento, secondo il responso della Townsend Greenspam & Co. E' sull'onda di questi utili record che, secondo gli operatori, l'economia americana dovrebbe continuare l'espansione nel corso del 1984. Il boom dei profitti attiverà un circolo virtuoso attraverso una crescita esplosiva dei dividendi azionari che, a suo volta, innalzerà le quotazioni dei titoli. Si rimetterà in circolazione ricchezza, in parte destinata a maggiori spese per consumi. E - ciò che é ancora più importante - gli elevati profitti incoraggeranno le imprese a nuovi investimenti per ampliare la capacità produttiva. Ma non é tutto: oltre a nuovi posti di lavoro (il tasso di disoccupazione nel gennaio del 1984 ha subito un ulteriore contrazione dello 0,2 per cento), creati dal crescente volume di spese per consumi ed investimenti, i maggiori utili ridurranno drasticamente la propensione delle imprese all'indebitamento; diminuirà così l'effetto di spiazzamento sul mercato del credito, provocato dall'enorme fabbisogno federale.
Altro fatto economico di sostegno del cambio del dollaro sono interessi ed utili, ricevuti dagli Usa sui propri crediti e i propri investimenti all'estero: salvo difficoltà dovute alle situazioni dei Paesi fortemente indebitati con le banche americane (ma Alden Clausen, presidente della Banca Mondiale, ha assicurato che il "sistema finanziario ha superato la tempesta dell'indebitamento internazionale"), questo afflusso di reddito da capitale dovrebbe continuare a un livello sostenuto nel 1984.
Il fattore finanziario, sul quale si concentra la maggiore attenzione degli operatori, è il livello dei tassi reali di interesse, derivante dal livello relativamente elevato dei tassi nominali e dal basso profilo dell'inflazione negli Stati Uniti. Il differenziale di interesse reale, da negativo di circa l'un per cento nell'ottobre del 1980, é divenuto positivo di circa il 4 per cento verso la metà del 1983. Questo ha comportato un inevitabile mutamento della composizione dei portafogli allo scopo di accrescere le attività espresse in dollari. Le aspettative che il differenziale fra tassi nominali e tasso di variazione dei prezzi si mantenga all'attuale elevato livello, sono diffuse e giustificate.
Gli alti tassi di interesse reali si ripercuotono sulla spesa dei consumatori, sugli investimenti industriali e sulle esportazioni nette, agendo come un elemento atto ad incidere sul carattere strutturale della ripresa. Tassi reali al 7 per cento stanno già producendo un effetto di raffreddamento sulla spesa per consumi durevoli; vengono rilanciati, attraverso l'applicazione della nuova legislazione fiscale, gli investimenti in impianti ed attrezzature; ma soprattutto si determina una rilevante contrazione delle esportazioni nette. O, più precisamente, un sensibile aumento del soldo passivo della bilancia commerciale. Lo staff dei Board della Federal Reserve ha stimato che l'apprezzamento del cambio del dollaro in termini reali, avvenuto a partire dal quarto trimestre del 1980, ha provocato intorno alla metà del 1983 una diminuzione in volume delle esportazioni di merci dagli Usa del 14 per cento e un aumento in volume delle importazioni del 15 per cento.
Tassi così elevati, con i significativi effetti che hanno sulla quotazione della moneta americana, riflettono soprattutto grossi disavanzi di bilancio. E qui ha peso la minaccia - sdegnosamente respinta per il momento, dall'amministrazione Reagan - di ritorsioni protezionistiche. L'anno elettorale e i timidi segni di risveglio dell'economia europea potrebbero indurre lo staff economico del Presidente all'adozione di misure volte a limitare l'importazione di beni e servizi. Una volta esclusa la manovra sul valore del dollaro con una dichiarata politica dei cambi, che attraverso operazioni fittizie sui tassi di interesse si tradurrebbe in una iniezione inflazionistica, non resta che l'azione diretta sul passivo di bilancio.
Ma già voci autorevoli della Casa Bianca hanno escluso, per l'anno in corso, significative riduzioni del deficit federale. Nel suo rapporto al Congresso in febbraio Reagan ha confermato il giudizio di "intollerabilità" sulla dimensione del disavanzo, ma ha ribadito che saranno adottate misure di contenimento solo dopo le elezioni di novembre. Né del resto ci si aspetta una "easy monetary policy" da parte del Federal Reserve System. Anche per questa via, dunque, non ci si può attendere un rilevante rientro del cambio del dollaro e tantomeno un suo crollo nel corso del 1984.
