PROFITTO D'IMPRESA E "POLITICA DEI REDDITI"




Paolo Maizza



Quello dello "sviluppo aziendale" é un tema che attrae l'attenzione e l'impegno dei cultori delle dottrine economico-aziendali.
Per l'attinenza che questo tema può avere con la "politica dei redditi", gioverà svolgere talune considerazioni su un aspetto del risultato complessivo dell'attività aziendale. Ci riferiamo al profitto d'impresa, che é da ritenersi condizione fondamentale dello sviluppo aziendale, per la qual cosa ci richiamiamo alla necessità che l'impresa tenda a massimizzare il proprio reddito, a creare ed accrescere, quindi, il suo profitto.
A proposito di questa tendenza, va chiarito anzitutto che, nella configurazione aziendale, profitto può considerarsi la quantità di reddito eccedente l'interesse sul capitale impiegato (calcolato ad un tasso comprensivo del rischio di impresa) e il salario direzionale. L'origine di tale categoria di extrareddito, come può pure denominarsi il profitto, risiede essenzialmente nella particolare posizione favorevole di cui gode l'impresa nei confronti dei mercati e, più in generale, dell'ambiente in cui é inserita, posizione, questa, che, proprio perché particolare, non é goduta dalle altre imprese operanti nel medesimo settore produttivo.
Ora, la tendenza alla massimizzazione del reddito e, quindi, del profitto non é, a rigor di logica, il vero e proprio fine aziendale, bensì una condizione fondamentale per conseguire quel fine, il quale si identifica nella sopravvivenza e nello sviluppo dell'impresa (1). L'accrescimento del reddito e, quindi, del profitto risponde alla necessità di promuovere il progresso dell'azienda, di creare condizioni che le possano conferire un potere competitivo bastevole per sostenere convenientemente e, se possibile, superare la competizione del mercato in un mondo caratterizzato da un dinamismo economico e tecnico. Una impresa priva di quella linfa di crescita che é il profitto, tuttoché in condizioni di equilibrio, sarebbe condannata ad una staticità economica che comprometterebbe, nel tempo, le sue capacitò di difesa e di resistenza alle avverse e mutevoli condizioni ambientali, portandola ad una posizione di regresso o di arretramento (2).
Le considerazioni poc'anzi svolte, con attinenza all'argomento di cui ci occupiamo, ci consentono di cogliere un altro aspetto essenziale della politica dei redditi d'impresa, qual'é quello della continuità e dello sviluppo della vita aziendale. Una politica di redditi concepita in senso produttivistico, o di espansione, non deve tendere solo al raggiungimento ed al mantenimento delle condizioni di equilibrio economico richieste da un normale, tranquillo funzionamento dell'impresa, ma deve in più far conseguire margini di profitto che promuovano lo sviluppo ed il progresso dell'azienda. Una politica di reddito che appaghi soltanto le esigenze di una equa remunerazione del "capitale di rischio", ancorché dotata del requisito della stabilità temporale, non può essere una politica di sviluppo aziendale. Solo una politica di profitti, ovvero una politica di redditi valida a creare e ad accrescere il profitto d'impresa, é una politica di sviluppo aziendale. La sopravvivenza delle imprese é strettamente legata alla politica dei redditi da esse deliberata e seguita; la crescita degli stessi organismi aziendali alla loro politica di profitti (3).
S'intende di leggieri, ora, che una politica di sviluppo aziendale non può essere in concerto con l'aspirazione dei comproprietari dell'azienda di prelevare a quota di utile annuo massima possibile; quella politica non può essere in armonia con il criterio di distribuire quote di reddito proporzionalmente corrispondenti, in senso assoluto, al risultato economico complessivo dell'impresa. Da qui la necessità che gli organi direzionali responsabili delle sorti dell'azienda, deliberino una politica di redditi che possa anzitutto porre in atto un programma di ritenzione di utili di bilancio, indispensabile perché la stessa impresa possa, nella successione dei tempi, produrre in crescendo un suo profitto. La stessa politica deve, quindi, armonizzare l'opportunità di distribuire congrue quote di utili con le esigenze di sottrarre al consumo e reinvestire nella gestione tutto o parte (a seconda delle mutevoli circostanze in cui si va svolgendo la vita dell'impresa) del profitto conseguito.
