§ L'INEDITO

RICORDO DI NINO PALUMBO
CON UN RACCONTO INEDITO




Ennio Bonea
con il contributo di SEBASTIANO MARTELLI



Quando Giuliano Manacorda scriveva la Introduzione al volume Le stagioni di Nino Palumbo che, a cura di Sebastiano Martelli, riuniva 26 saggi di studiosi italiani e stranieri che affrontavano l'opera dello scrittore in tutta la dimensione critica, cogliendo anche "gli aspetti meno previsti del suo lavoro letterario, la presenza della scienza medica, la produzione teatrale, la funzione dei personaggi femminili, il senso religioso, ecc.", Palumbo viveva gli ultimi suoi giorni di vita per spegnersi, improvvisamente, il 6 marzo 1983.
Allorchè il volume, nel mese di maggio, fu licenziato dalla Editrice Bastogi di Foggia, che aveva pubblicato gli ultimi due libri: La mia università (1981) racconti, e Domanda marginale (1982) romanzo [oltre al volume di narrativa per la scuola Vita con gli altri (1982), curato da Domenica Cerullo, e la raccolta di saggi sullo scrittore La poltrona del Tigullio (1982)], "quella che voleva essere [ ... ] una documentazione critica forse fondamentale sulla sua opera", diceva una nota editoriale, divenne "anche la testimonianza di una amicizia profonda, di un legame umano che non poteva non essere fertile e sincero".
La morte è una dolorosa lacerazione negli affetti di coloro che sopravvivono; ma nel momento del distacco, con la piena della emozione che dà sfogo a reazioni sincere di pianto, di angoscia, di solitario tormento, si consumano anche i riti formali e retorici delle parole di circostanza. Ebbene, nel caso di Palumbo l'imponderabile combinazione della casualità, consentì che il volume, contenente i saggi critici che trattavano lo scrittore come ancora vivente e al lavoro, fosse il coronamento di più autentica adesione alla triste circostanza, il più auspicabile per ogni scrittore soggetto, come ogni uomo, alla incontrastabile legge che interrompe l'esistenza, senza che si sappia il come e il quando.
Mi, piace immaginare, se l'umana corrispondenza d'amorosi sensi fa vivere, foscolianamente, l'amico estinto con noi anche quando gli è muta l'armonia del giorno, che Palumbo avrà sorriso soddisfatto, con quel suo sguardo azzurro, un po' triste e riservato, nel vedere ripagato la sua lunga, travagliata, sofferta esistenza di esule, la sua infaticabile attività di scrittore, partito dalla ignoranza obbligato del fanciullo condannato al lavoro per sopravvivere ma "vocato" a costruirsi giorno per giorno, spinto dell'ambizione di valersi contro un destino avverso per raggiungere il traguardo della affermazione nel campo vasto della cultura e del conseguente riconoscimento, nel constatare di aver lasciato di sè una traccia più durevole della corta memoria dei vivi.
Oggi, a poco più di un anno dalla morte, ricordata da Vito Riviello con un Omaggio a Nino Palumbo (un quadernetto con sette liriche, supplemento della rivista "Dall'interno"), lo studioso di letteratura ha dinanzi a sé il compatto corpus degli elaborati palumbiani, quelli editi, e attende quelli ancora inediti, col vantaggio, non si consideri il cinismo insito nel termine, di non dovere mettere in conto la riserva della "revisione" che, per oltre trent'anni, ha dovuto preventivare a causa del continuo ritornare dello scrittore sui propri scritti per una tensione verso la perfettibilità che lo ha sempre bruciato dall'interno. Non si trattava di incertezza, stato d'animo permanente nei temperamenti fragili ed insicuri come non era quello di Palumbo costruitosi da solo, senza maestri; bensì di ansia per avvicinarsi ai modelli che, da giovane autodidatta, si era scelti negli anni della sua formazione, allorché frequentava... la sua università.
Per questo stimolo essenziale gli scritti di Nino Palumbo hanno subìto tutti, ma specialmente i romanzi, un travaglio mai concluso di composizione; sono stati intuiti, registrati, sviluppati in ripetute "prove d'autore", rielaborati, parzialmente pubblicati a frammenti autonomi, riaccorpati, presentati unitariamente per essere, anche a distanza di anni, riveduti e ripresentati presso editori diversi con immancabili "varianti" che potranno impegnare filologi, critici e studenti universitari.
