ALBANESI NEL SUD




Enzo Panareo



Quasi dovunque, nelle regioni dell'Italia centro-meridionale nelle quali s'insediarono, nel corso delle varie immigrazioni - sette furono le "trasmigrazioni" in Italia, secondo il Giustiniani (1), dieci secondo il Guyon, citato dal Simini (2) -, gli albanesi, o Coronei o Schiavoni, tutti di religione greco-ortodossa, dettero vita, in virtú della loro origine etnica e della fede professata, a vere e proprie isole etniche, e linguistiche, in mezzo alle popolazioni italiane.
Non fu facile, in molti casi addirittura impossibile, per tutta una somma di circostanze oggettive e soggettive, una repentina osmosi tra le popolazioni indigene e quelle immigrate per combattere al servizio di Alfonso d'Aragona o, in progresso di tempo, per sfuggire alla sempre ricorrente minaccia turca.
Una diffidenza, a vario titolo giustificata, accolse, al loro apparire sul suolo italiano, gli albanesi da parte delle popolazioni indigene che non esitarono a coniare, con la piú accesa fantasia, appellativi ingiuriosi o locuzioni offensive o proverbi minacciosi allo scopo di indicare i nuovi venuti. I quali, dal canto loro, si difesero con altri proverbi minacciosi o con altre immagini ingiuriose. Era ovvio che la diffidenza nei riguardi degli albanesi dovesse, ben presto, dove piú dove meno, degenerare in ostilità aperta, che in alcuni casi si tradusse in episodi di violenza. E tuttavia va sottolineato che proprio in virtú dell'ostilità presto manifestata dagli italiani nei riguardi degli albanesi, la lingua di costoro ebbe la possibilità di conservarsi indenne da ogni inquinamento lungo alcuni secoli, in quanto coloro che la parlavano si videro costretti dall'ostilità delle popolazioni italiane a chiudersi in un piccolo, e perfettamente impermeabile, mondo etnico che rappresentasse una difesa, ma anche un riflesso ed un rimpianto per la patria remota e perduta.
Nasceva, tra l'altro, anche lo spirito della gjitonja, che non è il quartiere nel quale gli arberesh potevano essere, o essersi, confinati, ma è il "prolungamento della casa in strada: la sua estensione sociale, lo spazio comune e condiviso" (3) nel quale la cultura propria di un minuscolo gruppo etnico è continuamente tenuta in vita e difesa dagli attacchi, consapevoli e inconsapevoli, di tutte le forze esterne.

Ma, d'altro canto, proprio la differenza di linguaggio, oltre quella di fede religiosa, estremamente determinante - che, a suo volta, avrebbe dato origine ad un problematico socio-culturale abbastanza variegata -, avrebbe contribuito ad approfondire il solco, inevitabile, creatosi tra popolazioni italiane ed immigrati albanesi - "montanari fieri e un po' selvaggi, ma nobili di animo, coraggiosi, ospitali" secondo l'opinione di uno studioso attento come il De Giorgi (4)-, tutt'altro che disposti a rinunciare alla loro identità, etnica e culturale, oltre che alla religione dei padri. Ma agli albanesi capitò subito di perdere, almeno ufficialmente, la loro identità etnica, in quanto, a causa della comune appartenenza al rito greco, furono confusi con i greci.
E casi, si cominciò ad accusare i nuovi venuti d'ogni sorta di nefande azioni. Tanto che s'ottenne dalle autorità politiche ed amministrative, in alcune regioni, che gli albanesi vivessero chiusi in paesi circondati da mura e, perchè non potessero uscirne con facilità, s'ottenne, nel 1564, che gli albanesi montassero a cavallo, ma senza sella, staffe, speroni e redini ed, inoltre, senza armi. Fu allora che gli albanesi presero ad usare il "basta a croce", che in alcuni luoghi ancora oggi è adoperato (5).
Va però tenuto conto di un dato dal quale naturalmente scaturiscono numerose implicanze di carattere socio-etnologico molto interessanti per comprendere alcuni aspetti della situazione degli albanesi in Italia. Mentre i primi albanesi giunti in Italia erano soldati mercenari, nei cui confronti certo lo stato d'animo delle popolazioni locali non poteva essere dei piú favorevoli, gli altri, a partire dalla terza "trasmigrazione" annotata dal Giustiniani - avvenuta, questa, dopo la morte di Scanderbeg, nel 1468 -, furono dei profughi, i quali portavano nell'animo non il coraggio e la fierezza del popolo combattente, com'era accaduto per i primi albanesi che erano stati chiamati in Italia, ma la frustrazione della gente profuga, la quale è consapevole della situazione di separatezza e di emarginazione nella quale è fatalmente precipitata e l'accetto come una fatalità anche se all'interno cova indomito lo spirito di vendetta. Fu senza dubbio questa, sotto l'incalzare della minaccia turca, l'ondata piú consistente dell'emigrazione albanese in Italia. Tutte queste ondate d'immigrazione, comunque, dirette verso le coste italiane provenivano sia dal nord che dal sud dell'Albania ed anche dalla Grecia.
Fu certo determinante per definire la situazione degli albanesi in Italia in rapporto alle popolazioni indigene la diversità di linguaggio. Dalla quale, insieme con la diversità di culto religioso, scaturì la mancanza di comprensione e di amalgama tra italiani ed albanesi. La prima testimonianza scritta sul bilinguismo albanese-italiano nell'Italia Meridionale risale al 1601 ed è redatta in questi termini: "In questi conuicini paesi habitano molti huomini, e donne, da noi chiamati Albanesi, liquali tra loro parlano secondo l'uso della loro natiua lingua, ma con noi parlano secondo il nostro USO... " (6). Si tratta, com'è facile intuire, di una testimonianza importante perchè lascia comprendere, se meritava d'essere anche annotato con tanto diligenza, quanto profondo fosse allora il solco nel rapporto quotidiano orale tra italiani ed albanesi, i quali non intendono rinunciare all'interno del gruppo etnico all'uso del linguaggio originario.