E' ben chiaro che questo profitto può essere un mezzo di conseguimento del fine cui é rivolto (lo sviluppo dell'impresa), sempre ché resti accantonato e, quindi, reinvestito nella stessa gestione, almeno per un arco di tempo sufficiente a far conseguire all'azienda lo sviluppo che fondatamente si stima possa raggiungere.
Questo discorso fa cogliere il peso preponderante che la determinazione della tronche di reddito da destinare al consumo ha nei riguardi della politica di sviluppo dell'impresa. La porzione degli utili da erogare appare anzitutto contrassegnata - per il fine dello sviluppo aziendale - dal carattere della rinuncia o della limitazione. Invero, non é concepibile e non é attuabile una politica di sviluppo aziendale che non comporti la necessità di una politica restrittiva degli utili da distribuire. La determinazione della stessa porzione di reddito da erogare presenta - secondo un principio di razionalità quanto meno teorica - il carattere della gradualità. Essa, infatti, oltre che essere adeguata al mutevole andamento economico della produzione d'impresa, deve confacersi all'evolversi dello sviluppo della stessa impresa, sicché la parte di reddito consumabile deve essere proporzionale alla quantità di reddito prodotta e, al tempo stesso, non essere quantitativamente in antinomia con la esigenza di favorire lo sviluppo dell'azienda. In base ad un tal principio di conduzione aziendale, e nell'astratta ipotesi che la vita dell'impresa sia raffigurabile con una curva continuamente ascendente, la parte di utile da erogare dovrebbe avere una costante, sia pur lenta, progressione, mentre la porzione del reddito da sottrarre alla distribuzione dovrebbe subire una corrispondente regressione. In termini concisi ed astratti, il consumo del reddito d'impresa dovrebbe seguire o rispecchiare quantitativamente la linea di sviluppo dell'impresa stessa, per poi assumere carattere di relativa staticità dal punto in cui la gestione aziendale raggiunge il suo sviluppo massimo possibile. Abbiamo scritto "relativa staticità", per non prescindere dall'alternanza o dalla discontinuità che, in ogni caso, resta propria del fenomeno della produzione del reddito d'impresa.
Innanzi abbiamo fatto riferimento all'amministratore di imprese aventi la struttura legale di società per azioni, e, nella sua figura, abbiamo individuato il soggetto interessato al buon andamento ed allo sviluppo dell'azienda, rispettoso, al tempo stesso, del diritto del socio all'equo dividendo.
Può essere utile notare, al riguardo, che allorquando amministratori dell'impresa societaria sono soggetti estranei all'ambiente degli azionisti proprietari, l'interesse di questi amministratori può non convergere verso lo sviluppo massimo dell'azienda. A cagione della dispersione del loro capitale sociale, nelle grandi società azionarie l'amministrazione é spesso accentrata nelle mani di dirigenti che non sono proprietari dell'azienda. Questi amministratori, talora, sono mossi dall'ambizione di promozioni e di riconoscimenti da parte dei soci e, per tali loro scopi personali, si preoccupano di distribuire un reddito congruo e stabile ed assicurare un valore di borsa delle azioni sociali in lenta, ma continua lievitazione. Il comportamento di questi amministratori non é, quindi, incline ad una assidua e razionale politica di ritenzione degli utili, per modo che la crescita della capacità produttiva dell'azienda, il suo stesso sviluppo si appalesano non già vigorosi bensì lenti e stentati (4).
La figura del dirigente - amministratore, qui adombrata, si differenzia da quella dell'amministratore - comproprietario dell'azienda, il quale ha generalmente un obiettivo convergente con quello del socio: la massimizzazione della capacità reddituale dell'impresa.