In un tracciato segnico, l'opera palumbiana potrebbe presentarsi come un labirinto intricato e circolare, con punti di partenza e di uscita contigui, rappresentazione visiva della capacitò inventiva e costruttiva dello scrittore, il quale dalla realtà del mondo e da quella interiore dell'uomo ha ricavato tutta la materia della sua narrativa, anche quando, in alcuni racconti particolarmente, è sfociato nella sfera surrealista.
Il primo nucleo genetico è l'autobiografia, non quella semplicistica della personale esistenza, ma quella che comprende oltre i propri casi umani, i rapporti interpersonali a partire dal nucleo familiare, per comprendere quelli del rione, del borgo, della metropoli, e finire nell'area della immaginazione, capace di sentire come propria la vita dell'umanità in generale, nell'angolo riposto di una collina ligure, tra castagni ed ulivi, a S. Michele di Pagana, il "buen retiro" dove Palumbo ha lavorato.
"La mia narrativa - dichiara lo scrittore - è impostata di autobiografismo, cioè il "lievito", il sostrato, è dato dalla mia conoscenza ed esperienza e memoria e pensieri di un ragazzo, poi giovane, poi uomo".
Nel breve racconto la mia università, che dò il titolo all'omonima raccolta di novelle (Foggia, Bastogi, 1981, già pubblicata con qualche variante da Canesi nel 1964 col titolo Oggi è sabato e domani è domenica), il lettore ricava la scoperta della vocazione prepotente di un ragazzo che, lasciata la scuola a metà del secondo ginnasio per andare a lavorare, entra ormai adolescente in una biblioteca per leggere la Vita Nova di Dante e al direttore, che lo vede smarrito, inceppato e lo vuole aiutare, dice: "Ho cercato sempre di leggere, quando ho potuto, mi piace studiare. E' una cosa più forte di me". Il racconto si conclude: "da quella sera cominciò la mia università". Il ragazzo-Palumbo aveva sedici anni, la biblioteca era la Sforzesca di Milano.
Chi voglia conoscere quale sia stata la suo vita precedente, può ricorrere al più noto e, forse, più significativa romanzo di Palumbo, Pane verde (Milano, Parenti, 1961 poi Milano, Mursia, 1969). Elia Amitrano un artigiano tappezziere di Trani è il simbolo del meridionale angariato da una esistenza di bisogno per la scarsità di lavoro che riduce alla miseria e alla fame lui stesso, la moglie Assunta ed i sei figli, nel più grande dei quali, Marco, è adombrato lo scrittore. La disperazione del presente e la speranza nel futuro, spingono Amitrano prima ad un esodo verso la Città (con la maiuscola): Bari, senza fortuna, anzi portandolo al furto, per caso non scoperto, per sostenere la famiglia; poi all'emigrazione verso la terra promessa degli Anni '30, non più l'America del primo Novecento, anche per l'esperienza del ritorno da fallito di mastro Paolo, padre di Assunta, ma Milano, resistendo alla lusinga di mutare la sua condizione di disoccupato con quella di legionario per la conquista di un "posto al sole" in Abissinia. A Milano, realmente, Palumbo, nato a Troni nel 1921, lavorando di giorno, frequentando le scuole serali e le biblioteche, riuscì a diplomarsi in ragioneria e quindi a laurearsi in Economia e Commercio.
Pane verde, che seguiva Impiegato d'imposte (Milano, Mondadori, 1957, poi Roma, Canesi, 1964) e Il giornale (Milano, Mondadori, 1958, poi Lugano, Pantarei, 1975), incentrati nelle figure di Silio Tranifilo e Domenica Chessa, rispettivamente protagonisti delle due storie di emarginati, segnati dalla nevrosi da solitudine di travet il primo, il secondo preso dal mito manicale della lettura di quotidiani, avrebbe dovuto essere, come lo stesso autore avvertiva in una postilla a chiusura di libro, "un prologo [ ... ]. Lo sfondo della Puglia potrebbe rimanere a trilogia completata, una mitica terra di dolore". Ma i due romanzi che avrebbero dovuto completare la trilogia, non furono mai scritti, né progettati; Palumbo, tuttavia, da quel libro in gran parte autobiografico e sostanzialmente libro di denunzia del male secolare del Sud, l'emorragia delle forzelavoro, si guadagnò l'etichetta di "scrittore meridionale", sulla quale non c'è tra i critici consenso. il Sud non c'era nei primi due e non ci sarà nei tre seguenti.
