APPROCCIO A UN NARRATORE MERIDIONALE: SALVATORE PAOLO




Giovanni Bernardini



Le opere a stampa di Salvatore Paolo sono finora un'antologia, curata con Mario Sansone, Narratori di Puglia e Basilicata (Milano, Mursia, 1966) contenente fra l'altro pagine narrative dello stesso Paolo; due racconti in Prosatori e Narratori Pugliesi del Novecento a cura di F. Ulivi ed E.F. Accrocca (Bari, Adriatica Editrice, 1969); Venditore di posti, racconto lungo segnalato al Premio "De Giorgi" a Monteroni di Lecce e pubblicato postumo, su proposta della Giuria, a cura di quella Amministrazione Comunale e della Pro Loco nell'opuscolo 2° Premio "Giovacchino De Giorgi" 1978 (Lecce, Arte Grafica); e - più importanti di tutti - Il canale (Milano, Nuova Accademia, 1962) e I millepiedi e altri animali (Milano, Mursia, 1971).
Il canale appartiene a quel filone della letteratura meridionale d'impianto realistico che trova in Verga il suo più illustre ascendente. Premiato come inedito nel '59 al "Città di Bari", fu pubblicato nel '62, ma era stato condotto a termine ancora prima, intorno al 1956-57, mentre taluni temi e personaggi, secondo una tecnica poi usuale in Paolo, si possono rinvenire addirittura nel romanzo inedito I Melcari, ultimato il 22 marzo 1947.
Quelli che vanno dall'immediato secondo dopoguerra fino a metà degli anni Cinquanta erano i tempi del neorealismo che esercitò una grande spinta dirompente nella nostra storia culturale ma ebbe anche i suoi riconoscibili e riconosciuti limiti. Quando Paolo portava a pieno e maturo compimento Il canale, la parabola del neorealismo si può dire che era giunta al tramonto. Ma rimaneva la realtà meridionale con la sua secolare questione, la realtà del sottosviluppo, della disoccupazione, dell'emigrazione; rimanevano le sofferenze delle classi subalterne, del braccianti, delle raccoglitrici d'olive, delle tabacchine; rimaneva la realtà dei nostri paesi dove ci sono i "don", quelli che stanno di sopra, quelli che contano, e quelli che stanno di sotto, quelli che non contano nulla; rimaneva la fame di terra dei contadini poveri, del senza lavoro, che si legava al problema del latifondo incolto da dissodare e rendere fertile. Rimaneva tutto questo e in questo si specchiava e si riconosceva l'anima contadina di Salvatore Paolo. Perciò egli, senza cadere nei lacci di certo neorealismo, poteva darci un romanzo contadino, un romanzo calato nella realtà della sua, della nostra terra dalla quale non pensò mai di staccarsi per seguire migliori fortune letterarie proprio perché in essa affondavano le sue radici umane e i motivi della sua narrativa.
Il tono de Il canale si coglie immediatamente, alle primissime battute: "Mio padre aveva i calzoni sempre con le toppe sul sedere. A volte non aveva nemmeno i calzoni ... ", dove si annuncia una storia di miseria e di dolori che è quella di una famiglia di caprai, i Mangialerba. Si capisce che vengono subito alla mente I Malavoglia dei quali è innegabile il grande modello, ma bisogna avvertire che Paolo abbandona la poetica dell'oggettività per sostituirla con una narrazione in prima persona, che gli permette di vedere fatti, uomini e cose attraverso l'acuta sensibilità della protagonista, Assuntina, e quindi condurre analisi psicologiche che qualche volta forse risultano un po' troppo fini. In ciò credo sia lecito scorgere un'influenza pirandelliana, se teniamo conto che, accanto al Verga, Pirandello fu autore molto caro a Paolo e che egli si laureò discutendo una tesi su Il naturalismo nell'opera di Luigi Pirandello.
La frequentazione del Pirandello drammaturgo più che del narratore deve certo aver contribuito a quella notevole scioltezza e padronanza del dialogo che Paolo dimostra in tutti i suoi scritti, editi o inediti: spia di quanto affermo mi sembra anche il fatto che egli proprio nel teatro venne tentando le prime prove.
Ancora del Nostro bisogna evidenziare la scrittura asciutta, strutturata in piccoli periodi, rapida, incisiva, mirante alla sintesi, a rendere l'essenza della vicenda. Si veda a p. 40 come il dramma della gente sotto il bombardamento e di Assuntina che in tale circostanza partorisce è contenuto in note scabre, senza nessuna sbavatura. Anche maggiore la forza drammatica di questo stile alle pp. 173-77, dove si descrivono la siccità che colpisce il paese, la processione religiosa per allontanare la siccità, quindi il temporale e la conseguente morte di Cecchino.