Si deve, d'altro canto, considerare che gli amministratori comproprietari dell'impresa possono assumere un atteggiamento che contrasta o non converge con le finalità oggettive dell'impresa stessa.
Allorquando essi, come sovente accade nella realtà delle società azionarie, sono detentori del "capitale di comando", possono essere portati ad attuare una particolare politica restrittiva di dividendi. Codesta tendenza all'assiduo contenimento degli utili distribuibili, però, può non essere ispirata, quanto meno in via diretta, al potenziamento ed allo sviluppo dell'impresa, perché può essere informata a obiettivi particolaristici, nel caso, ad esempio, che gli amministratori, detentori del pacchetto del capitale di comando, intendano perseguire lo scopo di indurre gli azionisti della minoranza a cedere le loro aliquote azionarie, in quanto vittime di una politica di dividendi restrittiva non riconosciuta o non compensata dal mercato borsistico. Il conseguente posseso totale del capitale può far conseguire agli amministratori (una volta padroni assoluti dell'azienda) lo scopo di vendere l'impresa e realizzare, in tal modo, quel profitto che non potrebbero ottenere nel caso non si fossero liberati delle minoranze azionarie. Non é chi non veda come una siffatta politica miri a soddisfare interessi soggettivi di persone o di gruppi di soggetti, non conformi agli interessi oggettivi dell'impresa.
Le fugaci considerazioni che abbiamo esposto intorno al tema del "profitto d'impresa" sono scaturite da un momento di riflessione cui siamo stati indotti dalla lettura di articoli, studi e note di diatribe fra studiosi di dottrine giuridiche ed economico-aziendali, apparse qua e là su riviste di economia e finanza, con cui si afferma la negazione del profitto d'impresa come condizione necessaria per impedire un processo di arricchimento della impresa in funzione antisociale. Da taluni - con varie argomentazioni di sapore politico - si vogliono cogliere, in quel processo, deprecabili forme di spoliazione in danno delle classi sociali lavoratrici e dello Stato percettore di ricchezza aziendale, attraverso il regime impositivo fiscale.
Gli argomenti che abbiamo svolto, sia pure fugacemente, vogliono essere una contestazione ed una demolizione logico conseguenziale di quelle affermazioni, convinti come siamo che l'impresa è una entità economica concepita, voluta, realizzata e retta in funzione sociale, quale fonte primaria di novella ricchezza destinata alla società, quale centro di produzione di benessere istituzionalmente rivolto al genere umano. Ordunque, se è vero, come è vero che l'impresa è ricchezza, è benessere per l'uomo, non è men vero che il suo profitto, ovvero il suo processo di potenziamento e di crescita - che dal profitto trae principale linfa - è condizione di sviluppo dell'economia dell'individuo, in termini di accrescimento di investimenti d'impresa, di produzione, di occupazione e di reddito conseguente. Sicchè, in codesta enunciazione, estratta da oggettiva osservazione della realtà d'impresa, vien da identificare l'equazione "profitto d'impresa - benessere sociale".
Il processo di formazione contabile del reddito di esercizio, le vie e gli accorgimenti in esso adottati - allorquando hanno il requisito della razionalità adducono a grandezze reddituali confacenti ai propositi stabiliti da una deliberata politica aziendale, che segna una linea logica di contemperamento della politica di consumo con la politica di ritenzione degli utili, di due politiche che sono significative dei due più importanti aspetti della "politica dei redditi" d'impresa.
Dobbiamo, ora, trattare della distribuzione del reddito periodico d'impresa fra i tre soggetti compartecipanti all'attività aziendale: il dipendente aziendale, il Fisco (o Stato) e l'imprenditore.
