STORIA DE "I FIBBIA"




Lucio Giannone



I Fibbia è il terzo romanzo di Salvatore Paolo, essendo stato scritto subito dopo Il canale e Lia e prima di L'attesa, Il roccolo, Il romanzo di Mbuy e L'età del ferro. Di tutte queste opere, solo Il canale, che ha un lontano antecedente ne i Melcari, riuscì a vedere la luce nel 1962, nella collana "I gabbiani" della Nuova Accademia. Gli altri romanzi, nonostante i tentativi effettuati dal loro autore presso diverse case editrici, rimasero inediti ed ora sono conservati, insieme a vari scritti (racconti, prove teatrali, poesie), nell'archivio privato di Paolo a Carmiano. la loro mancata pubblicazione non dipese però da ragioni puramente letterarie, ma da altre, di ordine commerciale, legate cioè ai meccanismi che regolano il cosiddetto "mercato delle lettere". la validità delle opere narrative dello scrittore salentino, infatti, era apertamente riconosciuta, a volte, da quegli stessi editori, i quali pure, dopo averle ricevute da lui in esame, gliele rimandavano, puntualmente e inesorabilmente, indietro. Non si dimentichi, d'altra parte, che proprio quando Paolo scriveva i suoi primi romanzi, alla fine degli anni Cinquanta, l'editoria in Italia si andava organizzando sempre più in senso industriale e capitalistico, tendendo al massimo del profitto. Il libro incominciava ad essere considerato un "prodotto" come un altro, e l'opera di un autore sconosciuto o esordiente aveva ormai qualche probabilità di essere stampata soltanto se rispondeva alle esigenze del mercato, vale a dire se era ritenuta in possesso degli indispensabili requisiti della vendibilità. Altamente istruttive, a questo riguardo, risultano alcune lettere che Giancarla Mursia, responsabile della omonima casa editrice, inviò allo scrittore salentino (1). In una di esse, ad esempio, che risale al 24 giugno 1971, la signora Mursia riportava integralmente, sottoscrivendolo in pieno, il giudizio di un suo consulente, il quale così si esprimeva a proposito de Il romanzo di Mbuy: "Il romanzo si inserisce nettamente sulla linea della letteratura meridionalistica e a tratti fa pensare a Seminara e a Vittorini per l'aderenza del linguaggio (soprattutto nel dialogo) alla realtà, e al tempo stesso per un suo sottile lirismo. I personaggi sono tutti tratteggiati con grande maestria e campeggiano con bel risalto sulla folla curiosa e pettegola del piccolo paese. In sostanza si tratta di un bel romanzo e, ad esempio, la figura femminile di Teresa non ha nulla da invidiare alle "Anne" di Carlo Cassola". Dopo avere espresso un simile apprezzamento, il consulente di Mursia scriveva però che il romanzo di Paolo, non essendo adatto ai ragazzi o inseribile in una colonna "rosa", "resta un libro per adulti ma che per la sua pulizia e il suo tono - con i tempi che corrono - sarebbe un fiasco"; e così concludeva, paradossalmente: "E' un ottimo libro che non sappiamo dove collocare". Anche in un'altra lettera del 2 febbraio 1972 Giancarla Mursia non lesinava elogi allo scrittore di Carmiano. Infatti, dopo aver osservato che "purtroppo i tempi che viviamo non concedono molto spazio alla letteratura che non sia... utilitaristica, che abbia cioè un suo esito commerciale se non sicuro, altamente probabile", così continuava, rivolgendosi direttamente a lui: "Ci tengo a dirLe, in ogni caso, che Lei è uno, del non molti capitati qui, che sa scrivere. Forse è proprio per questo che ha difficoltà a trovare una strada, cioè un editore".
