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L'INEDITO
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da "MASTRO COLA CREATORE" |
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Francesco
Cappiello
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Gli
uomini in Feralgìa non erano valutati e distinti per i differenti
apprezza
menti d'intelligenza e di buaggine, d'integrità e di spudoratezza, di laboriosità e di trufferia, ma per l'appartenenza al Colismo o al Macarismo; e Colismo e Macarismo, a seconda della tendenza degli adepti, accumulavano nei partigiani tutti i valori morali e negli avversari tutte le malvagità. Non si era inoltre nemmeno d'accordo circa la derivazione dei programmi, perché i Macaristi sostenevano e si persuadevano vicendevolmente dell'esistenza in tempi lontani (la frazione più audace affermava la sopravvivenza) d'un mitico Cola; e i Colisti affermavano che Cola non fosse mai esistito ma che il popolo avesse personificato l'abitudine del lavoro e l'elevazione morale in un personaggio mitico: Cola perciò da colere e non da Cola vissuto ed operante nell'attributo di mastro Cola. Pei Colisti poi il Macarismo esisteva come aspirazione dell'animo ma non come realtà operante: si poteva ammettere un'idea macarista ma non individui macaristi. Eppure, nonostante quella negazione logica, i Macaristi esistevano schiamazzanti, fracassanti, urlanti la felicità per tutti, purché non fossero più vissuti gli avversari, e fosse annientato finanche nel ricordo mastro Cola. Questi, nell'irriconoscibilità di Saggio Colante, subiva quasi una deificazione da parte dei Macaristi, i quali attribuivano a lui l'idea ispiratrice e le dimostrazioni inconfutabili di una palingenesi. Dai giornali, che per tanti anni avevano col suo nome stampato articoli su ogni questionaccia e questioncina, per necessità di propaganda si compilavano raccolte, commenti, estratti; ed ognuno li accomodava, interpretava, mosaicizzava a suo modo, e trovava non una ma interminabili prove della continuità e della saldezza d'un'azione rinnovellatrice. Saggio Colante aveva preveduto e studiato le differenti questioni anche nei rapporti astronomici: non aveva infatti una sera parlato dei Seleniti e della necessità della luna in Feralgìa? Sulla luna in Feralgía erano tutti concordi, e il grido di lotta dei Macaristi era "Vogliamo la luna"; ma non erano unanimi circa la determinazione delle circostanze per l'annunzio della luna in Feralgía. GI'intransigenti sostenevano che la sera tale, in quel posto, con l'abito confezionato così e così, Saggio Colante avesse bandito tra il tumulto infernale dei Colisti, la necessità inderogabile della luna con dati precisi e tuttora inconfutabili (citavano per riprova formule matematiche e filze di cifre astronomiche); i moderati documentavano che non avesse parlato Saggio Colante, ma che avesse indotto quella sera, in quel posto, con abiti confezionati così e così, due grandi astronomi, venuti dalla Caldea, ad annunziare la necessità della luna in Feralgía; ed un terzo gruppo, quello dei pacificatori, che per disciplina di partito guadagnava maggior consensi, proclamava che quella sera, in quel posto, con l'abito così e così Saggio Colante fosse apparso coi due astronomi, che costoro avessero letto un suo discorso: né era pensabile che avessero parlato improvvisando, perché per essere caldei, non conoscevano la lingua di Feralgía. Il meglio sarebbe stato interrogare Saggio Colante; ma se questi rappresentava la previdenza la luminosità l'onniscienza nei rapporti culturali, nessuno si occupava della sua persona tangibile. Era in tanti volumi e giornali mitizzato per la folla, e nella realtà giornaliera costretto a restare in casa; viveva lì fastidioso a sé e agli altri per la sua presenza, perché Arruffina, temendo di una storditaggine, aveva dato ordine alla servitù di non permettergli l'uscita. Egli nella tempesta d'esaltazioni e di sempre rinnovati progetti di felicità, immancabile perché voluta, cominciò a dubitare della sua stessa identità e a concepire un altro Saggio Colante lontanissimo e imprecisabile, il quale mutasse aspetto ad ogni girare di sole e da una bocca immensa buttasse parole stranamente accoppiate, che rendevano gli uomini deliranti come per filtri afrodisiaci. Ma a chi domandare conferma del sospetto? Una sera sorprese nel viso di Arruffina un'espressione di calma, e ne profittò per chiedere notizie precise di quel lontanissimo ed imprecisabile Saggio Colante. La moglie gli sorrise compiaciuta come nei primi anni di matrimonio, quando egli per qualche bicchiere bevuto in più all'osteria rincasava col cappello a sghimbescio e con una fiamma furbacchiona negli occhi, e chiese: - Sei in vena di scherzare? o vuoi creare uno scisma tra unitari e dualisti? Saggio Colante è una comoda finzione per fissare un punto di partenza, un riferimento ed un legame, ai quali attaccare le funicelle invisibili dei tuoi bambocci e muoverli ora a destra ora a sinistra. Essi non avvertono le funicelle, ma credono ad un Saggio Colante ed a lui attribuiscono le loro stamberie. Certo guai se Saggio Colante, cioè tu in carne e ossa volessi schiarire la loro mente e convincerli che il creduto sapiente sia mastro Cola in persona, lo stessissimo che un giorno li sbozzò con l'ascia e con lo scalpello i Nel furore ti schiaccerebbero come un insetto immondo, perché la folla non perdona ai menomatori dei propri idoli. Ed ha ragione! Costa sforzi costruire un idolo, e questo, quando è costruito, rende servizio col risparmiare il dubbio e la ricerca. Credi tu che io potrei dare la felicità questa volta veramente universale, se gli uomini dubitassero dell'esistenza e della volontà di bene di Saggio Colante? A me soltanto è riservato e per causa tua il non