Il discorso che sarà svolto intorno alla distribuzione del reddito di esercizio fra i tre richiamati soggetti partecipanti alla produzione d'impresa attiene ad un aspetto della "politica dei redditi" di azienda di indole socio-economica, il quale si inserisce nella fase formativa dello stesso reddito con le destinazioni ex ante di parti di questo a favore dei dipendenti (sub specie di salari e stipendi). Lo stesso aspetto della politica reddituale, qui considerato, scaturisce da atti deliberati ed espressi ex post lo svolgimento del processo di formazione del reddito, e riflette le destinazioni di reddito fatte a favore: dello Stato (sotto forma di imposte, significative, come i salari e gli stipendi, di costi d'esercizio); dell'imprenditore (per la parte di reddito destinata ai suoi consumi) e della stessa impresa, obiettivamente considerata come organismo economico produttivo (per la tranche del suo reddito non prelevata e reinvestita nella sua stessa gestione, ai fini del miglioramento delle sue stesse condizioni di equilibrio) (5).
E' agevole comprendere che il comportamento dei tre partecipanti alla vicenda produttiva aziendale, portatori tutti di interessi divergenti, dovrebbe rispettare i limiti che salvaguardano le condizioni di esistenza e di sviluppo dell'azienda.
L'interesse del dipendente aziendale dovrebbe essere quello di far riconoscere alle altre forze economiche, cointeressate alla ripartizione del reddito di azienda, i legittimi ed inoppugnabili diritti del lavoratore d'impresa, senza però che l'azione di tale riconoscimento possa compromettere la sopravvivenza economica e la prosperità della azienda. Il comportamento di questo portatore di interessi non dovrebbe, cioè, trascendere i limiti al di là dei quali possono ledersi le condizioni di un profittevole motus aziendale, nella consapevolezza che la continuità di una proficua vita aziendale torna giovevole alla medesima categoria dei lavoratori (6).
Quanto al prelievo fiscale operato d'imperio da parte dello Stato, nella sua qualità di compartecipante all'attività aziendale ed alla distribuzione del relativo reddito, èappena utile sottolineare, pure da parte nostra, la necessità di disporre di una legislazione fiscale, di chiara ed univoca interpretazione, la quale tuteli gli equi interessi dello Stato ma, ad un tempo, non ignori e rispetti le esigenze oggettive che sono alla base della vitalità economica dell'impresa considerata come unità di produzione, come sistema economico elementare, come coordinata di quel sistema di coordinate che è il sistema economico generale.
La considerazione del prelievo fiscale involge la nozione di valore aggiunto, concepito come incremento di utilità conferito dall'impresa alla preesistente massa di beni impiegata nella sua attività produttiva (7).
La stessa considerazione postula la necessità che il prelievo fiscale rispetti i limiti segnati dalle condizioni di un efficiente funzionamento aziendale, nello spirito di consapevolezza che l'impresa - quale cellule del tessuto connettivo dell'economia nazionale, quale organismo creatore di ricchezza - opera a vantaggio non solo del soggetto aziendale, ma anche dei dipendenti dell'impresa e dell'intera collettività. Sviluppo e progresso delle imprese portando ad un accrescimento del reddito dell'attività aziendale, quindi ad un arricchimento del gettito fiscale, con conseguente, ovvio beneficio della società nazionale.
Al l'imprenditore, vero ed unico protagonista dell'attività d'impresa, compete una porzione del reddito aziendale che possa rappresentare una equa remunerazione del capitale proprio, in quella attività investito. Tale remunerazione va determinata tenendo conto, per altro, del saggio medio di investimento dei capitali desumibili dal particolare settore produttivo cui l'impresa appartiene. Più esattamente, il calcolo del rendimento dei capitali di rischio deve effettuarsi in base ad un tasso che sia l'espressione del compenso per l'uso del capitale proprio e per il rischio che tale uso comporta. Si può, al riguardo, determinare un rendimento medio dei capitali di rischio, impiegati nel settore di attività cui l'azienda appartiene, adottando un tasso che potrebbe ritenersi tipico dello stesso settore produttivo di appartenenza dell'azienda (8).
