Nelle cronache
d'altri tempi c'è un episodio singolare che merita di essere
ricordato. Quando Valletta era Presidente della Fiat, si racconta
che, ragionando liberamente di investimenti al Sud, disse ad un suo
collaboratore: "Non possiamo distogliere energie che sono immagazzinate
e possono soltanto qui compiere sforzi creativi..!". Poi scattò
in piedi e aggiunse con forza: "Devo raccontarla così!".
Ci sembra un episodio significativo, sia per scoprire un inedito Valletta
meridionalista sia per capire quanto ostile e condizionante fosse
l'alta dirigenza industriale del tempo, decisamente contraria ad avventure
fuori porta, al punto da tenere in pugno persino un uomo prestigioso
come Valletta.
La progressiva internazionalizzazione dell'economia ha certamente
mitigato questa intransigenza della cultura industriale verso approcci
con realtà economiche diverse, come quella meridionale. Alla
maggiore disponibilità della classe imprenditoriale non sembrano
tuttavia corrispondere adeguati strumenti di politica economica di
estrazione statale. Nel rapporto tra Sud e crisi italiana si riproducono
le perplessità degli Anni '50 in ordine alla qualità
della struttura produttiva da collocare nelle aree meridionali. Una
cosa è infatti la prospettiva di una industrializzazione diffusa,
ancorata alle esigenze tecnicoscientifiche richieste dal modello nazionale
che si cerca di accreditare; altra cosa è il perpetuarsi di
uno stato di degrado che registra l'isolamento e il declino dei grandi
complessi insediati al Sud, a complemento dei quali sono sorte e hanno
prosperato soltanto attività tipiche da economia sommersa (calzature,
abbigliamento, ecc ... ).
Questa marcia a ritroso del divario in termini qualitativi è
agevolmente rilevabile dalle numerose radiografie operate sulla evoluzione
più recente dei singoli comparti produttivi. Nel momento in
cui al Nord si promuovono processi incisivi di ristrutturazione industriale,
si impongono dunque interrogativi legittimi sulla direzione spaziale
del futuro sviluppo e sulle opzioni tecnico economiche che in questo
senso il Meridione presenta. Da qui la necessità di approfondire
il contenzioso aperto dalle Regioni meridionali per agganciare lo
sviluppo di queste aree alla tematica della riorganizzazione produttiva
posta su scala nazionale. E quindi la necessità di sollecitare
l'insediamento nel Mezzogiorno di centri direzionali e di ricerca,
che consentano di evitare il prodursi di uno sviluppo calato dall'esterno,
sostanzialmente estraneo alle aree d'insediamento, ispirato a motivi
(reali o presunti) di provvisorietà.

Altra lacuna
rilevante, insita nel divario, è costituita dall'assenza di
una struttura produttiva meridionale armonicamente distribuita per
dimensioni, settori e territorio. Mancano gli elementi di connessione
settoriale dal momento che coesistono industrie primarie, come la
siderurgia e la chimica, con imprese a basso valore aggiunto, estranee
all'indotto, che peraltro assicurano sostegno reale all'attuale momento
dell'economia meridionale. Una realtà bifronte dà volto
e significato al tessuto produttivo producendo le contraddizioni imperanti
nella delicata situazione di transizione che il sistema attraversa.
La vetrina meridionale offre al momento uno strano spettacolo di convivenza
tra una fascia cospicua di economia sussidiata ed una fascia rilevante,
sebbene minoritaria, di economia sommersa. Ciò suggerisce la
necessità di valutare i rischi sociali connessi al perpetuarsi
di questo fenomeno anomalo, che vogliamo ritenere estraneo a tentazioni
stabilizzatrici.
La difficile lettura dei mutamenti nelle classi di reddito, intervenuti
in concomitanza dell'alto grado di inflazione registrato nell'ultimo
decennio e non ancora esaurito, propone uno schema di società
che muta non secondo rapporti tradizionali di accumulazione, ma per
convergenze e compatibilità spontanee, seguendo la logica abnorme
del sistema in cui vive. Dunque uno spaccato sociale di difficile
interpretazione, prodotto da un inestricabile groviglio di attese
esasperate, sovvenzioni, criminalità organizzata, occasioni
di lavoro precario, da cui emerge l'assenza di nuclei consolidati
nella struttura produttiva. Ciò rende difficile la composizione
degli aggregati sociali ed alimenta una conflittualità nuova
tra domande e risposte dovute dallo Stato e dalla Pubblica Amministrazione.
Il Mezzogiorno dunque rimane contrassegnato da caratteri omogenei
di debolezza, ancorati ad una forma di passività propositiva
che tende ad atrofizzare la generale dinamica dello sviluppo. Ne consegue
l'obbligo di riaffermare l'elaborazione non di un modello separato
ma di un modello unico, a carattere nazionale, entro cui situare le
linee d'intervento più idonee a produrre la ricerca di uno
sviluppo diffuso. Con il corollario non trascurabile di un necessario
coordinamento tra i vari livelli di governo, per rendere praticabile
l'ipotesi preordinata e quindi la gestione complessiva ed armonica
degli interventi.


