E PERCHE' NON SI PARLA DELLA "QUESTIONE SETTENTRIONALE"?




Giovanni Russo



A leggere l'articolo di Giorgio Bocca sui rapporti fra Nord e Sud, la sorpresa vera non sono le critiche o i duri giudizi sulla classe politica meridionale o sul disastro dei finanziamenti straordinari per il Sud, che in gran parte condividiamo, ma il fatto che fosse intitolato "La questione meridionale". Infatti il titolo esatto di quell'articolo era, come del resto qualsiasi lettore intelligente avrà capito, "La questione settentrionale". E' un vero lapsus freudiano, quello per cui Bocca ha creduto di parlare della questione meridionale mentre parlava di un problema che è diventato nazionale.
Da almeno vent'anni, infatti, non esiste più la questione meridionale nei termini in cui era stata posta dai grandi meridionalisti: da Nitti, Fortunato e Salvemini ai primi del Novecento, fino a quelli loro succeduti in questo dopoguerra. Bocca con grande ritardo scopre "l'eclisse totale, la disparizione, il vuoto della cultura meridionalista". Dopo la morte di Francesco Compagna questo vuoto era diventato clamoroso, ma noi sono almeno dieci anni che lo andiamo segnalando. Ricordando un anno fa nel "Corriere" Giustino Fortunato, scrivevamo di non credere che egli gradirebbe oggi di essere definito "meridionalista", infastidito dalle tavole rotonde, dalla retorica soprattutto di sinistra sulla questione meridionale, e soprattutto sdegnato che si proclamino "meridionalisti" tanti politicanti analoghi a quelli che egli e Salvemini avevano in gran disprezzo.
Oggi la questione meridionale non viene certo affrontata dallo Stato con volontà di risolverla, ma è pretesto per una "sottocultura" che continua a sostenere e a favorire un assistenzialismo di Stato, un flusso di denaro che, soprattutto dopo il terremoto, ha permesso di rimpinguare in Campania e in Calabria vaste organizzazioni criminali, con il pretesto della questione meridionale. è innegabile che mai come oggi queste forme di delinquenza storica del Sud, che hanno rapporti distorti con le classi dirigenti locali, si siano rafforzate. Esse sono il frutto degli errori del cosiddetto meridionalismo, ma soprattutto sono la conseguenza di uno sviluppo economico distorto, non produttivo, che al Sud è stato imposto, da questo dopoguerra in poi, con la connivenza della classe dirigente meridionale. Se casi stanno le cose, è chiaro che non c'è una cultura meridionalista che possa rispondere a Bocca. Ciò che invece non é mutato è "la questione settentrionale", come emerge dall'articolo di Bocca; altrimenti non si spiegherebbe come egli, e tanti altri studiosi e giornalisti del Nord, si fanno oggi le stesse domande, "grandi come montagne", che si posero il generale Farini quando arrivò a Napoli sulla scia di Garibaldi o i governanti dell'Italia appena unita sulla Sicilia: anche se due toscani, Sonnino e Franchetti, cercarono di dare loro risposte adeguate.
Se si rileggessero i dibattiti in Parlamento sulla lotta al brigantaggio, si scoprirebbe come un secolo fa furono trattati i contadini che si ribellavano ai proprietari, borbonici o liberali che fossero, i quali si erano impossessati, con la scusa dell'unità, dei beni demaniali.
L'alleanza tra l'industria pubblica e privata del Nord e la classe politica meridionale, che in realtà è quella che ha governato questo Paese negli ultimi quarant'anni, ha fatto si che questo nodo della "questione settentrionale" non venisse mai chiarito. Già Nitti aveva dimostrato che il Settentrione era giunto all'unificazione in condizioni di vantaggio e che il reddito delle province del Sud servì a costruire le opere di difesa militare e a proteggere, con le tariffe doganali, le industrie che sorgevano al Nord. In questo dopoguerra centinaia di migliaia di contadini meridionali sono stati fatti emigrare al Nord per mandare avanti le industrie e nessuno ha dato loro, almeno per molto tempo, né scuole né alloggi adeguati. Basti pensare ancora oggi al centro storico di Torino, abbandonato dalla borghesia torinese (che si è ritirata sulle colline) agli emigrati calabresi o siciliani. Nella Comunità Europea, l'esportazione dei prodotti agricoli meridionali è stata sacrificata sempre a quella dei frigoriferi o dei tondini o delle automobili costruite al Nord. Intanto, ministri o uomini politici del Nord regalavano al Sud industrie chimiche, come quelle di Rovelli in Sardegna, e industrie del Nord costruivano il porto di Gioia Tauro per un fantomatico centro siderurgico, pagando il "pizzo" alla mafia.
Senza la manodopera del Sud e senza le rimesse degli emigrati meridionali in America o in Australia, drenati dalle banche del Nord, non sarebbe stato possibile il cosiddetto miracolo economico. Come meravigliarsi quindi se nel Sud, privato della parte migliore della suo manodopera e di una borghesia intellettuale adeguata, sia dilagato il personale politico più scadente e abbia riempito gli spazi lasciati vuoti dallo Stato facendo connivenza con la mafia o la camorra? Queste cose le aveva già previste novant'anni fa Francesco Saverio Nitti. Se non si fa attenzione, il fenomeno, che ha invaso ormai la Sicilia, la Campania e la Calabria, si estenderà prima all'Italia Centrale e poi come accaduto dalle avvisaglie, per esempio, degli eventi del casinò di Campione o di Saint Vincent, anche al Nord. Ecco le domande grandi come montagne che pone oggi la "questione settentrionale".
Perché, dopo aver chiamato centinaia di migliaia di emigrati nei falansteri del Nord, adesso si reagisce con scritte razziste? Perché, dopo aver favorito la crescita dell'emigrazione selvaggia, dopo aver distrutto le risorse naturali della Sardegna e abbandonato le zone interne della Sicilia, ci si meraviglia di non aver più interlocutori meridionalisti?
Dopo la "conquista regia", di cui parlava D'Urso a proposito di Cavour, dopo i mazzieri di Giolitti fino a Bocca, la questione settentrionale sta appunto nella cecità con cui si vuole continuare a credere che l'Italia che si avvia al Duemila sia diventata l'Italia della lottizzazione, delle signorie denominate regioni, della mafia, della camorra e dei sequestri di persona, senza la responsabilità storica e politica del Nord.

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