La misura dei tassi di remunerazione dei capitali di rischio delle imprese deve considerare l'andamento del sistema economico-generale e, in particolare, l'evolversi delle congiunture del dato settore economico in cui l'azienda è inserita (9). La stessa misura dei tassi in discorso non può andare ovviamente esente da arbitrio, a motivo del soggettivismo che è alla base della sua determinazione.
Considerato che la remunerazione del capitale proprio deve rispettare le condizioni di equilibrio economico dell'azienda, s'impone la necessità che l'imprenditore rinunci ad un congruo guadagno attuale allorquando tale rinuncia si appalesa indispensabile per un rafforzamento economico e finanziario dell'azienda, per la sua stessa economica sopravvivenza.
Come ben s'intende, i termini del discorso che si svolge intorno alla distribuzione del reddito aziendale restano invariati, nella loro essenza: il comportamento del lavoratore aziendale, dello Stato e quello dello stesso imprenditore, in sede di ripartizione del reddito d'impresa, non debbono prescindere dalle esigenze vitali di equilibrio e di sviluppo dell'azienda. Le tranches di reddito aziendale attribuibili ai tre partecipanti della produzione d'impresa debbono avere una misura che sia l'espressione del contemperamento dei legittimi interessi, pertinenti ai tre soggetti su indicati, con la inopinabile necessità, da essi stessi riconoscibile, di assicurare all'azienda condizioni di normale funzionamento, di progresso e di sviluppo. Proprio a questo fine, il consolidamento ed il miglioramento della situazione economico-finanziaria dell'azienda, deve essere assunta in obiettiva considerazione l'impresa come organismo produttore di ricchezza da devolvere a vantaggio del l'imprenditore, del lavoratore e dello Stato, a vantaggio insomma dell'intera collettività nazionale. Da qui, dunque, la necessità che il reddito d'impresa - tuttochè determinato con norme ispirate alla prudenza - non deve essere interamente distribuito o prelevato, ma deve, per una parte, essere risparmiato, restare in seno alla stessa impresa, per essere reinvestito in un base più allargata della sua produzione. Quest'ultima riflessione ci richiama al classico circuito della economia generale o collettiva, osservato nella organicità del suo evolversi: risparmio - investimenti - produzione - occupazione -reddito - risparmio. Il discorso allora si pone in termini di redditività sociale, dal quale scaturisce il concetto di gestire l'impresa in guisa da massimizzare la sua funzione di utilità sociale. Il che esige, anzi presuppone, a sua volta, che l'imprenditore sia posto dallo Stato e dalle forze sociali nelle condizioni di produrre il massimo profitto! Solo se si verificherà siffatta agognata situazione, sarà possibile e legittimo chiedere agli imprenditori una risposta sociale agli interrogativi del nostro tempo!
La parte del reddito di esercizio, non prelevato e reimpiegata nella gestione, costituisce il risparmio d'impresa è dà lungo al fenomeno dell'autofinanziamento. La tranche del reddito aziendale "risparmiata" ha misura varia e mutevole, nel tempo e nello spazio, essendo determinata in base alla capacità di reddito delle imprese, alle alterne vicende degli andamenti economici di esercizio, alle previsioni del divenire della produzione aziendale, alle congiunture attuali del sistema economico generale ed alle prospettive del suo evolversi. Il risparmio d'impresa - che presenta gli stessi caratteri di astrattezza e di incertezza del reddito di esercizio - può essere destinato, come è noto, alla stabilizzazione della remunerazione del capitale di rischio investito nella gestione, al finanziamento dell'espansione della azienda, all'allargamento della sua base operativa ed alla realizzazione di nuovi investimenti, giudicati preventivamente convenienti.
L'accantonamento nella gestione di una aliquota del reddito aziendale, destinata alla costituzione del risparmio d'impresa, rappresenta un aspetto di rilievo dal quale una sagace politica reddituale non può giammai prescindere, se con essa si vuole conseguire la finalità essenziale indicata dalla più vasta politica generale dell'azienda, quella cioè del consolidamento e dello sviluppo delle condizioni di equilibrio dell'impresa.
