§ L'ALTR0 '700 NAPOLETANO

LAZZARONI ANTI-ILLUMINISTI




Ada Provenzano



Sostiene Lucio Villari che "della Napoli settecentesca la visione storica in noi predominante dovrebbe essere di una severità nordica, quasi incolore". Tale è la prima sensazione che si ha guardando, ad esempio, le grandi architetture che quel secolo ha lasciato: i grigi del napoletano teatro San Carlo e quelli del Palazzo Reale dalle grandi cancellate, i palazzi pubblici giganteschi dalle linee militari, le superstiti case patrizie delle città del Regno, maestose e quasi gelide, "che non fanno certo pensare a luoghi di frivolezze e ai bureaux d'esprit". L'atmosfera che li avvolge è certamente mediterranea e italiana, ma, si sarebbe tentati di dire, della particolare italianità che si respira tra le regali residenze e le abitazioni della Pietroburgo settecentesca: la città da cui provengono i cavalli neri che dominano, a Napoli, la cancellata del giardino reale accanto al San Carlo, donati a metà del secolo scorso dallo zar Nicola I al re Ferdinando II.
Questa capitale magnifica, in bianco e nero, "tenta di fronteggiare, alteramente, il profluvio di colore che l'ha marchiata e sul quale poeti e musici, scrittori e viaggiatori hanno favoleggiato. Sembra anche che voglia negare l'invadenza con cui il comportamento e i costumi del suo papa o insieme a una topografia e ad un clima splendenti) si sono imposti su quel taglio di razionale e di moderno che il Settecento ha prodotto". Tant'è: non a questa segreta razionalità, infatti (che non si coglieva soltanto nelle architetture), hanno fatto riferimento i viaggiatori italiani e stranieri del secolo dei lumi, affascinati piuttosto dall'immagine del suo contrario, vale a dire dalla Napoli e dalla provincia meridionale irrazionale, formicolante, con gente minuta, indaffarata, gaia-triste, alla ricerca di lavoro o abbattuta dalla miseria e dalla fame, sempre disposta a dare spettacolo dei propri stenti inestinguibili. Il colore, appunto, di una delle piú autorevoli e importanti capitali d'Europa, specchio spesso molto fedele del suo regno-retroterra.
"Della posizione della città e delle sue meraviglie tanto spesso descritte e decantate, non farò motto. Vedi Napoli e poi muori!, dicono qui". Così Goethe annotava il 2 marzo 1787 e in questo modo veniva posto, autorevolmente, il sigillo a un giudizio "esagerato" che farà, forse, la fortuna turistica della capitale, ma sarà anche l'alibi di una programmata emarginazione sociale ed economica. La conseguenza logica dell'estasi goethiana si trova riflessa, inevitabilmente, qualche giorno dopo, il 12 marzo: "Tutto induce a credere che una terra felice come questa, dove ogni elementare bisogno si trova copiosamente soddisfatto, produca anche gente d'indole felice, capace di aspettare flemmaticamente dall'indomani ciò che le ha portato l'oggi e di vivere, quindi, senza pensieri". E' la tipica immagine speculare dell'altra faccia, quella che rivelava il popolo dei "lazzari" come una spaventosa mina sociale, pronta a esplodere da un momento all'altro. Dice il Villari: "Aleggia infatti sul secolo dei lumi, sulla Napoli austriaca e poi del riformismo borbonico, il fantasma inquieto e insanguinato di Masaniello. Ecco dunque, agli occhi di tanti osservatori stranieri, il colore che tracima su tutti gli altri: Napoli ha per questi colti viaggiatori un solo protagonista, oltre il sole e il mare: è il popolo dei bassi e dei vicoli, dei piú miserabili tra gli uomini della Terra, come li chiamò Voltaire. Questo popolo, casi affamato, inafferrabile, inattendibile, curioso, è, in potenza, l'idea della Rivoluzione e Napoli è l'unico luogo d'Europa dove covi sotto la cenere la minaccia di una Distruzione Sociale".