Le giornate lunghe (Milano, Rizzoli, 1962), premiato a Lecce col Premio Salento 1962, descrive una stagione estiva del professor Zenato, altro solitario come Tranifilo e Chessa; il suo vivere monotono tra casa, treno, scuola, casa; c'è il riscatto dalla monotonia, con altra monotonia: quella delle "giornate lunghe" di vacanza sulla riviera ligure. La fantasia e l'immaginazione paiono romperla.
Dopo questo romanzo breve, c'è una lunga sosta produttiva.
Vengono pubblicati: Oggi è sabato e domani è domenica (1964), Il treno della speranza (Milano, Mursia, 1967), Giocare di coda (ivi, 1964), I racconti del giovedì (Bari, Adda, 1973), Allegro ma non troppo (ivi, 1976), Il quadrifoglio (ivi, 1976), nei quali sono riuniti, a volte ripetuti e rivisti, rimescolati con esclusioni ed inserimenti di novità, i racconti apparsi in riviste, settimanali e quotidiani, tra cui "La Gazzetta del Mezzogiorno"; ma il romanzo nuovo, Il serpente malioso (Roma, Editori Riuniti, 1977), ebbe una gestazione di quindici anni.
Ancora la storia di un emarginato, il giovane Roberto Damonte, studioso di linguistica (si badi bene a questo dato), protagonista di un rinnovato voyage autour de sa chambre fatto di soliloqui e di telefonate registrate, da riascoltare e commentare, con la giovane sfuggente e mafiosa Sabrina che lo esclude da rapporti probabili e normali con Giulia, un'affascinante collega della suo scuola, e con Stefania. Ma il tratto pertinente del nuovo momento creativo, è la focalizzazione della scrittura che si fa, appunto, ricerca espressiva parossistica, gioco di invenzione terminologica nel quale si riflette il carattere psicotico del personaggio di cui Polumbo di serve per sperimentare le nuove scelte stilistiche.
L'ultimo lavoro, è Domanda marginale (Foggia, Bastogi, 1982), un romanzo che esaspera lo spleen baudeleriano che attraversa tutti gli scritti di Palumbo, eccezion fatta per Pane verde. Un "lui", anonimo sino alle ultime pagine del libro, quando è costretto a... rivelare il nome, Vittorio, quasi a voler assumere il volto indefinito di qualunque essere, cinquantenne, agiato dirigente commerciale di una Grande Azienda, si aggira, per tutte le pagine, negli insicuri vicoli portuali della Genova notturna, per trovare sfogo al tedio di una vita familiare sclerotizzato e di una moglie, inappuntabile padrona di casa, ma donna spento e restia. Tiene periodici incontri con due prostitute, Katia ed Ines, nei quali la liturgia delle "carezze" e la mitologia del "collo", lo rendono cliente "tipico" nelle esperienze delle due passeggiatrici, sue abitudinarie compagne nelle squallide camere di albergucci e pensioni. La trama esilissima si ravviva con la morte tragica di Katia raccontata da Ines, a Vittorio che, sconvolto, progetto un tentativo di suicidio-omicidio con Ines che si salva in extremis dalle esalazioni di ossido di carbonio. L'interesse dell'autore, anche in questa prova, è nella struttura formale. Al processo monologante de Il serpente Malioso si sostituisce, qui, una teoria di dialoghi, insistenti, monotoni, ripetitivi, quasi a riflettere la sfibrato e incolore esistenza di tanti uomini incarnati... dall'anonimo Vittorio, intervallati da brani di riflessione e di flashes back.