Tuttavia, i sovrani di Napoli, in particolare re Ladislao, i due Alfonso e Ferrante d'Aragona nel 1494, con privilegi poi confermati dal re Federico nel 1497, accordarono agli albanesi, schiavoni e coronei, invitati "ad occupare il sito delle terre spopolate nel regno", certe agevolazioni fiscali allo scopo di invogliarli a stabilirsi definitivamente nel Regno delle Due Sicilie.
Per fare un caso, gli albanesi e gli schiavoni ottennero l'esenzione anche dalla tassa focatica e dei sale, quelle tasse che costituivano le functiones fiscales, cioè i pagamenti fiscali, oltre ad altre esenzioni fiscali. Ecco, a tal proposito, il brano del Freccia: " ... solet Baro quandoque plus percipere, cum hobet ex gratia regis facultatem edificandi casale cum exemptione functionum fiscalium ad certum tempus, quando vero praedicti Albanenses, Greci aut Sclavones per annos viginti aut triginta firmi permanserunt in certo loco procreando filios, possidentes animalia, & terras, magis dici possunt ltali quam Albanenses..." (7). Malgrado questa benevolenza accordata, per opportunità naturalmente, dai vertici politici agli albanesi immigrati nell'Italia Meridionale, i rapporti di costoro con le popolazioni restarono sempre impraticabili, molto tesi e difficili, sempre suscettibili di degenerare in scontri, che potevano anche diventare cruenti. E di ciò resta traccia in numerose testimonianze di scrittori e di storici che agli albanesi hanno fatto cenno nei loro scritti, per lo piú resoconti di viaggio o relazioni di tipo burocratico e giudiziario.
A proposito degli albanesi della provincia dauna, il Galanti sostenne che "... Gli abitanti della sommità del Gargano e delle colonie albanesi sono facinorosi ed indisciplinati. Sono dediti al contrabbando e tra loro si sentono delitti di un'atrocità singolare..." (8), dove non sfugge che il molisano non fa che riportare voci che, durante il suo peregrinare per le regioni del Regno delle Due Sicilie, gli sono state riferite e che, magari, strada facendo si sono ingrossate fino al l'esagerazione. Tenendo, peraltro, conto della naturale fierezza degli albanesi, che li faceva apparire "facinorosi" e "indisciplinati". Piú temperato e riflessivo invece il Palmieri, il quale, interessato alla popolazione come elemento propulsivo della produzione, eccettuando "... l'esempio di Chieuti, e di altri villaggi, infami nidi di ladroni e contrabbandieri", parla di un "... maggior numero di villaggi di Albanesi, che producono utili, ed industriosi cittadini..." (9), dove però quel che colpisce è il richiamo, già fatto dal Galanti, al contrabbando, segno evidente che una tal pratica doveva essere piuttosto diffusa presso gli albanesi, piú degli altri messi, per la loro diversità etnica, nella condizione di nascondersi e d'andar per vie traverse.
Stupisce che un erudito del calibro dei Giustiniani trascuri, in un suo elenco di comuni albanesi dell'Italia Meridionale, quelli della Terra d'Otranto, quelli cioè raggruppati intorno a Taranto; ma fino ad un certo punto stupisce, se si pensa che ancora nel marzo dei 1881, in epoca che già cominciava a non essere piú sospetta, lo studioso leccese Luigi G. De Simone, da Messina dove attendeva alle sue funzioni di Vice Presidente del Tribunale, rivolgeva istanza alle autorità politiche ed amministrative della provincia di Lecce affinchè, nell'imminente censimento, che fu eseguito il 31 dicembre di quell'anno, si rispondesse anche a questi quesiti: "... Numero degli abitanti parlanti il Greco, o l'Albanese; risposta affermativa, o negativa intorno al se conservino costumi greci, o albanesi; di che culto si servano; e se del greco, se orto, ovvero eterodosso: quanti Ministri abbia detto culto" (10). Sono, com'è evidente, quesiti che corrispondono, una volta elaborati opportunamente sui dati forniti, ad ipotesi di lavoro, che in tempi recenti sono state riprese e portate avanti con successo. Purtroppo, l'istanza avanzata dal De Simone fini "agli atti per mancanza di bollo", cioè non fu presa in considerazione, per difetto, piú che di bollo, di sensibilità, bisogna pensare, nei riguardi dei problemi delle minoranze etniche, sebbene a quella data queste fossero già osservate con l'attenzione che meritavano. L'Arditi, a proposito degli abitanti di San Marzano, un comune albanese di Terra d'Otranto, afferma che si tratta di "gente sana di corpo e di un'operosità e longevità prodigiosa" ed a proposito del progressivo decremento demografico avvertito nella popolazione di Roccaforzata, registrato a partire dalla tassazione per fuochi del 1532 a quella del 1669, superando la perplessità dei Giustiniani, casi cerca di giustificare il fenomeno, in effetti soltanto apparente: "... io, lungi dal vederci una mancanza reale, vi leggo in vece un favore, un incoraggiamento, un'agevolazione di tassa che si volle forse accordare agli Albanesi come esterni e lontani dalla loro terra di origine" (11). Ipotesi, questa, che in fondo non sta molto lontana dalla verità.