Torna tuttavia opportuno, a questo punto, richiamare taluni caratteri negativi che il risparmio d'impresa può presentare, allorquando esso si dilati molto al di là di quanto occorre ai fini della costituzione delle opportune riserve di stabilizzazione del reddito distribuibile e del finanziamento di nuovi investimenti destinati ad espandere l'attività aziendale. Un'avveduta e lungimirante politica, dei redditi deve considerare, per altro, che dosi massime di risparmio d'impresa, sopprimendo od attenuando sensibilmente gli utili distribuibili, darebbero adito, nell'ambiente dei comproprietari dell'azienda, ad opposizioni ed apprezzamenti sfavorevoli per la conduzione della stessa azienda, non sempre facilmente superabili e, in ogni caso, dannosi per la tranquillità della vita aziendale. La costituzione di capitale di risparmio in misura eccessiva o esuberante può inoltre incentivare non economici accrescimenti degli impianti; può favorire incauti investimenti in attività nelle quali gli organi decisionali dell'impresa posseggono scarsa conoscenza o insufficiente competenza economica e tecnico-amministrativa; può determinare concentrazioni o diffusioni territoriali degli investimenti di impresa particolarmente rischiosi; può dar luogo al cristallizzarsi di accentramenti di ricchezza sotto il dominio di un unico soggetto; può sottrarre cospicui impieghi di capitale all'azione esercitata dal costo del denaro sulle scelte di convenienza economica comparato.
Le considerazioni dianzi svolte riescono ad adombrare l'impegno che l'attuazione di una politica dei redditi, razionalmente concepita, presenta anche in relazione alla determinazione della tranche del reddito aziendale destinata alla formazione del risparmio d'impresa, ritenuto comunque a ragione strumento insostituibile di sviluppo e di progresso delle gestioni produttive. Il reinvestimento nell'impresa di una aliquota del reddito, da essa prodotto, risponde ad una esigenza di sviluppo che è avvertita da ogni organismo economico produttivo sono; è una condizione oggi vitale in una economia caratterizzata da intenso dinamismo, la quale, pertanto, deve essere fatta valere sempre dal l'imprenditore. Questa esigenza di sviluppo, in fondo, dovrebbe essere avvertita non solo dal soggetto aziendale, ma anche dai suoi collaboratori e dallo Stato, per i quali l'impresa rappresenta indiscutibilmente una vera e popria fonte di reddito, il centro motore del processo formativo e di quello distributivo del reddito nazionale (10).


NOTE
1) V. NIESCHLAG R., Der moderne Unternehmungsverbund, in "Der österreichische Betriebswirt", Vienna 1966.
2) In una economia di mercato "una impresa é una coordinazione diretta a produrre dei profitti ed il profitto é la prima misura del suo successo". DEAN J., Managerial Economics, Englewood Cliffs, N. Jork 1951, p. 3.
3) A scanso di erronee interpretazioni scaturibili dalla terminologia usato, precisiamo che la locuzione "politica dei profitti d'impresa" non ha significato autonomo o a sé stante, che la differenzi dalla dizione "politica dei redditi d'impresa". Quest'ultima dizione, col suo ampio significato, resta valida in ogni senso, esso riassume l'altra, ovvero porta alla "teoria della politica dei profitti d'impresa". Le considerazioni che noi stiamo svolgendo attengono ad un sistema economico di mercato libero, nel quale l'impresa gode di una autonomia decisionale, nelle limitazioni e nei vincoli, s'intende, posti dall'ordinamento giuridico del Paese in cui è inserita.
4) Al riguardo, v. MONSEN R. J. Jr. and DOWNS A., A theory of large managerial firms, in "The journal of Political Economy" , Chicago, June 1965, number 3.