Certo, assai difficilmente avrebbero potuto avere un favorevole esito commerciale, nell'Italia del boom e del "miracolo economico", i romanzi di Salvatore Paolo, con le loro vicende "paesane" di contadini e di povera gente, di dura fatica quotidiana e di delicati sentimenti, di radicati comportamenti e consuetudini di vita. Si capisce bene perciò quanto sia importante riaprire il discorso su questo scrittore, emarginato in vita dall'industria editoriale e trascurato, dopo la sua morte, dalla critica, che, ad eccezione di qualche rapido accenno in panorami letterari regionali (2) o sub-regionali (3) e di amichevoli testimonianze (4), ha lasciato scendere un completo silenzio sul suo nome. E innanzitutto è necessario farne conoscere i romanzi principali, per giungere successivamente a una valutazione complessiva della sua opera, alla quale deve essere assegnato un posto ben preciso nell'ambito della letteratura pugliese e, più generalmente, meridionale, del secondo Novecento. Oltretutto, Paolo è uno dei pochissimi autentici narratori (a un certo livello, s'intende) che ha avuto nel nostro secolo il Salento, terra tanto più ricca invece, com'è risaputo, di poeti.
Abbiamo ritenuto opportuno procedere alla pubblicazione de I Fibbia, prima di ogni altro romanzo dello scrittore di Carmiano, per vari ordini di motivi. In primo luogo, perché si tratta, a nostro avviso, di una delle sue opere più originali e significative, la quale ha subìto un lungo e complesso processo elaborativo, durato all'incirca tre anni e documentato dai numerosi materiali rimasti, segno non ultimo, questo, dell'importanza ad essa attribuita dal suo autore. In secondo luogo, perché questo romanzo dimostra una sorprendente apertura a tematiche di indubbia modernità e serve a mettere in discussione quel cliché di narratore neorealista, se non di epigono dei neorealismo, a cui è legato, soprattutto per via de Il canale, il nome di Paolo. Ancora, perché esso andò, più di ogni altro suo romanzo, vicino alla pubblicazione, e solo per una serie di circostanze avverse, come si dirà più avanti, non potette essere stampato. E infine perché esistono su quest'opera giudizi positivi di autorevoli studiosi, i quali costituiscono, in un certo senso, un'ulteriore garanzia della sua validità.
Come s'è accennato, nell'archivio dello scrittore sono conservati numerosi materiali relativi a I Fibbia, ed esattamente due quaderni manoscritti cartonati e quattro dattiloscritti rilegati. Il primo del due quaderni (=A), di mm. 205x150, per complessive 198 pp., non tutte numerate, contiene il primo abbozzo del romanzo, in una stesura incompleta, non ancora suddivisa in capitoli, e notevolmente diversa da quella definitiva, con frequenti aggiunte e correzioni. Ma esso contiene anche: alcune riflessioni sul significato dell'opera e sul ruolo dei vari personaggi; annotazioni ai margini; ipotesi di sviluppo differenti della vicenda narrata. Sfogliandolo, insomma, èpossibile entrare nel vivo del "laboratorio" di Paolo, seguire passo passo l'educazione e la prima realizzazione del romanzo, cogliere i momenti di incertezza, le pause, i tentativi di autochiarificazione dello scrittore. Sui frontespizio, accanto a diversi titoli cancellati, figura quello di Due giornate assurde, così come, nella prima pagina, l'altro di Confessione di don Gegè. Su A non compare alcuna data, né vi sono elementi che permettono di stabilire, sia pure approssimativamente, il periodo di composizione dell'opera. Ma un accenno ad essa è contenuto in una lettera inviata da Salvatore Paolo a Nino Palumbo (5), che risale al 4 marzo 1960, nella quale lo scrittore salentino informava l'amico che, finito "da più di un mese" il secondo romanzo, Innamorati e dritti (poi Lia), aveva dato inizio a un "terzo romanzo, che -precisava Paolo - per il momento ho sospeso". "Lo riprenderò - aggiungeva - non appena mi sarò sbrigato di questa roba", alludendo alla composizione di un racconto, con il quale, unitamente al romanzo da poco terminato, aveva intenzione di partecipare al Premio biennale di narrativa "Grazia Deledda" nel 1960. Che il "terzo romanzo" corrisponda a I Fibbia o, per dire meglio, al primo abbozzo de I Fibbia, non dovrebbero sussistere dubbi, in quanto non si ha notizia di alcun'altra opera iniziata o composta in questo periodo.