Diverse ragioni concorrono a contenere e ritardare il tradizionale processo di aggiustamento del cambio: sopravvalutazione, disavanzo, inferiore tasso di sviluppo, perdita di competitività, maggior debito estero, deprezzamento. Anzitutto, il crescente deficit con l'estero degli Usa è in parte soltanto statistico, e va ripulito nella voce "errori ed omissioni", che rende misteriosa e difficile una lettura del bilancio e quindi impossibile una corretta valutazione delle entrate e delle uscite reali.
In secondo luogo, il passivo commerciale americano é determinato dalla caduta dell'export verso i PVS, che hanno contratto le loro importazioni indipendentemente dal cambio del dollaro, per riequilibrare i loro precari conti con l'estero. infine la mutata composizione del commercio estero Usa: diminuisce la quota manufatti, settore ad alta competitività nei prezzi, a favore dei servizi, dove l'incidenza del prezzo é assai inferiore. Di fronte ad una ripresa apparentemente "dai piedi d'argilla", data la presenza dei forti tassi d'interesse, gli osservatori si sono limitati ad annunciare la "svolta" recessiva, senza soffermarsi a spiegare come una ripresa così intensa abbia potuto convivere con tassi reali così elevati. Il fatto é che il dollar shok non éstato privo di conseguenze sulla struttura economica Usa, dove ha concorso ad accentuare l'innovazione tecnologica ed in generale la produzione di "beni nuovi", adeguati alle mutate ragioni di scambio. Le probabili spiegazioni di questo "paradosso del calabrone" discendono dal ruolo dei diversi fattori strutturali: le opportunità che il mutamento dei prezzi relativi genera per alcuni settori; il diverso comportamento di famiglie ed imprese con riferimento alla gestione delle scorte reali e finanziarie; l'adeguamento al cambiamento di "policy regime" della autorità monetarie. Ne risulta una valutazione complessiva che pone i "veri" tassi reali ad una quota inferiore rispetto all'inflazione corrente (anche perché le aspettative inflazionistiche sono diminuite di meno) e che vede comunque il loro impatto macroeconomico minore di quanto fosse nel passato. Il tradizionale processo di riequilibrio dei tassi - recessione, riduzione dei tassi, ripresa - ne risulta così contenuto e ritardato. Mentre, d'altra parte, l'elevato livello dei tassi ha forzato la riduzione degli alti costi ed, in generale, ristrutturazioni ed innovazioni tecnologiche dei settori produttivi.
L'elevato costo del denaro, insieme ad una quotazione del dollaro che penalizza la concorrenzialità delle esportazioni, ha aperto spazi praticabili solo ad investimenti capaci di unire una elevata redditività a sollecite possibilità di rientro del capitale, sfruttando intensamente capitale umano e ricerca. Tutto questo, realizzando un naturale accorciamento del processo produttivo e della vita stessa delle imprese.
Al confronto di questa trasformazione fisiologica che sta avvenendo negli Usa, l'Europa appare sclerotizzata ed appesantita, patetica nei suoi appelli rivolti agli Stati Uniti affinché modifichino la loro politica sui tassi o sui cambi. Un ruolo, quello dei tassi di interesse, che é stato probabilmente sopravvalutato; l'esperienza del passato ha dimostrato che, se non si accompagna a favorevoli prospettive economiche, finanziarie e politiche, un aumento dei tassi può realizzare effetti controproducenti sulla direzione netta dei capitali. Analogo discorso vale per i toni drammatici con cui é stato commentato il rialzo del dollaro, sul piano delle conseguenze negative per l'Europa in termini di maggiori esborsi per l'acquisto di materie prime. All'origine dell'allarme sta un assunto non corretto, poiché non si può affermare che l'evoluzione all'origine dei prezzi delle materie prime sarebbe stata la stessa se il dollaro, anziché forte, fosse stato debole. Di fronte ad una debolezza del dollaro, non sarebbe irrealistico presumere che i produttori avrebbero agganciato il prezzo delle materie prime ad altra moneta. Il mercato dei prodotti originari è evidentemente influenzato dalla politica monetaria americana, ma é una influenza indiretta; là dove i prezzi reali sono, in ultima analisi, governati da forze fondamentali che rispondono alla evoluzione delle ragioni di scambio, per cui diventa eccessivo attribuire alla "sopravvaIutazione" del dollaro le responsabilità dell'inflazione importata.