Elaborare una strategia per il Mezzogiorno nella crisi della economia
italiana è certo una situazione nuova, priva di precedenti
sperimentazioni. Finora il modello italiano è stata caratterizzato
da uno stato di pieno impiego al Centro-Nord e da un alto tasso di
disoccupazione al Sud. Adesso il Centro-Nord registra una rilevante
disoccupazione, residua del riordino strutturale dell'apparato industriale,
e quindi sollecita una tematica d'intervento per molti versi analoga
a quella in uso per i problemi meridionali. Ciò rafforza la
necessità di adottare misure globali di politica economica
che, nel contesto di una tendenza generalizzata di contenimento dei
consumi, diano ampio spazio alle sollecitazioni per gli investimenti.
Alla politica meridionalista si presenta, crediamo per la prima volta
nella storia unitaria, l'occasione di legittimare la compatibilità,
se non l'identità, dei suoi problemi con quelli più
ampi della generale politica economica. Quindi le nuove lacalizzazioni
di capitale produttivo al Sud dovrebbero essere pesate non in "aggiunta"
al capitale impegnato nel Centro-Nord, ma seguendo un ordine logico
degli investimenti, che colloca nel Mezzogiorno la loro maggiore intensificazione
in virtù dei fattori d'impiego più dinamici presenti
nell'area (maggiore disponibilità di forza-lavoro, minore concentrazione
di unità aziendali, più facile accesso ai mercati medio-orientali
di recente acquisizione). In quest'ottica, gli strumenti adottati
per la politica industriale andrebbero ripensati in modo da evitare
situazioni di concorrenzialità o di conflitto nell'uso di fondi
disponibili. E quindi richiede nuova attenzione la necessità
di contenere il frazionamento dei centri decisionali nell'assolvere
il compito di destinazione degli impieghi.
E' pur vero che i programmi per il Mezzogiorno risultano già
inseriti all'interno delle procedure e degli istituti della programmazione
e quindi trovano inquadramento nel bilancio programmatico pluriennale,
nella legge finanziaria e nei bilanci annuali di cassa e di competenza.
Ciò tuttavia non risponde con sufficienza ai problemi di coordinamento
operativo fra intervento ordinario e straordinario nè garantisce
l'assunzione della priorità meridionalistica nella prassi amministrativa.
I problemi di collegamento istituzionale rivestono quindi primaria
importanza nella messo a punto di un nuovo modello che pretende di
gestire lo sviluppo nel medio periodo.
L'obiettivo principale da perseguire resta quello di limitare le misure
di assistenza ad aree giudicate senza prospettive per liberare risorse
a vantaggio della politica di sviluppo delle altre aree. Va quindi
corretta in modo sostanziale la realtà di un Mezzogiorno generalmente
assistito, di cui si ha riscontro in numerose analisi economiche.
In questo senso saranno determinanti le valutazioni che dovranno essere
elaborate in sede regionale con il concorso degli enti minori.
Essendo l'attuale fase del dibattito sulla politica economica centrata
sui temi del disavanzo, può sembrare naturale che in una prospettiva
di ripresa si tenda ad orientare le risorse secondo disegni di razionalizzazione
dell'apparato esistente, rinviando ancora l'impegno per il Mezzogiorno.
La logica dei due tempi, questa volta motivata da ragioni di opportunità
tecnica più che dalla necessità di colmare un ritardo
infrastrutturale, va contestata con argomenti di interesse economico
generale. Va segnalato in proposito che i forti differenziali presenti
nei livelli di produttività tra settori ed aree diverse costituiscono
un fattore rilevante dello squilibrio strutturale, che in qualche
misura rende ragione anche degli eccessi nella spesa pubblica. Riteniamo
quindi che le condizioni dello squilibrio produttivo non vadano accentuate
sotto la spinta delle esigenze di riordino prospettate dalla più
forte economia del Centro-Nord, ma vadano invece bilanciate sollecitando
le spinte più dinamiche dell'economia meridionale. Questa correzione
di rotta dovrebbe essere chiara, tra l'altro, a chi si occupa di valutazioni
macroeconomiche, poichè è implicito nella strozzatura
considerata l'esistenza di una componente dell'inflazione strutturale.
Occorre radicare la convinzione che il perseguimento di politiche
strutturali di medio periodo assume importanza decisiva per il riordino
globale del sistema e che questo approccio alla realtà attuale
non può essere subordinato ad altre misure contingenti elaborate
soprattutto sotto la spinta delle esigenze proprie della politica
monetaria. La fase operativa dell'indirizzo auspicato richiede comunque
una spiegazione dei fenomeni che hanno prodotto la scarsa integrazione
tra le realtà locali coinvolte nel processo di sviluppo industriale
già avviato nelle aree meridionali. Questo concetto dell'integrazione
va proposto e perseguito a tutti i livelli, poichè coglie un
momento rilevante delle ragioni che danno corpo sia alla dipendenza
meridionale, sia ai difetti più generali di direzione strategica
dell'economia nazionale.