essere tranquilla, perché tu non vuoi credere nel nostro Saggio Colante, e puoi commettere per la tua ostinatezza chissà quale rovina di famiglia e sterminio sociale. Per amor mio, Saggio, - e Arruffina gli buttò carezzevole le braccia al collo, - credi tu pure al nostro Saggio e non dubitare un momento, affinché non ti sfugga un'incertezza che divenga sospetto nei tuoi pupi e li scinda in lotta furibonda. Come sarebbe possibile allora colore per tutti la felicità assoluto? Se io avessi dubitato... Ma credi che avrei vestito i tuoi pupazzi? li avrei seguiti con premura nelle loro manifestazioni? e avrei reso realtà l'aspirazione dei Macaristi? Ma io ho creduto nel mio Saggio Colante. Il marito premette la mano sulle braccia e sul capo di Arruffina, si pizzicò un orecchio e si tirò una ciocca di capelli, per convincersi che lui e Arruffina in quel l'atteggiamento affettuoso non fossero una visione improvvisamente dileguabile, e chiese: - Ma esiste la felicità, la vera, quella che rasserena ed accresce la volontà di vita? - Ma altro! trovarla è difficile, perché proprio le idee più semplici sono le più lente a venire. Da domani vedrai la gioia dei tuoi pupazzi. Oramai siamo fuori di incertezza; e questa notte si propagherà fulmineo la rivoluzione. Non una goccia di sangue! In altri tempi gli uomini si uccidevano bestialmente e si schiacciavano a vicenda per i loro incubi di giustizia e di pace. A te questa sera (m'hai promesso di non dubitare di Saggio Colante) vorrò mostrare l'origine arcana della nuova vita. - Arruffina gli prese la mano e lo guidò come una mamma premurosa. Davanti la porta del salone spiegò: - Guarda a destra ed a sinistra: il corridoio appare prolungato, ed è stato esteso davvero non per le nostre stanze soltanto, ma in lunghezza di chilometri con un passaggio sotterraneo. I congiurati moveranno in ordine e distanziati dalla sede dei Macaristi: nel salone subiranno la loro trasformazione e prenderanno poi di qui il cammino in modo da ritrovarsi nello stanzone della Borsa, riconoscersi scambievolmente, prendere i primi accordi e iniziare la felicità di Feralgía. Spinse l'uscio e introdusse nel serbatoio della felicità il marito. Questi quasi non riconobbe il vano che era servito per le adunanze costose e per i banchetti d'un tempo. Raschiate dai muri le pitture consuete di putti alati e di donnette con cetre e veli svolazzanti, e sostituite con striature e sbuffi di rosso ed azzurro, sgombrati i mobili lucenti e i ninnoli fragili per fare posto a scaffaloni carichi di ceste, sembrava un magazzeno di grasce in attesa d'inaugurazione. Una diecina di uomini con giacchettucce nere e pantaloni aderenti erano disposti guardinghi e silenziosi presso i vari scaffali. Dal soffitto irrompeva la luce violenta a mezzo di due riflettori elettrici. le ceste erano facilmente tirabili. Saggio Colante provò con una, e la trovò colma di bracciali con la stampiglia "organizzatori"; ne smosse un'altra, e vide altri bracciali con la scritta "costruttori"; ed ancora altre ed altre e lesse "legislatori, fornai, critici, facchini, propagandistici, sguatteri"... tutte le professioni e tutti i mestieri. Al suo sorriso di sorpresa, Arruffina spiegò: - Nel passato tutto è andato male, perché gli uomini erano impiegati a casaccio, ed ognuno non era adatto alla propria attribuzione. Inoltre i Colisti erano diabolicamente perseveranti nell'oscurare e perturbare lo scopo della vita stessa: la felicità. - Erano molti i Colisti? - Moltissimi. - Ed ora? - li abbiamo individuati e numerati, e non ammetteremo perturbamenti ed intrusioni: da una parte i Colisti, dall'altra i Macaristi; ed ognuno avrà ricompense ed incombenze, delle quali sarà degno. La rivoluzione sarà pacifica: un vero ordinamento spirituale, che darà a tutti la felicità. Saggio Colante non poté, per ordine di Arruffina, assistere alla metamorfosi beatificante dei feralgini; ma dalla soprastante camera avvertì, tra sonnolenza e bruschi risvegli, che nel salone la folla doveva essere immensa e tumultuante. I primi gruppi di Macaristi infatti erano sfilati dignitosi e concilianti, avevano preso i bracciali loro offerti e li avevano infilati giulivi per le parti loro assegnate; poi erano sopravvenute schiere urlanti per i loro meriti speciali e non rassegnate a cariche umili; orde di energumeni, che avevano travolto i distributori e si erano picchiati a sangue nella scelta delle attribuzioni; saccheggiatori e profittatori, che avevano agguantato quattro o cinque di quelle bende stampigliate per rivenderle a prezzi di favore; e folla sempre nuova, schiamazzante, fracassante e rissante. I bracciali erano tutti scomparsi; e fiumane di gente irrompevano ancora. Si erano per necessità adattate camicie, mutande, lenzuola; strappati e tagliati cortinaggi, tendine, tappeti; e impresse stampiglie con furente rapidità sino a due o tre su un medesimo cencio. Non restava più un palmo di stoffa; e si ammassava ancora folla, e nella ressa e nella violenza per agguantare erano balenati coltelli e rintronate rivoltellate. Cursore, Arruffina, i capi della congiura erano in tempo fuggiti terrorizzati ed avevano sollecitato l'intervento di guardie e di pompieri. Non erano mancati feriti e morti; ma dopo una lotta di due ore erano stati sgombrati salone e corridoio, sbarrati gli accessi, dispersa la folla tumultuante e salvate dal saccheggio la dimora di Arruffina e le abitazioni ricche del quartiere. Donde erano allagati tanti Macaristi? Tra gli stessi capi della congiura il disaccordo era tumultuoso: chi gridava d'avere sempre sostenuto che il Macarismo era una irruzione di folle e che s'era perduto tempo nel rimandare la rivoluzione; chi accusava altri di fiacchezza e corruzione per avere aperto i cancelli ai Colisti; chi sosteneva la necessità