Il secondo quaderno (=B), delle stesse dimensioni del primo, è composto di 296 pp. numerate, alle quali vanno aggiunte altre sei: una ad integrazione della p. 9, e cinque alla conclusione del romanzo, che risulta composto di nove capitoli. Anche qui permane l'incertezza riguardo al titolo da dare all'opera. Sul frontespizio, accanto ad altri poi cancellati, figura quello de Il letto vuoto. La stesura di B, con lievi modifiche, riguardanti soprattutto il tormentato finale, è accolta nel primo del quattro dattiloscritti, che ha il titolo Il picchio al portone (=C), composto da 120 pp. numerate. In questa redazione, il romanzo venne portato a termine nell'aprile del 1962. Così infatti, dopo un lungo periodo di silenzio, Paolo scriveva a Palumbo, in un'altra lettera del 27 aprile di quell'anno: "Ma l'isolamento ha portato, contro ogni mia aspettativa, il suo frutto ed è venuto fuori un nuovo romanzo, che forse rispecchia questo mio nuovo stato d'animo. S'intitola Il picchio al portone e l'ho finito proprio in questi giorni". Più avanti comunicava all'amico che aveva deciso di partecipare nuovamente, con quest'opera, che "veramente - confessava - attende ancora qualche rielaborazione", al Premio Deledda, al quale aveva già preso parte, come s'è detto, nel 1960, con Innamorati e dritti. E, in effetti, sul frontespizio e nella prima pagina di C vi è un timbro dell'Ente provinciale per il turismo di Nuoro, con l'anno 1962, che documenta l'avvenuta partecipazione dello scrittore al Premio.
Gli altri tre dattiloscritti (= D, E1, E2), tutti col titolo de I Fibbia e tutti di 145 pp. numerate, presentano una stesura notevolmente ampliata rispetto a C e lievi correzioni autografe (qualche sostituzione di parola e qualche frase aggiunto). E2, inoltre, si distingue da D e da E1, sua semplice copia, per nuove correzione, sempre di lieve entità; e pertanto esso viene assunto, con minimo aggiornamento grafico, a testo della presente edizione.
Iniziato, probabilmente, nel gennaio-febbraio del 1960, il romanzo venne terminato nell'ottobre di due anni dopo. In una nuova lettera a Nino Palumbo, datata 5 novembre 1962, Paolo così scriveva infatti, a un certo punto: "Colgo questa occasione per comunicarti che l'altro ieri ho spedito a Mazzali il mio ultimo lavoro, che non s'intitola più Il picchio al portone, ma I Fibbia. L'ho riveduto tutto ed ècresciuto di pagine...". Quasi certamente però, nei mesi seguenti, lo scrittore dovette ritoccarlo ulteriormente, se è vero che solo nel marzo del 1963 si decise a depositarlo presso la S.I.A.E. (Società italiana degli autori ed editori). Tra le sue carte, infatti, abbiamo ritrovato anche una lettera della S.I.A.E, in data 4 aprile 1963, con la quale si comunicava a Paolo il ricevimento dell'opera inedita I Fibbia, pervenuta il 22 marzo di quell'anno.
Complesse furono anche le successive vicende di quest'opera, che, come s'è detto, stava sul punto di essere pubblicata. In una lettera del 25 gennaio 1964, Ettore Mazzali, che già aveva scritto la presentazione a Il canale, su carta intestato "Nuova Accademia S.p.A.", informava Paolo di essere in attesa di una risposta di Giancarlo Vigorelli, relativa ai tre manoscritti che gli aveva inviato, tra i quali quello de I Fibbia: "mss. - precisava Mazzali - tutti proposti per la nuova collana Le quattro stagioni". Purtroppo per Paolo, però, questa collana venne meno per la cessazione di attività della casa editrice e il romanzo non fu più pubblicato. L'anno dopo, Giorgio Barberi Squarotti, in qualità di consulente di Mursia, con una lettera del 6 aprile, gli faceva conoscere, in via del tutto confidenziale, il suo parere, trasmesso all'editore, nei riguardi del romanzo, che "nel complesso, con qualche correzione" gli sembrava pubblicabile; "non adatto, forse, - continuava il critico - per iniziare una nuova collana (per ragioni, però, qui di esclusiva pertinenza editoriale), ma fruttuosamente inseribile in una collana di narrativa già opportunamente iniziata e definita". Ma anche questo tentativo non ebbe alcun seguito. Ancora, nel 1967, Guido Macera, direttore della rivista "Realtà del Mezzogiorno", scriveva a Paolo, l'11 marzo, che era disposto ad accogliere il suo romanzo nella collana "Parallelo 40" dell'editore Cappelli. Tra le carte dello scrittore permangono, infine, le tracce di due approcci fatti con gli editori Einaudi e Rizzoli per la pubblicazione di quest'opera, rispettivamente nel '65 e nel '67, ma entrambi andati a vuoto.