E una distruzione ci sarà. Ma non la provocherà la rivoluzione. La attuerà la controrivoIuzione del cardinal Ruffo, scatenata nell'estate del 1799: fu la grande baldoria della plebe e dei lazzaroni napoletani e meridionali, finalmente legittimati dal Potere, attori riconosciuti e autorizzati allo sterminio di quei pochi rappresentanti della razionalità che erano riusciti a far balenare un sogno di civiltà. Fu la strage degli innocenti giacobini, fatti a pezzi, abbrustoliti e mangiati sulle pubbliche vie. La paura di Masaniello aveva finalmente partorito i mostri. Atanasio Mozzillo (in "La sirena inquietante, Immagine e mito di Napoli nell'Europa del Settecento") li riscoprirà ai nostri giorni: plebe napoletana, l'"altra" Napoli, l'"altro Sud", i lazzaroni, il sottoproletariato abbrutito, la corte dei miracoli, nelle pagine di Montesquieu, di De Brosses, di Brydone, di Swinburne, di Goethe, di De Sade. Brividi e colore nei resoconti di questi viaggiatori; e la sorpresa nello scoprire che i lazzaroni non erano poi completamente assimilabili alla plebe, ma erano una specie di ceto sociale a sè, una "aristocrazia dei poveri", con propri codici di comportamento e con gerarchie che si ispiravano a quelle della vera classe dirigente.
Non rivoluzione, e non Masaniello, dunque: in tante descrizioni della vita napoletana e meridionale si scopre che il dato originale è questo singolarissimo miscuglio: da una parte, un popolo di miserabili che vivono di espedienti e di continua degradazione, pronti a fulminee sommosse; dall'altra, dei poveri organizzati in una specie di "partito", o di consorteria, animata da impulsi misteriosi. Certo, rileva Villari, "quartieri putridi e miserabili, corti dei miracoli, degenerazione e collasso sociale c'erano anche a Londra, a Parigi, a Madrid o a Vienna. Ma la miseria di Napoli era diversa: nel cuore dell'Europa orgogliosa dei suoi progressi, c'era una capitale metropoli dove le architetture regali gareggiavano con Versailles, le arti figurative, la musica e le scienze non avevano rivali, e dove, tuttavia, un popolo era retrocesso a condizione quasi preistorica, con lo stupore e la ferocia di primitivi, e l'allegria festosa e gentile di selvaggi agli albori della civiltà. Credo che già questo fosse sufficiente per suscitare una morbosa curiosità negli stranieri piú avvertiti". Questo, si badi bene: e non la grandezza di Antonio Genovesi, pur primo in Europa ad insegnare, dal 1854 al 1869, da una cattedra di Economia Politica.
E, d'altra parte, non era da sottovalutare il sentimento di sicurezza e di superiorità che Napoli dava ai suoi visitatori. Lo annota nel suo diario De Sade: "Che esistano in Europa delle aree arretrate è una fortuna; si può casi giudicare meglio i progressi compiuti in altre". Si tratta dello stesso sentimento che, nel secolo successivo, animerà la "corsa alle colonie" delle grandi potenze europee. Ma in quella "Napoli-Terzo Mondo" c'era qualcosa in piú: i lazzaroni, appunto, una "organizzazione" di strati popolari che non aveva riscontro nella storia, e nella realtà europea. Solo che, nel Settecento, essi erano si e no gli eredi di Masaniello: anzi, ancora prima delle stragi controrivoluzionarie del 1899 di cui si resero responsabili, spesso si travestirono da guardiani e da pretoriani del Potere; come poi farà la camorra. Nello stesso tempo, però, erano l'"anima" di Napoli, la linfa sguaiatamente giovanile del Sud, la festa, la felicità inventiva di arti e di mestieri effimeri, che tanto colpirà Goethe. Un teatro sociale dell'assurdo, con repertori sempre nuovi, dice Villari: una festa assolata, ma totalmente tragica e incomprensibilmente allegra.

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