di un'immediata decisione; chi propendeva per un accrescimento di adepti in vista di una possibile reazione; e chi gridava per gridare. Tra i gruppi di tendenze, riuniti in luoghi diversi, non erano capitati morti, ma seggiole fracassate, occhi e nasi pesti, capi sanguinanti e sventagliamenti d'immoralità pubbliche e private. Gli spiriti si calmarono nelle ore gelide del mattino: gli uomini fortunati per godere, dell'evento, i profittatori per ingraziarsi i potenti, i camuffati per celare il loro passato di Colisti, gli scontenti per preparare in silenzio nuove scissioni e nuovi sovvertimenti; e i moltissimi, che nulla capivano e molto speravano, per esperimentare l'adattabilità al guadagno. Feralgía sembrava un attruppamento sterminato di girelloni in vacanza: uomini che s'abbracciavano e prorompevano in grida di gioia, giovanotti e ragazzi ballanti nelle piazze, caffè affollati, fabbriche deserte. Tutti avvertivano nell'occasione gl'inconvenienti della pessima edilizia, perché la mancanza di finestre e di balconi verso le strade non consentiva esposizione di drappi ed impediva alle donne di ammirare i loro eroi nelle strade. I giornali annunziavano in gara d'iperboli lo svolgimento tranquillissimo dei Macarismo, la rivoluzione avvenuta nella concordia e con ordine esemplare, la felicità finalmente attuata in Feralgía. Si rilevava con troppa insistenza che nella notte nemmeno un pugno fosse stato scambiato, e si citavano episodi meravigliosi di civismo e di galanteria. Come gragnuola fitta piovevano lodi su tutto e su tutti: sui distributori, sugli organizzatori, sui primi accorsi, sugli ultimi arrivati, sulle donne pudiche e sugli uomini ardimentosi; ma non v'era nemmeno un accenno alle guardie e ai pompieri, che avevano salvato Feralgía dallo scompiglio. L'intonazione nei giornali era eguale; ma il linguaggio era quanto di più ibrido e stridente potesse capitare nello stesso paradiso dei Macaristi: svarioni, parole in gergo, rievocazioni anacronistiche, sconclusioni... "Esuberanze di fattivo entusiasmo", commentavano i furbacchioni; "dall'albero i frutti!" insinuavano gli scontenti inguaribili: "hanno dato i bracciali di redattori a tavernieri, conciabrocche, becchini". Una constatazione era ovvia; dopo l'avvento dei Macaristi l'accordo per l'esaltazione era completo nella stampa, il disaccordo era immensurabile tra i lettori: sembrava anzi che l'intonazione laudativa dei primi, a seconda dell'intensità, fosse il termometro della depressione, del fastidio, dell'insofferenza del pubblico. Eppure questo godeva di una stampa libera: tale riconoscimento era uno dei capisaldi del movimento, ma per varie ragioni il principio era più proclamato che attuato. I giornalisti erano infatti sottoposti alle stesse necessità degli altri Macaristi, dovevano cioè provvedere ai bisogni comuni e indispensabili della vita, come il bere il mangiare il vestire; i giornali nel loro formato gigantesco erano costosissimi, e per tale motivo impiantati e sovvenzionati dalla Banca; e i giornalisti comprendevano bene che dovevano anzitutto piacere alla Banca, la quale pagava. Perciò per Arruffina, Cursore, Saggio Colante e per la glorificazione del Macarismo lo stesso vocabolario nella dovizia di parole encomiastiche fu presto esaurito. Si adoperavano superlativi, e, per surrogato alle parole trite, voci a mosaico di termini greci, come callogatia per la bellezza benigna di Arruffina, euprassia per l'attività operatrice di Cursore, neomatesi per il pensiero innovatore di Saggio Colante. Per giunta i vecchi giornalisti, dopo il primo smarrimento dell'oscurità e della miseria, avevano dimostrato come già avessero preveduto e favorito il nuovo movimento; qualmente fossero stati costretti a tacere dal prepotere della vecchia fazione; e che il dannabile passato avesse per loro subìto attacchi invisibili ma implacabili. Furono perciò riammessi nel branco e, perchè avevano meglio esercitata la voce e più rapida l'intonazione, divennero i cantanti di cartello: sapevano dove battere e battevano bene. Il Macarismo era il ritrovato più bello, perché, accordando a tutti assolute e impensate libertà, garentiva la felicità. La storia, con l'avvento della felicità, si divideva in due periodi: prima e dopo il Macarismo; quanto si era pensato ed attuato prima era oppressione, sfruttamento, terrore; quanto dopo diveniva inondazione di beatitudine. E non si restò alle parole; le opere nuove pullularono con la simultaneità del lampo e del tuono. I primi a lavorare con ininterruzione ossessionante furono scultori e storici. Da calcoli approssimativi, poi discussi e precisati, risultò che tra grossi monumenti, statue e targhe marmoree erano riprodotte le sembianze di 6560 illustri trapassati. Gli storici dimostrarono che i 6560, nessuno escluso, erano stati o rozzi legislatori e scienziati plagiari o falsi patrioti o poeti sgrammaticati e tutti, come proclamavano i giornali, fetidi Colisti. Bisognava cancellare la memoria della passata abiezione; e gli scultori avrebbero dovuto lavorare anni a scolpire massi di marmo se Cursore nei primi anni di Feralgìa non avesse disposto che tutti i monumenti fossero costruiti con teste smontabili. Così si modellarono nuove teste, e di queste, per affrettare il lavoro, si acquistarono nel reame di Feralgìa e dai musei stranieri intere collezioni. Quando fu ammassata una provvista sufficiente non solo ai bisogni immediati ma anche a quelli di venture generazioni, in due notti si procedette allo smontamento e montamento di vecchi e nuovi immortali. Nonostante la luce vivissima delle lampade, o per sbaglio di cartelli o per storditezza di accomodatori o per nuova espressione di arte, capitarono faccioni vitelleschi su busti mingherlini, teste con elmi solenni di guerrieri greci