5) Per l'aspetto della politica dei redditi d'impresa concernente la distribuzione fra le tre noti soggetti, di cui facciam discorso, v. CASSANDRO P. E. L'equilibrio dell'impresa e la politica dei redditi, in "Rivista di politica economica", Roma, gennaio 1967. Dello stesso Autore, Il bilancio oggettivo dell'impresa, in "Rivista dei Dottori Commercialisti", n. 3, Milano, maggio-giugno 1972.
6) Nei tempi in cui viviamo assistiamo, con vivo rammarico e fondata preoccupazione, al soverchiante potere politico raggiunto dalle forze sindacali del nostro paese, le quali costituiscono quasi uno Stato nello Stato. Talora l'azione che queste forze esercitano, in fatto di rivendicazione dei diritti dei lavoratori, appare irresponsabile e, perciò stesso, perniciosa per l'economia nazionale. All'insegna di un abusato slogan, la tutela dell'interesse delle classi lavoratrici, i sindacati promuovono agitazioni nei settori dell'attività produttiva nazionale, cagionando disordini e danni economici in genere rilevanti nell'apparato produttivo del paese. Nel quadro di queste azioni rivendicatrici sindacali - il più delle volte promosse o esasperate da finalità squisitamente politiche - si inserisce l'atteggiamento dei sindacati nazionali verso le imprese, con la sua negazione di quelle che sono le esigenze vitali dell'equilibrio di questi organismi economici produttori di ricchezza in favore, si badi, dell'intera collettività nazionale. Le menti direttive delle forze sindacali ignorano o, peggio, fingono di non sapere che, essendo i lavoratori dei soggetti compartecipanti alla distribuzione del reddito delle imprese, la condizione primaria di una politica di alti salari è l'aumento della produttività delle stesse imprese. In proposito, si legga con noi: "in ogni aspetto, la condizione prima di una fruttuosa politica degli alti salari e l'aumento della produttività d'impresa accompagnato di solito da una dilatazione quantitativa della produzione. Se gli accresciuti salari aumentassero i costi proporzionali d'impresa, l'atteso miglioramento delle condizioni delle produzioni e del lavoro in breve si esaurirebbe e si convertirebbe in una nuova dissipazione dei capitali investiti e delle qualificazioni conseguite dal lavoro. Solo una migliorata efficienza economica delle produzioni d'impresa conseguente, oltre che da un lavoro meglio qualificato e più solerte, da un conveniente impiego di capitali e dal concorso di ogni altro necessario fattore produttivo, può consentire una politica di alti salari economicamente vantaggiosa per i produttori e per comunità nazionale. Il massimo rendimento nel minimo tempo con il massimo salario non è mai raggiunto quando i capitali non accorrano in sufficiente volume ai fruttuosi investimenti d'impresa". ZAPPA G., Le produzioni, Tomo II pag. 324.
7) La stessa nozione di valore aggiunto corrisponde alla differenza tra una data somma di beni e di servigi che l'impresa attinge dall'ambiente e un'altra somma maggiore di beni o servigi che la stessa produce e restituisce all'ambiente medesimo.
8) Intendiamo l'espressione "tipico" nel senso statistico, ossia di tasso avente la più frequente verificazione in una data massa di osservazioni.
9) Nei tempi attuali, il rischio d'impresa si è fortemente accentuato per effetto dell'aggravarsi della pressione fiscale, delle sempre più insistenti spinte delle forze sindacali e dei frequenti, notevoli mutamenti di indirizzi di politica economica statale, ragion per cui la misura dei tassi di remunerazione del capitale di rischio delle imprese dovrebbe essere adeguatamente elevata.
10) L'esigenza di uno sviluppo delle imprese trova, per altro, una base - pur se, invero, assai ristretta - nelle norme del diritto positivo e in quelle degli statuti sociali delle società commerciali, le quali prescrivono l'obligo di accantonare una parte degli utili di esercizio per la costituzione di fondi di riserva.


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