Per avere il quadro complessivo della personalità di Palumbo, si deve far cenno alle opere di teatro (Rasputin, tragedia in cinque atti, segnò il suo esordio letterario a ventinove anni) alla attività di radiodrammaturgo ed a quella di critico letterario. Nella fase di ricognizione critica, l'occhio dello studioso cerca di ricostruire il procedimento col quale lo scrittore ha operato per lunghi anni; tende a scoprire gli strumenti di lavoro, i metodi di composizione, consultando e raffrontando abbozzi, appunti, copie di rifacimenti che portino a risolvere gli enigmi di patenti contraddizioni stilistiche ed ideologiche e ad avvalorare interpretazioni e giudizi sulla scorto dei carteggi pubblicati (con Vittorini e Salinari) e del corredo bibliografico accumulato (cfr. Panaro, Manacorda, Folliero, Martelli, Frattarolo e Biondi).
Dalle opere edite, si può arguire che lo scrittore lavorasse simultaneamente, in combinazione binaria, a diversi progetti: una traccia che conforta questa ipotesi viene dalle date indicative dei tempi di stesura che chiudono i vari testi dei romanzi. Da esse risulta che una identica stagione progettuale, leggermente sfalsata nella stesura, accomuna: Il giornale e Impiegato d'imposte; e poi Pane verde e le giornate lunghe; e così si può anche presumere che Il serpente malioso e Domanda marginale, lontani come date di pubblicazione, si siano trovati, in un momento di impasto molto ravvicinato.
La biblioteca di Palumbo, forse la sua stessa officina, può far comprendere come ad un "realismo verghiano", che presiede e fa da sfondo all'unico romanzo veramente "meridionale", Pane verde, si connetta e contrasti apertamente l'interesse alla psicologia e all'indagine introspettiva, tratto dalla lettura dei romanzieri russi, da lui stesso riconosciuti come gradita ascendenza: "in effetti Gogol e Dostoevskij sono autori, letti e riletti, con i quali io mi sento delle affinità ben precise".
Forse sta proprio in questa questione tra realismo e psicologismo lo specifico connotativo di Palumbo che sfugge ad una definitiva catalogazione, sia come scrittore meridionale, sia come continuatore della linea Svevo-Tozzi, ritenuti possibili modelli delle strutture caratteriali dei suoi "inetti": Tranifilo, Chessa, Zenato, Damonte e Vittorio, cui fa da opposto il preseguitato dai casi della vita, mai remissivo però e rinunciatario, Elia Amitrano.
Nel suo metodo di lavoro, sia progettuale che compositivo, Palumbo mi ha richiamato un altro scrittore, apparentemente provinciale, pur così diverso da lui: Raffaello Brignetti, anch'egli raccoglitore ordinato e sistematico rifacitore di schede, appunti, schemi, abbozzi; anch'egli creatore di lemmi e registratore di espressioni inusitate e desuete in Allegro parlabile pubblicato nel 1965 quando Polumbo progettava di stendere il suo romanzo parasperimentale Il serpente malioso.
Ma quel che mi spinge ad accostare Polumbo a Brignetti, scrittore decisamente "marino" non solo in senso tematico ma linguistico, è il racconto Giocare di coda che rivela una proprietà di linguaggio tecnico-marinaresco stupefacente in uno scrittore, come Palumbo, che ha collocato quasi tutte le sue vicende nel chiuso di ambienti ristretti e spesso soffocanti.
Chi poi, come Sebastiano Martelli che di Palumbo fornì un esaustivo profilo critico nel 1979 nella collana "Il castoro" de La Nuova Italia, ha avuto la fortuna di metter le mani tra le carte lasciate in sospeso dallo scrittore, può imbattersi in inediti che meritano di essere portati alla luce.
Il questo fascicolo, la rivista che va raccogliendo consensi e riconoscimenti, anche fuori dalla specifica area culturale, per la pubblicazione di scritti mai editi di autori meridionali ma di risonanza nazionale, come lo scienziato Casima De Giorgi e i poeti Vittorio Bodini e Rocca Scotellaro, presenta il racconto lungo, Al cinque, inedito dello scrittore tranese Nino Palumbo, seguito da una Nota al Testo di Sebastiano Martelli.

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