su corpicciuoli coperti da giacchette o da finanziere, capi ricciuti e visi apollinei su torsi piantati come sacchi gonfi su cavallucci con una zampa alzata. Furono proteste, accoramenti degl'intenditori come per una sciagura nazionale; risate e commenti lieti nel pubblico; allarme di controrivoluzione nei giornali. Ma i matematici calcolarono che, per provare in movimenti distinti l'adattabilità di tutte le teste su 6560 colli, occorresse un numero interminabile di anni. I giornali avvertiti proclamarono che l'arte non è riproduzione ma visione dell'artista e composizione d'ispirazioni differenti; i preposti alla monumentalità fecero scalpellare i vecchi nomi ed incidere i nuovi; e il pubblico non rise più e si adattò a celebrare e portare corone a guerrieri con teste sognanti di poeti ed a legislatori con vezzosi sorrisi di Dionisi inebriati. Ma la rivoluzione immediata fu nella poesia. Tutti concordi sostenevano che non poteva attuarsi il Macarismo senza un rinnovamento della modulazione e del l'espressività del linguaggio; e i più persuasi di rinnovamenti, tormentati da una satiriasi di novità ed originalità, erano i bertuccioni che per anni e anni avavano ricalcato motivi e disposizioni consuete di parole. Per costoro la poesia doveva essere visiva, in parte uditiva, essenzialmente innovatrice. E per innovare non mancavano la voglia e le possibilità. Vennero per l'occasione giornali e giornaletti a turbini prima con nomi di ardimento (Scotimento, Rompivoci, Turbine, Ariete), più tardi, e per conferma delle innovazioni o per ricordo dei più riusciti tentativi, con denominazioni animalesche ed anatomiche (Colombella, Ranocchietta, Tartaruga, Orecchio mozza). Nei primi giorni, a leggere tanti fogli differenti anche per i colori della carta giallina azzurrognola verdastra rossiccia, si avvertiva un'intonazione di risorta Arcadia: tutti grandi, tutti originali, tutti in rottura col passato retorico ozioso inconcludente sillabante. Poi qua e là apparvero screzi: l'indiscusso X nell'anno tale aveva lodato un libro di versi dalle sillabe contate, perciò era sospetto; l'ardente Y non aveva scritto nulla ma frequentava i circoli colisti di cadaverica letteratura; il dottissimo Z, con l'avvento dei Macaristi in improvviso atteggiamento scapigliato, aveva prima guadagnato un premio letterario sostenendo l'immutabilità della parola e la rigidezza della grammatica. Gli screzi divennero. presto tagli e in un crescendo continuo fessure, crepacci, rovine, abissi incolmabili di furore e di odio. I giornali risposero finalmente ai primi titoli, perché divennero scotimenti di consuetudini corrette, rompivoci di parolacce, turbini d'insulti, arieti cozzanti con furia bestiale. E coi giornali fu rapida la formazione di attruppamenti di giovincelli, di cenobietti di maturi, di chiesuole e cori di giubilati. Gli spiriti erano così furenti nell'attacco, che ogni fazione non badò nemmeno ad una possibile difesa: erano tutti nella posizione di conquistadores, che bruciassero i vascelli, decisi allo sterminio ed alla conquista di terre avverse. La lotta non compiuta con cannonate ed archibugiate e nemmeno con lancio di frecce e di pietre, ma con nugoli di parole: nugoli che si opponevano a nugoli e che non disorientavano né stancavano i gruppi degli assalitori. Questi anzi, spostando continuamente bersaglio, si scambiavano le parti, divenendo difensori di quanto prima avevano accusato e viceversa, quasi con le medesime parole: i letterati a Feralgía credevano soltanto nelle parole. E poiché nel più intricato labirinto, per troppo girare smarrirsi e battere qua e la il capo, un'uscita si trova, gli scrittori vecchi e nuovi finalmente si persuasero che a Feralgìa non era mai, esistita una letteratura, non si era mai adoperata una lingua adatta, non si era mai pensata e sentita artisticamente una passione, che si poteva perciò bruciare tutti i libri senza danno dei posteri (libri che a Cursore erano costati non pochi quattrini per le sole rilegature), e che la nuova letteratura cominciava dai loro giornali e dalle opere che presto non sarebbero mancate. Difatti non mancarono, e furono quali l'indole e gli scopi di Feralgìa richiedevano. Gli scrittori si rivelarono poeti, critici e programmisti insieme; ognuno possedeva il suo bravo recipe, per guarire il male della passata e animare una nuova letteratura. I primi passi furono un pò guardinghi (violazione di sintassi, sconcatenamento di pensieri, mutilazione di parole), poi ognuno prese coraggio e decisamente propose e attuò le sue vedute. Un giorno fu decretata e sostenuta come necessità inderogabile la soppressione degli aggettivi, un altro giorno l'indeterminatezza dei verbi, poi l'aggrovigliamento delle parole e finanche la necessità della loro incomprensione. Improvvisamente si parlò di poesia viva e di figure animalesche che quella doveva attuare; e si disposero le parole in modo da attuare aquile tartarughe ranocchi. Ma qui la critica sorse implacabile e sferzante, perché a parte il furore degli adepti a singoli animali, e che si nomavano aquilotti tartarugoni ranocchianti proboscidali ecc., molti impunemente frodavano. Con la diligente collaborazione del prato e con accorgimenti sottili combinavano caratteri diversi, smozzicavano e gonfiavano Ie paroIe in modo da formare figure perfette. No! l'arte non poteva rinunziare alle proprie leggi, e le nuove retoriche non ammettevano deroghe: o la decrepita poesia (la classificavano così dopo qualche mese appena di vita) con libertà di parole o la nuova con la rigidezza dei vocaboli: niente frammischiamenti. le tempeste per fortuna si scatenavano tra nubi tanto lontane che alla masso dei feralgini perveniva soltanto l'eco. Eppure tutti scrivevano e pensavano per la massa, e questa era divenuta