I Fibbia rappresentano un momento importante nello svolgimento della narrativa di Salvatore Paolo, in quanto segnano il definitivo superamento dell'esperienza neorealista, che era alla base del suoi due primi romanzi, Il canale e Lia (6). Anche qui il referente principale resta la realtà di un piccolo paese del Sud, ma cambiano completamente gli strumenti di indagine e la prospettiva da cui essa viene osservata. Il tema principale del romanzo è l'intrico del pregiudizi e delle convenzioni, che limitano la libertà dell'individuo e soffocano l'autenticità dei sentimenti. Questo tema però non viene svolto in astratto, ma, per l'appunto, con continui e precisi riferimenti alle tradizioni, ai costumi, alle abitudini della società meridionale, della quale emergono a tratti le strutture profonde, i meccanismi segreti, che determinano quei particolari comportamenti e modi di vita.
Già il topos, da cui scaturisce l'"intreccio" de I Fibbia, quello dell'amore, e poi del matrimonio, contrastati, presenta connotati affatto tipici di una ristretta comunità del Sud: sono infatti ragioni di "convenienza" sociale a imporre che in una famiglia la prima a fidanzarsi e poi a sposarsi sia la figlia maggiore. Da qui si dipana la vicenda, che nella fabula romanzesca ha inizio con l'abbandono della sposa da parte dello sposo il giorno delle nozze. Questo episodio di modesta cronaca paesana mette in moto i successivi avvenimenti e, in primo luogo, il coinvolgimento, nella storia, del protagonista, don Gegè, che narra in prima persona, turbato a tal punto da una simile notizia da uscir fuori dalla sua lunga solitudine.
Il romanzo però, pur essendo legato a una ben definita realtà, riesce ugualmente ad avere un significato più generale, una dimensione più ampia. Infatti, proprio attraverso la figura del protagonista, viene sviluppato il motivo, tipicamente "novecentesco", della "estraneità", "questa nuova condizione dell'uomo, - come l'ha definita acutamente Giacomo Debenedetti - ridotto da un invisibile scacco, del quale non sa dirsi il come e il perché, a uno straniero, un estraneo, un assente di fronte alla vita nella quale pure si agita con iniziative spesso tremende, irreparabili, rovinose; ma vi si agita con una inspiegabile alacrità sorda, passiva, apparentemente sprovveduta di ogni scopo, senso e finalità, incapace di qualsiasi progetto e programma: è insomma un muoversi per lui assurdo, in quanto non gli sembra nemmeno una risposta alla esosa, impenetrabile assurdità del l'esistenza" (7). Si osservi più da vicino la figura di don Gegè, nella quale, peraltro, non è azzardato ipotizzare una sorta di proiezione autobiografica dello scrittore. Entrato quasi per caso a interessarsi di questa vicenda, egli si trova coinvolto, senza volerlo, in un ingranaggio, di cui gli sfugge l'autentico significato e che rischia, a un certo punto, di travolgerlo e annullarlo, riducendolo a un oggetto sballottato in continuazione da una parte all'altra. Tipico "anti-eroe", tormentato dal dubbio e dall'indecisione, incapace di dare un senso preciso alle proprie azioni, don Gegè appartiene alla rozza degli "inetti", alla quale ha dato vita la più originale narrativa .del Novecento, da Svevo a Pirandello, da Tozzi a Borgese, per non parlare di Kafka, la cui lettura esercitò una "forte influenza" su Paolo, come egli stesso ebbe a confessare in una lettera a Nino Palumbo del 30 maggio 1962 (8) e come, d'altro canto, risulta assai evidente in questo romanzo. "Estraneo" alle cose che lo circondano ("Mi sentii solo, completamente solo e estraneo a tutti quegli oggetti"), alle persone che incontra ("Io ero rimasto freddo ad ascoltarlo, non ritrovando più la commozione di due ore prima. lo sentivo estraneo, tanto estraneo che la sua stessa presenza mi ripugnava"), "straniero" nel suo stesso paese ("Camminavo come uno straniero nel mio stesso paese [...] Più che estranei i muri a me, ero io estraneo a loro, e non c'è modo di essere più stranieri che sentirsi soli nel proprio paese"), don Gegè si scopre, con raccapriccio, "estraneo" perfino a se stesso: "Sentivo il vuoto della mia esistenza, e come tutto mi venisse dagli altri e niente fosse mio: pensieri, volontà, passioni. Mi ripugnava sentir vivere gli altri dentro di me, e tuttavia era una realtà di cui non potevo liberarmi, essa mi veniva sempre davanti e s'immetteva nella mia vita"; e ancora: "e mi chiedevo se ero davvero io colui che pensava e agiva così, o non fosse un altro diverso da me ma che possedesse tutti i miei ricordi. Mi riversavo negli altri, mi svuotavo di me al contatto della gente che incontravo per via ... ". Né è sufficiente il sentimento d'amore per Nanetta a farlo rientrare nei ranghi della "normalità".
Di contro a questo personaggio stanno i Fibbia, i quali rappresentano il rigido rispetto delle convenzioni, il completo adeguamento alle norme della società, al punto da diventare oppressori di coloro che vivono al di fuori di esse. E tanto più questi individui incutono terrore, quanto più si comportano apparentemente con estrema correttezza formale e agendo nella piena legalità. Amanti dell'ordine e della gerarchia (significativo il brano del bambino costretto a ripetere all'infinito un gioco assurdo), nemici di coloro che si abbandonano all'istinto, ovviamente ipocriti (assistono con "un'aria compunta come se fossero davvero addolorati" ai funerali della moglie di papà Donato), arrivano a negare l'evidenza del fatti solo perché non rientrano nei loro schemi mentali. Anche questi personaggi, che pure assurgono a simbolo di grettezza e di soffocante conformismo, non si spiegherebbero senza il riferimento a certe consuetudini tipiche della società meridionale. Chi sono infatti i Fibbia se non un gruppo consistente di persone legate, come succede spesso nei paesi del Sud, da molteplici vincoli di parentela, compatti dal punto di vista ideologico e assai solidali tra di loro (e il nome, o soprannome, probabilmente, vuole alludere proprio a questo), anche se differenziati dal lato delle possibilità economiche? Così soltanto si può capire quella sorta di strana, inspiegabile a tutta prima, proliferazione della "razza" del Fibbia, a cui si assiste nel corso del romanzo. Essi infatti sembrano, a un certo punto, i soli abitanti di questo desolato paese, implacabili pedinatori del protagonista, che viene messo in stato d'"assedio", per usare un'espressione di Paolo, che è anche metafora di una condizione di smarrimento esistenziale, oltre che di disadattabilità sociale. E poi, per collegarli subito a un preciso ambiente, basterebbe pensare alla funzione di "compari d'anello", che avrebbero dovuto svolgere nel mancato matrimonio, oppure leggere il brano relativo alla loro prima apparizione, con la descrizione del tratti fisionomici e dell'inconfondibile abbigliamento: "Nonostante la stagione inoltrata, indossavano un vestito nero, con cappelli neri, cravatte nere, scarpe nere. Avevano la stessa testa grossa, gli stessi capelli, le stesse mascelle larghe, lo stesso sguardo cruccioso, e dimostravano una calma ostinata".
Gli altri personaggi del romanzo sono più vicini ai Fibbia che a don Gegè. Anche le figlie di papà Donato, le quali pure provano un'iniziale e istintiva avversione per questi individui, alla fine accettano il compromesso, rientrando nell'ordine costituito, e pure Nanetta si rifiuta di dare ascolto fino in fondo ai suoi sentimenti, rinunziando alla progettata "fuga" con don Gegè. Solo la moglie di papà Donato sconta, con la vera o presunta pazzia, fino alla morte, come un tragico personaggio pirandelliano, il suo anticonformismo e il desiderio di libertà e autenticità.