Il linguaggio, salvo rare eccezioni di "qualche parola troppo nobile" - come ha osservato Giuliano Manacorda (11 contemporaneo, 61, giugno 1963, p. 131) - aderisce ai personaggi, modellandosi sulla parlata popolare e mantenendone la vitalità, senza rozzezze o sciatteria. Prendo due esempi soltanto, brevissimi e fra i più tipici: a p. 21, "I Mangialerba si sono sempre campati sulle capre" e, a p. 107, "Tutti lo guardarono giù per vedergli il gonfio" (cioè l'ernia. Il corsivo è mio).
Il paesaggio è quello salentino, ma non sta mai come pura descrizione, pezzo di bravura: fa tutt'uno con i personaggi, sottolinea la malinconia di Assuntina che dispera di poter studiare (p. 29), o lo stato d'animo della madre nell'attesa vano di Giannino che non tornerà più dalla guerra (p. 61), o è uno sfondo bianco e nero entro cui si svolge il duro lavoro di raccolta del tabacco (pp. 79-80) o viene ridotto a pochissimi elementi per suggerire lo squallore dei luoghi e la povertà che vi ristagna (p.91).
I personaggi si muovono nella esistenza collettiva del paese, ognuno con una precisa identità a cominciare da Assuntina: di lei l'autore ci presento l'intensa vita interiore a mano a mano che ella esperimento e racconta i fatti, per lo più drammatici, del quali è protagonista, dalla duplice seduzione da parte di Cesare cui soggiace avendone due figli, alla morte tragica del primo di essi, Cecchino; dal difficile rapporto con la madre a quello, invece, silenzioso e affettuosissimo col padre. Questi, Domenica Mangialerba, è senz'altro la figura che più commosso rivive nella memoria della figlia: il suo carattere mite, una mesta rassegnazione paiono trovare riscontro anche nella bassa statura e nella deformazione della schiena che lo costringevano ad "alzare sempre la testa per guardare in faccia le persone" (p.19). La sua generosità e soprattutto le uscite imprevedibili s'incanalano perfino in risvolti narrativi di misurata comicità, come nella riunione alla Camera del Lavoro (pp. 127-29). La madre viceversa è temperamento scontroso, duro: "E' stata sempre così la mamma, lo è tuttora, le poche volte che parla: aspra, pungente, capace di zittirti per lungo tempo" (p. 23). Ed il mancato ritorno di Giannino dalla Russia la chiude vieppiù: "...a lei non importava più nulla ormai: in attesa sempre di suo figlio, non viveva che per sé sola" (p. 67).
Così Benito, il fratello minore, lo stesso Giannino, Cesare, amante di Assuntino, Pietro Bombarda, don Edmondo e altri personaggi ancora sono più o meno rilevati secondo il ruolo che occupano ma sempre colti nei dati caratterizzanti della loro personalità che qui non c'è spazio per analizzare.
Questo piccolo mondo è dominato dalle crude leggi economiche (anche ciò riconduce a Verga), che si fanno sentire con l'oppressione del bisogno per i Mangialerba e altri umili, mentre il vero padrone del paese è don Edmondo, ricco concessionario. In mezzo stanno i "sanguisuga", come Pietro Bombarda e il figlio Cesare. Pietro "si faceva sempre più ricco" vendendo "legumi e fichi secchi al mercato nero". "Suo figlio si era messo al servizio di don Edmondo e succhiava il sangue dei contadini nelle perizie del tabacco. la gente li chiamava sanguisuga e Pietro rispondeva, sereno: "lo non ho avuto mai male perché non ho fatto mai bene". Erano parole che facevano rabbrividire" (pp. 63-64). In tale contesto si inseriscono la lotta politica e l'occupazione delle terre. Sono però i mesi che seguono la fine dell'ultima guerra mondiale, in un piccolo paese del profondo Sud: sicché la lotta politica è rappresentata rimarcando i limiti di chi a praticarla è ancora immaturo. A mio avviso, non si tratto soltanto di esigenza da parte del narratore di aderire naturalisticamente ad una situazione di fatto, bensì - come credo possano dimostrare successive opere del Paolo - di una fondamentale sfiducia nella politica che scopre forse un'altra piega della sua anima campagnola e fa blocco con la visione pessimistica che egli ha della vita e della società. Di conseguenza il richiamo alle Terre del Sacramento, citate da Ettore Mazzali nella pur ottima presentazione de Il canale, se è legittimo, richiede anche una puntualizzazione di non poco conto nel senso che Jovine, a differenza di Paolo, esprime nel suo romanzo una profonda fiducia nella lotta.