d'uno stupefacente disinteressamento: non manifestavano nemmeno gratitudine per i numerosi poeti, che l'avevano liberata dal tormentare l'animo e gli occhi nella lettura di lunghi racconti o nella commozione di sentimenti consueti. Nella massa ancora suscitava incanto e rapimento la lettura di libri spregiati d'un'arte che si diceva bambinesca: Le mille e una notte, Morgante, Lu cuntu de li cunti. Invano si tentarono rimedi drastici. Tra gli scrittori critici si propagò una tregua di Dio: si parlò di tradizione che era innovazione, d'idealismo che diveniva realismo, di comprensione che significava espressione; ed a turno, da buoni amici, ogni settimana fu bandita l'apparizione d'un capolavoro. Ma i capolavori si ammucchiavano intonsi nelle biblioteche, nelle sale di lettura, nei raduni letterari, finanche nelle sale di aspetto delle stazioni. Gli uomini erano disperatamente decisi a non leggere che libri stantii. Allora la crisi ebbe il suo ravvedimento: giacché soltanto i libri vecchi erano letti, bisognava cogliere di questi il segreto e rimanipolarlo per dosi nelle nuove produzioni; e affinché nella ricerca non capitassero errori, si applicò il metodo matematico, e si proclamò sovrana la statistica. Nei giornali letterari capitarono improvvisi allagamenti di numeri sulle parole più usate in vecchi e non morti libri, su quelle meno usate, sul numero più frequente di vocaboli in ogni riga e delle righe nei periodi diversi, rapporti sui singoli autori sulle opere d'uno stesso autore con grafici e riferimento di secoli. E i calcoli erano così ponderosi e complicati, che si avvertiva necessità di fondare archivi, di proclamare scienza ufficiale la statistica delle parole, e di nominare insegnanti ed archivisti i tanti poeti-critici con attitudini contabili. Per tale necessità capitò improvviso una mattina Baldo Ventarulo da Saggio Colante: - Finalmente, caro amico, posso vederti. Diavolo! che lusso e come difficile l'accesso: poco mancò ieri sera che, scambiatomi per un furfante, non si chiamasse la polizia, perché io dissi di conoscerti, di averti ospitato ad Albatrillante, e che tu mi avessi aiutato nell'arredamento della casa. A proposito sono tornati i miei genitori; ed io sposerò tra due mesi. Ma tu sei guardato come in una fortezza! - Chiamala gabbia. - Toh! sai tu pure, e nulla tenti per uscirne. Ieri sera, dopo che fui scacciato con parolacce e grida, mi vidi seguito dal servo più furibondo, che mi raggiunse in un vicolo. Mi fece intendere che avrei potuto vederti stamane per opera sua, e che egli intanto si raccomandava alla mia buona grazia. Si mercanteggiò sulla buona grazia: una sterlina, ed eccomi a te. Sei davvero una bestia rara, perché ti si vede a prezzo casi caro. Ma la rivoluzione dei Macaristi è scoppiata sul serio. - Hai saputo tu pure? - E con quale rapidità! Ad Albatrillante non si leggono i giornali di Feralgìa. Si seguono le notizie su un foglio edito due volte la settimana nel capoluogo. la mattina stessa dell'avvenimento fu pubblicato un numero straordinario; ed appresi così le meraviglie della rivoluzione, della quale tu stesso mi avevi parlato: l'infernale rivoluzione, che vorrà dare la felicità a tutti. Mi auguro che non si sogni di attuarla per Albatrillante: che a noi rimangano le lacrime, perché tra le lacrime c'è il sorriso! Ma la mia meraviglia è ancora un'altra: vedo nel giornale del capoluogo indicato te come il nume ispiratore o, com'era stampato "volante rapido dall'ancòra più rapida macchina". Allora nel dubbio d'un diverso Saggio Colante ricerco altri giornali, do incarico ad un conoscente d'acquistarli a Feralgía, e in tutti trovo sempre te: te grande, te magnanimo. te fontana perenne di pensiero. la testa e le idee mi si confondono. Veggo finanche presentata la nostra marioleria della luna come un annunzio e a rivoluzione e grandi questioni sulle nostre reali persone e sulla tua parte essenziale. Sono così tutte le notizie dei giornali di Feralgía? - Quasi... - Ne parleremo per porre un po' di ordine nella mia testa. Ora ho fretta per Acrisio, perché temo di non fare a tempo; e tu mi sei necessario. - Acrisio? ah! quello della luna e che compiva statistiche sulle parole. - Quello, quello in persona, mio caro, l'uomo grande nel vostro avvenimento e di cui nessuno parla, perchè avvolto nell'oscurità, e perché forse... non legge i giornali. Tu verrai con me; lo troveremo, e lo metterai tu in luce, con la tua autorità butterai uno dei tanti tuoi articoli: il più lungo, un articolo chilometrico per il mio amico! - Io? Ma se non ho scritto mai un rigo per i giornali... - Eh! vuoi scherzare? Della modestia tua parleremo dopo: ora mi preme la fama e l'avvenire d'Acrisio. Pensa: tutti i giornali (ne ho veduti parecchi, Colombella, Ranocchietta, Tartaruga e simiglianti animali) non parlano che di una scienza: la statistica delle parole. Chi ha avuto veramente questa idea, prima che qualcuno ne immaginasse la possibilità? Non lo sai. Ebbene te lo dico io: Acrisio. Ora tutti si fanno belli, e pretendono cattedre, direzione d'archivi, prebende, e fra tanti lestofanti nessuno ricorda il primo e vero esecutore della statistica applicato ai poeti. - Ma se è stato lui il primo, perché non scrive e domanda anche lui? - Come sei ingenuo tu! Non ricordi le parole e il viso sconvolto di Acrisio durante l'annunzio della luna? E' l'unico selenite che viva su questa terra. Non solo il cervello, ma la vista sua è lassù. Gli daremo noi consistenza. Troverai tu subito un editore per i suoi scritti. Testimonierò... anzi testimonieremo nei giornali che la prima idea fu la sua; e lo metteremo su su, più in alto della stessa luna, in uno dei pulpiti universitari, pei quali si adunano sempre reverenti uditori, anche per le fandonie... specialmente per le