E poi é proprio vero che l'Europa debba dispiacersi di un dollaro forte? Non dimentichiamo che furono la debolezza della moneta americana e la sua instabilità ad esportare la "moda" inflazionistica, a seguito della crisi petrolifera degli Anni '70. Una flessione troppo brutale dei biglietti dello zio Sam non resterebbe senza conseguenza per l'equilibrio mondiale. D'altra parte non è da dimenticare che, grazie all'energia a buon mercato e ad un dollaro forte e stabile (che favoriva il trasferimento di una parte dei fattori della produzione verso il vecchio continente) l'Europa ha potuto conoscere il rapido sviluppo postbellico durato sino a tutti gli Anni '60. Al contrario, la debolezza del dollaro ha provocato il ripiegamento delle attività americane è suscitato una corrente d'investimenti diretta "verso" gli Stati Uniti.
In una fase caratterizzata su scala mondiale da profondi mutamenti e trasformazioni con la formazione di nuovi equilibri regionali, è necessario che l'Europa, come area regionale comune, adegui le proprie politiche all'obiettivo della mobilità delle risorse produttive e della flessibilità dei prezzi, incoraggiando nello stesso tempo una politica di investimenti e di rilancio dell'attività economica, anche se questo dovesse significare un temporaneo peggioramento delle ragioni di scambio. Come contropartita la Comunità Europea potrebbe avvantaggiarsi di una allocazione della domanda mondiale, che in regime di cambi flessibili tenda a penalizzare i Paesi che affidano alla politica monetaria ed ai tassi di interesse il compito di abbattere la soglia dell'inflazione.
Gli europei invocano drastiche misure di contenimento del disavanzo federale e su di esso fondono le aspettative di una soluzione del problema del cambio del dollaro, dimenticando che la contrazione del deficit del bilancio federale libererebbe risorse per le esportazioni e ridurrebbe la domanda di importazioni, con benefici evidenti sulla bilancia dei pagamenti correnti, eliminando per il dollaro la necessità di reggersi su alti tassi d'interesse.
L'evoluzione dei tassi di cambio risponde a fattori di fondo dell'economia sui quali è possibile agire solo mediante misure fondamentali sulle variabili che promuovano dinamismo nelle economie, generino risparmio, inducano all'investimento nelle combinazioni più produttive, accrescano la profittabilità degli investimenti. L'Europa non può chiedere agli USA di rallentare il trend favorevole della propria economia, al fine di contenere il tasso di cambio della moneta americana - la sopravvalutazione, cioè l'aumento del cambio reale di una moneta, non può essere intesa come fattore permanente di squilibrio, nella misura in cui il sistema economico si adegua, sia con riduzioni di costi sia con innovazioni di prodotti - ma può chiedere una politica di cambio che riduca, il più possibile, le spinte erratiche in modo che i movimenti lungo la linea tendenziale del l'apprezzamento o del deprezzamento avvengano con scostamenti minimi. La politica di non - intervento, inaugurata dagli Usa, non è certamente la più consona a ridurre l'erraticità dei cambi, fonte aggiuntiva di instabilità e di operazioni speculative che, alla lunga, danneggiano la stessa consistenza della recovery americana. Quando la volatilità si cumula da un periodo all'altro, essa assume, per le conseguenze che ha sulla competitività, sulle ragioni di scambio, sulle politiche di stabilizzazione anticiclica, una rilevanza economica tale da diventare difficilmente sopportabile ed incompatibile con l'obiettivo del mantenimento di condizioni ordinate.
L'esperienza del sistema monetario europeo può essere utile ad illustrare una ragionata politica di scambio. L'istituzione dello Sme ha avuto un forte impatto stabilizzatore poichè, nonostante consenta l'esistenza di fasce di flessibilità piuttosto consistenti, ha evitato che fattori di breve periodo, - accidentali, ciclici o speculativi, -avessero un peso sproporzionato sull'andamento dei tassi di cambio reciproci, amplificandone le fluttuazioni.
Questa osservazione dovrebbe servire a rendere più appetibile un'intesa fra le tre principali aree monetarie - America, Europa e Giappone - che ci risparmi le variazioni erratiche dei cambi ed impedisca una loro variazione ed instabilità eccessiva. Il recupero di condizioni di stabilità e di certezza è una delle premesse essenziali a restituire al sistema economico mondiale quella propensione all'investimento, senza la quale qualsiasi segnale di ripresa è destinato ad essere vanificato.

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