Il romanzo, nel quale non è difficile rintracciare svariati echi e suggestioni (Kafka e Pirandello in primo luogo, ma anche Buzzati, Camus, ecc.), presenta, pur nella sostanziale uniformità del tessuto stilistico, una vasta gamma di toni: dal grottesco, all'onirico, al patetico, quest'ultimo, forse, il meno congeniale a Paolo. Quella "accentuazione espressionistica", già notata da Barberi Squarotti ne Il canale (9), qui si fa ancora più evidente nelle descrizioni, peraltro ridotte al minimo, dello spettrale paese, in cui si svolge la vicenda, immerso in un'atmosfera carica di oscure, ma incombenti, minacce, e in certe sequenze da incubo, al limite tra il sogno e la realtà. Grande rilievo ha infine, come nelle altre opere di Paolo, il dialogo, qui finalizzato ad esprimere però, paradossalmente, l'incapacità degli uomini a comunicare e ad intendersi pienamente tra di loro.


NOTE
1) Anche queste lettere, insieme con numerose altre, inviate a Solvatore Paolo da Nino Palumbo, Andrea Zanzotto, Tommaso Fiore, Vasca Pratolini, Giorgio Barberi Squarotti, Ettore Mazzali, Giuliano Manacorda, ecc., sono conservate nell'archivio familiare a Carmiano. Ci corre l'obbligo, a questo proposito, di ringraziare la signora Raffaela Mele, vedova dello scrittore, che ci ha gentilmente messo a disposizione il carteggio e tutto il materiale necessario al presente lavoro.
2) Cfr. G. CUSTODERO, Puglia letteraria nel Novecento, Ravenna, Longo, 1982, pp. 135-136; M. DELL'AQUILA, Parnaso di Puglia nel '900, Bari, Adda, 1983, pp. 146-147.
3) Cfr. M. TONDO, Profilo della narrativa salentina, in "Sallentum", a. li, nn. 1-2. gennaio-agosto 1979, pp. 107-113.
4) Cfr. G. BERNARDINI, Il romanzo contadino di Salvatore Paolo, in "Quotidiano", Lecce, 6 febbraio 1980; F. MARTINA, La volontà di resistere; ibid.
5) Le lettere inviate da Salvatore Paolo a Nino Polumbo, che citiamo nel nostro studio, sono conservate nell'archivio privato dello scrittore pugliese a Rapallo. Queste lettere, tutte di estremo interesse per ricostruire le varie fasi dell'attività letteraria di Paolo, ci sono state gentilmente fornite dalla signora Donatella Palumbo, che qui ringraziamo.
6) Si legga, a questo proposito, il seguente brano di una lettera di Paolo a Palumbo, datata 27 marzo 1962: "Di me ho da dirti che sono diventato indifferente a molte cose. Sono cambiati anche i miei gusti letterari, il neorealismo non mi attira più. Per darti un'idea di ciò che mi accade, ti dirò, ad esempio, che ripensando alle tue cose, trovo ora molto più interesse per il tuo Il giornale che per L'impiegato d'imposte [sic.I. Eppure ti ricordi quello che ti dicevo tre anni fa? E questo mutamento spirituale è stato forse la causa principale dei mio isolamento".
7) G. DEBENEDETTI, Il romanzo del Novecento, Milano, Garzanti, 1971, p. 418.
8) Così infatti Paolo scriveva a Palumbo in questa lettera: "E' esatto che il mio nuovo orientamento estetico èd'ispirazione kafkiana, perché la lettura di Kafka ha esercitato su di me una forte influenza". E in un'altra lettera del 5 dicembre 1962 ribadiva che "quella chiave [Kafka] mi ha permesso di scrivere il romanzo che diversamente non usciva e forse non sarebbe mai uscito; trovavo infatti forti difficoltò, e alla fine le ho superate quando mi son messo su quella via. Non è stato quindi una mia intenzione o un mio proposito, ma uno sbocco spontaneo, né so dire se esso si ripeterà in altri lavori successivi".
9) G. BARBERI SQUAROTTI, La narrativa italiana del dopoguerra, Bologna, Cappelli, 1968, p. 149.


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