fandonie. - Ma io... se io... - Basta! non parliamo di te; mi dirai poi delle tue strane mascherate. Se si perde tempo, il mio amico (miope com'è) non troverà più la strada: a migliaia si buttano sui possibili posti, e chi primo s'incammina, giunge primo. Trascinò Saggio Colante in tassì dalle strade immense ai vicoletti delle casacce scalcinate, dove dimorava Acrisio. - Acrisio, Acrisio, - gridò, - no! al diavolo Acrisio: Verdone, Verdone! - con voce casi forte che l'amico apparve sul pianerottolo: una figura di dissotterato, resa ancora più patita dalla lunghezza spropositata del collo per la mancanza di colletto e cravatta, dagli abiti che gli cadevano giù afflosciati per magrezza, dagli occhi smarriti di miope, che sembravano ancora più sporgenti per i grossi occhiali sollevati sulle sopracciglia. - Vittoria, Verdone, vittoria! Un sorriso debole schiarì di questo il volto pallido; poi le mani si stesero come per un sostegno. Acrisio si buttò nelle braccia robuste dell'amico, dette prima in un riso nervoso poi, per una crisi improvvisa, in un pianto singultante. - Che è? su, coraggio! - gridò con voce un po' aspra Ventarulo, mentre con la destra gli carezzava i capelli lunghi e spioventi sulla fronte e sul collo. - Non reggo più, non reggo! - Era infatti divenuto pallidissimo, e goccioline di sudore gli s'addensavano sulla fronte. Saggio Colante e Ventarulo lo sollevarono e lo adagiarono sul sofà sgangherato. lì egli guardò rasserenato gli amici e sorrise debolmente. - Che hai? sei malato? - domandò Ventarulo. - Malato io? oh! no, ero malato; ora rinasco. Ma la convalescenza dopo una malattia occulta e lunga esaspera i nervi. Dentro si avverte che la vita ritorna, ma il corpo non regge alla vita nuova. - improvvisamente si levò in piedi e gli occhi gli brillarono febbrilmente. - Guardate! non vedete nulla nella stanza? Gl'interpellati non mossero il capo e fissarono con insistenza gli occhi del gio vane. - Non credete voi? Io non soffro allucinazioni. Baldo Ventarulo credette di essere lui preda di una allucinazione, quando staccò gli occhi dall'amico e guardò intorno. Gli sembrò che in quella misera stanzetta lo spirito della distruzione avesse infuriato per ore: libri strappati, scatole e cassetti sfondati, fogli buttati qua e là, e giornali a mucchi negli angoli, sulle sedie, presso la sponda del letto. Sul pavimento una larga chiazza nera e i cocci del vetro mostravano che era lì caduto o era stato buttato il calamaio. - Non viene la domestica? - chiese Saggio Colante, non per curiosità ma per rompere il silenzio penoso. Il viso di Verdone si era intanto composto in un'improvvisa serenità. - La domestica? Siete anche voi lontani dal notare la verità che ci è sempre presente e si rivela in mille aspetti - A quel preambolo gli occhi di Ventarulo, per un sospetto di loquacità delirante, si velarono di lacrime, - Baldo, che hai? mi divieni ancora più triste? Eppure si sorride, se un uomo prende un abbaglio. Ecco, il nostro amico domanda della domestica, e non si è accorto, salendo per la scaletta logora, entrando nel corridoietto buio e nerastro, guardando la desolazione di questi mobili, che la padrona è tanto povera che deve fare tutto lei, e tanto vecchia che non riesce a far nulla. Qui avrebbe nettato, ma non valli io, perché volevo assistere e contemplare la rovina d'un mondo. Che frase grossa I Ma ognuno chiama così il bugigattolo dov'egli si muove e l'armeggio e egli stesso esegue. Ecco lì la rovina: quei grossi volumi sventrati e strappati rappresentano cene e cene saltate per comprarli; quei due mucchietti di cenere la mia miopia per decifrare cartacce fetide e sbiadite di archivio; quei cumuli di fogli lacerati le veglie di mesi continui, dì rinunzia al sonno all'aria alla luce, a quanto gli animali più rudimentali compiono e godono. Ma che strano malattia mi ebbi! e come mai accorsero anni, perché il male si apparisse improvviso! -. Non attendeva risposta, perché parlava rapidamente con tonalità ora cupe ora violente. Si avvicinò alla finestra. - La mia guarigione è venuta improvvisamente da questo angolo. Vedete? - accennò un ragnatelo nerastro. - E' la conferma che io guarissi, che vedessi, che anche il sole per me brillasse, io la ebbi da tutti quei giornali. Saggio Colante chinò con espressione tristissima il capo; e Baldo Ventarulo tentò distrarre l'amico da quella che egli sospettava pazzia lucida: - Ma prima tu non m'hai accennato mai nulla: forse un medico... - Ah! un medico, un medico tu dici, - Verdone interruppe il suo sorriso amaro. - Che vuoi che il medico capisca all'infuori di catarri, flussi intestinali, gonfiori e simili rivelazioni. Quando la malattia è qui -, si picchiò con forza la fronte, - e cova lenta seria e dignitosa, il medico non vede e non può capire. Mi crederebbe ora malato, ora che finalmente guarisco. La rivelazione del male mi è venuta da un calabrone, anzi da un calabrone e da un ragno, non per l'avventura e per la moralità bellamente esposte da un favolista, ma perchè coi miei occhi ho veduto i due animali nell'implacabilità della vita e della morte. Verdone passeggiò a passi concitati per la stanza, come se non avvertisse il silenzio prolungato dei due lì presenti; poi si fermò improvvisamente, pose la mano sulla spalla di Ventarulo: - Guardami. Mi credi veramente malato? - No! anzi, stai bene. E' vero, Colante, che l'amico sta bene? un colorito normale... - Hai bisogno di una testimonianza per convincerti che io stia bene. Ma non domandi a me, non sei curioso di sapere? Ah! ah! la storiella del calabrone e del ragno, un delirio di mente malato... - Pensavo che tu scherzassi. Sarà stato un avvenimento nuovo, come dire? rivelatore. - La storiella è brevissima: il ragno ha ucciso e poi lentamente succhiato il calabrone. Un