Il canale si chiude con le pagine molto belle e dolenti che narrano la morte del padre, Domenica Mangialerba, ma il pessimismo che pervade tutto il romanzo cerca alla fine una via d'uscita: non quella però d'una trasformazione sociale, bensì quella a livello esistenziale d'una disperata volontà da parte di Assuntina di reagire alle disgrazie e rinnovarsi nel villaggio dove andrò ad abitare col marito lasciando il paese natio.
I millepiedi e altri animali si presentano sotto forma di favole; in realtà si tratta di racconti in gran parte, direi, tragici, dove il pessimismo di Salvatore Paolo si dilata dal mondo degli uomini a quello degli animali. Questi infatti appaiono prevalentemente vittime dell'uomo, della sua cattiveria, del suo egoismo, della sua noncuranza o delle sue necessità. E' significativo che quasi ogni "favola" registri una morte violenta e a volte addirittura una strage, come nel caso de I topi e in quello de Le chiocciole. Per fermarmi solo al primo esempio dirò che la strage finale dei topolini presi in trappola, cosparsi di benzina e dati alle fiamme assume quasi la dimensione di un'esecuzione da campo di sterminio, che si completa col suicidio della topa madre e il silenzio definitivo alla preghiera del topo padre (p.52).
Brutalità e violenza l'autore scorge nella natura e nella società (p. 11), oppure indifferenza (p.31) e la morte può essere sentita perfino come liberazione (p. 103): motivi tutti che c'inducono a pensare al Leopardi, poeta del resto molto caro a Salvatore Paolo. E se Leopardi del Sabato è citato esplicitamente in una nota a p. 96 (le note sono tutte dell'autore), relativa alla favola Le formiche, mi pare che nella medesima favola viva un'eco de La ginestra nella solidarietà che anima la formica ragionevole rispetto alle sue compagne. Sempre in questa favola troviamo una frase, direi, emblematica: "Lavorare stanca solo quando si è soli" (p. 95). Ecco, attraverso Pavese, anche un pudico riferimento che Paolo fa alla sua solitudine di scrittore.
Passati gli anni del dopoguerra e della ricostruzione, crollate molte speranze, sottoposti a critica serrata modelli politici e certezze ideologiche, attuatosi uno sviluppo spesso distorto della società, Salvatore Paolo, risentendo intensamente della crisi generale da cui tutti più o meno fummo e siamo investiti, incupisce il suo pessimismo di fondo che lo spinge a ironizzare sulle rivoluzioni, sia pure attraverso l'immagine di un esercito di millepiedi (p. 19), o a constatare un po' fatalisticamente che solo singoli individui apprezzano la dignità di essere liberi, mentre la massa è composta di "schiavi contenti" (p. 28, nota 9 de I maiali; cfr. anche Le api). La sua visione tragica della vita non si arresta neppure al termine di essa quando afferma per bocca degli animali - il maiale, il pesce, il serpente - che la morte non basta a cancellare il negativo esistente in noi o l'orrore di una fine atroce. Tuttavia non manca anche qui, cioè di fronte alla morte, una possibilità di unione e fratellanza che conforti e renda meno difficile il momento supremo: questo messaggio Paolo lo affida a quegli animali che sono fra i più deboli e indifesi, i conigli.
Ci sono favole bellissime soprattutto per il nitore delle immagini, la flessibilità della scrittura, la suggestione emanante da certi notturni, la commozione o l'angoscia come d'incubo che le percorre: penso ad esempio a Le chiocciole, a I grilli, a I galli. Ma concludo ricordando che ancora una tenue parola di luce lo scrittore vuoi pronunciare nell'ultima favola del libro, Le, farfalle, dove una farfalla portanotizie reca ad un vecchio morente con la sua semplice presenza il segno dell'appagamento d'una speranza durata tutta la vita.
Questa, in un esame necessariamente limitato e talvolta assai sintetico, la parte più significativa, anche per organicità, delle opere edite di Salvatore Paolo. Ma allo scopo di delineare un adeguato profilo dello scrittore e precisarne quindi l'intravedibile complessità, sarebbe auspicabile che del numerosi inediti da lui lasciati morendo nel 1976, si giungesse almeno a pubblicare qualcuno dei romanzi. la rassegna Sudpuglia ha dato l'avvio accettando il romanzo 1 Fibbia, affidato a una nota critica del prof. A. Lucio Giannone. Auguriamoci che questo lodevole esempio trovi seguito presso altri e, non in coda, presso il Comune di Carmiano (Lecce), dove Salvatore Paolo nacque nel 1920 e che, come accennato, fu il centro della sua vita e del suo spesso misconosciuto lavoro letterario.

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