avvenimento che si ripete per milioni di volte ogni secondo nello spazio sterminato, perchè miliardi di ragni attendono la preda nelle loro reti e, presala, la succhiano spietatamente. Ma per me la morte del calabrone fu la nuova, la vera rivelazione. Da anni, qui dentro, non vedevo più nulla, cioè distinguevo bene gli oggetti e le persone, ma l'animo mio era estraneo, la mente diretta ad un solo scopo, perchè non vedevo, nel significato di notare e trovare, una qualsiasi rispondenza e necessità della mia vita. La mia visione era la statistica delle parole, rimate e libere, divise per accenti, soppesate nella quantità delle sillabe, agganciate per somiglianza di consonanti e per identità di vocali. Quella era follia: la vera, la follia lucida. Una mattina, ero lì al tavolo notando gli o chiusi ed aperti non distinti dal Tasso nella combinazione delle rime, quando un sibilo leggero mi fece interrompere la statistica. Una pallottolina minuscola volava con giri ora lenti ora rapidi nella stanza e ronzava ora piano ora forte. Sbatté contro la finestra, si attaccò al vetro, rimase lì quieta: era un calabrone. Mi colpì il giallo dell'addome: e vidi improvvisamente un campo di anemoni e insetti di tutte le specie svolazzare, muoversi a sciami, arrampicarsi con zampe goffe, stendere mandibole mostruose lungo i fiori, gli steli, le radici. Era la visione della mia giovinezza nei campi; ed ebbi improvvisa la percezione che nel cielo, di là delle nubi di fuliggine, fosse primavera, e che, aprendo la finestra, io dovessi sentire l'aria libera e profumata, che vibrava ai sensi più acuti del calabrone prigioniero. Aprii la finestra: un ronzio improvvisamente acuto ed un silenzio. Pensai che il calabrone fosse volato via; mi volsi tuttavia a guardare, e lo vidi lì, incappato nel ragnatelo. Due animali con istinti e metodi diversi erano avvolti nella medesima uccisione. Il calabrone scoteva violentemente le zampine, tendeva il pungiglione; e l'avversario ne osservava cauto i movimenti e, senza sfiorarlo, a brevissima distanza, di tempo in tempo gli tendeva fili vischiosi. Poi improvvisamente gli si buttò contro, lo strinse nei tentacoli: l'addome del calabrone si mosse con ritmi sempre più lenti. Una lunga agonia! Il vincitore rimase attaccato alla vittima, anche dopo la morte, succhiandola, svuotandola degli umori, sinchè non lasciò che una buccia fragile. Vidi allora la vita: necessità di riproduzione e di distruzione, groviglio di agguati, attese, implacabilità, distruzione del proprio nemico. Ed io uomo, per anni ed anni, non ero vissuto. Chiuso qui, a che cosa? a contare parole. Era vita quella? contare parole, quando gli uomini sveltiscono mani ed animo in caccia selvaggia; quando come il ragno ognuno attende paziente la preda per succhiarla e divorarla: la preda che alla sua volta ha succhiato e divorato altre bestie. - Ma non vedeste chiaro, mio caro - intervenne e s'interruppe Saggio per l'improvviso atteggiamento d'irrisione di Verdone. - Mi attendevo da voi simile interruzione. Voi siete Saggio Colante, il sapiente di Feralgia che proclama e impone le sue vedute, e nulla vede e nulla sente specialmente della realtà immediata. lo ho letto i vostri giornali, e mi è venuto il terrore di Feralgia, lo spavento di voi tutti. Dormite tranquilli, mentre si addensa già la distruzione della guerra. - La guerra? - ripeté Baldo Ventarulo triste per la follia del suo amico. - Si, la guerra, la guerra che colpirà me, te e tutti nella spaventosa impreparazione. Perchè mi guardi così? Mi compassioni? - No, ma perchè pensi a simili tormenti? La guerra... se il mondo è in tanta pace! Pensare, per giunta, alla guerra con lo splendore della primavera... Qui in tanto grigiore di cielo non appare; ma ad Albatrillante su su per la collina gli alberi sono di lontano fasci di rosso di candido di lilla per tanti e tanti fiori. Verdone sorrise mestamente: - Tu vuoi dire: vieni con me, ritorno ad Albatrillante e guarirai. Ma sono guarito, mio caro; e la tragedia è qui: voi sani mi apparite malati -. Poi continuò con foga per impedire interruzioni e parole confortevoli: - Albatrillante... Oh,! sì il ricordo di Albatrillante e della vecchia Lena e della diga immensa del lago artificiale. Eravamo ragazzi, e la rovina capitò di questa stagione. La vecchia Lena abitava sola in una casaccia, in cima al monte. Era fuggita e maledetto dalle altre donne, ed essa fuggiva e odiava tutti, perchè era creduta una strega, che operasse il malocchio sui bambini e sui giovani sposi. Non avevano paura di lei i mulattieri e gli spregiudicati. Ed a costoro aveva predetto un giorno che la diga sarebbe crollata e che Pertosino Gallicchio Noceto sarebbero stati coperti di acque e di fango. La notizia si era diffusa ad Albatrillante; e si era riso, e in molti si era ribadita la convinzione di una malvagità impotente della vecchia. Rovinare la diga, impossibile ! Era di solida muratura, a costruirla avevano atteso i più valenti ingegneri e non mancavano commissioni di controllo. Si era anche riso (ricordo) a casa mia con gli amici. Una mattina i fanciulli erano tornati a ruzzare per le scarpate della collina, le greggi al pascolo su per le balze erbose, le donne a sciabordare la biancheria nelle acque serene, ed era un cielo luminoso, e tutto la campagna era allora fiorita, quando improvvisamente si levò un tuono immenso, e segui un fragore di rovina come se la terra crollasse tutta. Campi distrutti, case crollate, uomini travolti, ma lo strazio fu di quei corpicini di fanciulli ritrovati dopo settimane coperti di melma. La popolazione furente avrebbe trucidato la vecchia Lena, se anime benigne non l'avessero sottratta in tempo alla cieca vendetta; né la gente si è persuasa che la rovina non fosse dovuta a malocchio. Tale convinzione perdura perchè, se non mancarono commissioni perizie controlli, la causa vera del disastro è sconosciuta. La sai tu? - Veramente se ne è parlato, se ne parla; ma ognuno da una spiegazione diversa. - Ed è così; e le spiegazioni sono tutte vere e giuste, perchè le cause sono migliaia e tutte valide; ed ognuno vede quella che, dal canto suo, crede essenziale: la popolazione di Albatrillante pensa che l'unica causa sia stato il malocchio. Ma non questo ora m'interessa. Il mio tormento è un altro: come mai i modesti, i semplici, i più deboli ed oscuri ricevono la rivelazione della realtà immediata o lontana e gli uomini in fama di sapienti no? lo, un recluso, e la vecchia Lena, una scema, sì, e gli altri no? - Scusate, - volle attenuare Saggio Colante, - se ho ben capito, voi studioso e intelligente, volete paragonarvi con una misera vecchia; ma che senso c'è? Verdone lo guardò appena, e si diresse al suo amico: - Non ti pare sorprendente il caso? Perché non rispondi? oh! tu non sai che cosa rispondere. Coloro che fanno professione di conoscere tutto, i sapientissimi, si abbagliano nella suggestione del loro creduto splendore, e non vedono nulla, e nella realtà non colgono uno solo dei mille e mille indizi, i quali sono evidenti agli occhi dei semplici. Si dice che le bestie avvertano un'ora prima la furia del terremoto e non gli uomini coi loro delicati strumenti e coi loro calcoli precisi. - Santo Dio! - interruppe Baldo Ventarulo, - spiegati una volta chiaro: dove hai trovato questa certezza di guerra? - Dai giornali. - Questo poi! - esclamò Saggio Colante. - Dai vostri giornali, ripeto. Da anni non li leggevo. Ma quando vidi lottare il calabrone e il ragno, e questo irretire e succhiare la preda, io ebbi improvvisa la visione della vita e ne chiesi la prova ai vostri giornali. E da essi ebbi una visione di terrore; ecco fogli politici e letterari da mesi non trattano che statistiche: statistiche di parole, di accenti, di rime di vocaboli vecchi e nuovi. Gli uomini sono malati, sono accecati dalla mia trascorsa malattia, e non vedono, non possono vedere la tempesta che si addensa. Mi sono ricordato della triste successione dei secoli: le rovine precipitarono, quando gli animi erano perduti e distratti dal gladiatore favorito, dal colore della veste degli aurighi, dalla gola d'un cantante, da un processo celebre, a Feralgìa dalla ricerca delle parole. -Ma se nessuno vuole la guerra, - osservò Saggio Colante, né banchieri né ministri né generali; come potrà questa sfrenarsi? Non è una bazzecola la guerra. - Ah! sì - conchiuse con un riso silenzioso Verdone. - come se la guerra dipendesse da un ministro, da un banchiere o da un generale! - Sembrò improvvisamente stanchissimo e infastidito. - Parliamo d'altro! o meglio lasciatemi un pò solo: ho bisogno di sistemare poche faccende. Ritornate fra due ore. Verrò con voi dove vorrete. Quando Baldo Ventarulo e Saggio Colante si trovarono nella strada, questi commentò: - Povero giovane! qualche cosa ha disorientate le rotelline, - e si toccò la fronte; - ha bisogno d'un medico. - Vedremo di persuaderlo noi. Basterebbe un mese di Albatrillante; ma come si fa a condurlo via? E' sospettoso, irascibile e apparentemente normale. La pazzia vera, la pazzia lucida. Quando ritornarono, la padrona consegnò loro una lettera a nome di Verdone, che da più di un'ora era uscito. Egli pigliava congedo dagli amici e specificava: "Mi credete impazzito; eppure sono uno dei pochi uomini rinsaviti nella follia generale. Scappo lontano, perchè il terrore della guerra mi soffoca. Quando il male si scatenerò, ritornerò tra voi per soffrire insieme". IL CROLLO A Feralgía
si cercava raggiungere le molte mete dalla rivoluzione prefisse. Una
soprattutto accendeva d'entusiasmo e d'impazienza i cuori: la possibilità
di contemplare la luna. Si lavorava con fervore, ma la luce dell'astro,
e per gli edifici di altezza sproporzionata e per la nuvolaglia degli
alti forni e per le piazze ancora coperte da tettoie, non brillava
rasserenante per i visi che si levavano in alto; e non mancavano con
la delusione mormorii ed accuse per gli uomini preposti alle gravi
faccende. Si tentò di attutire i risentimenti e sviare un'indignazione
concorde col diffondere a mezzo dei giornali voci incontrollabili
ed insieme alimentatrici di speranze. Si sussurrava che la luna si
fosse soffermata con una stellina, collocata nel mezzo della sua falce,
sopra la terrazza d'un mastodontico caffè; che due innamorati
l'avessero sorpresa in burlevole apparizione dinanzi i passi cempennanti
d'un ubriaco; che sulla piazza deserta del Pterocino si fossero misteriosamente
adunati i cani e i gatti di lontane contrade per sbizzarrirsi, al
suo apparire, in miagolii ed urli. Ed ai sussurri si credeva perchè
a migliaia le speranze erano collegate all'evento ogni giorno più
febbrilmente atteso: la zitellona sognava un riverbero per le sue
trecce stoppose ed una lucentezza negli occhi per accendere un desiderio
od un sorriso nelle bocche trismiche degli uomini; l'impiegatucolo,
soffocato da cumoli di carta e dall'acidume dei caposezione, attendeva
per costui un rilassamento di nervi e per sé un'accresciuta
rimunerazione; lo spasimante un addolcimento della donna spietata;
lo strozzino un maggior pullulio di vizio ed una crescita di giovani
eredi; gli scrittori ambienti nuovi per scene logore; sarti, calzolai,
pasticceri, lustrini, avventurieri, indovini la misteriosa filtrazione
di oro nei cassetti anneriti, nelle tasche sdrucite, nelle mani chiudentisi
a vuoto... I feralgini si destarono dalle carezzevoli fantasie, non
per la caduta dell'astro notturno sulla città, ma per il crescente
fragore ed il tuono inconfondibile della guerra. |
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