Il Ceva Grimaldi, alto funzionario di Stato al tempo dei Borboni, oltre che uomo di salda dottrina, anche se di stampo piuttosto conservatore, rileva che, malgrado le numerose agevolazioni accordate agli Albanesi d'Italia per incoraggiarli a restare ed a produrre, secondo le intenzioni dello Stato, "l'opinione comune ha loro rimproverato una selvaggia ritrosia verso la nuova patria ... "; d'altro canto, continua piú vibratamente il Ceva Grimaldi, "... la loro inerzia fu invincibile. Oziosi, sedenti per terra con le gambe incrocicchiate, imitando così servilmente i turchi, mangiarono neghittosamente le semenze che dovevano spargere ne'. campi, i buoi e gli armenti che dovevano ararli: e fu forza rimandar questi pigri ne' loro patri tuguri..." (12). Accuse, com'è facile intuire, queste, non immuni, proprio perchè casi pesanti, da malanimo innanzi tutto e poi da esagerazione, generalizzazione e casi via, se soltanto si tiene conto del fatto, non preso in considerazione dal Ceva Grimaldi, che mai un albanese si sarebbe degradato al punto da imitare negli atteggiamenti esterni i turchi, suoi nemici da sempre. Non c'è dubbio che il Ceva Grimaldi, come il Galanti, raccontava riportando opinioni che non aveva avuto agio, o non aveva pensato, di verificare estensivamente di persona e che, in fondo, dati i mezzi allora a disposizione, potevano anche essere tutt'altro che verificabili. E anche agli inizi dell'Ottocento così il Masci descriveva gli albanesi: "... tutto che di natura volubili sono però fedelissimi e circospetti verso l'amico, verso il padrone. I nemici di ogni simulazione o tradimento sono i piú puntuali in quelle amministrazioni, che loro vengono affidate. Ma al pari di tutti i barbari si credono lecito cogl'inemici usare l'inganno e le fallacie" (13).
Era ovvio che in un clima psicologico siffatto, di preconcetta ostilità, i baroni delle terre meridionali fossero stati costretti, nei secoli precedenti, quando la feudalità veramente dettava legge ed imponeva tutta una normativa della vita quotidiana dei diseredati, a stabilire, sulla traccia del diritto feudale, "... se gli albanesi dovessero fra noi vivere come cittadini, o se convenisse averli sempre come servi o come nemici" (14); che è, in fondo, un dilemma a senso unico. In questi termini, allora, si stabiliscono perentoriamente i confini politici e giuridici entro i quali dovevano essere considerate le colonie albanesi d'Italia. In nota il Winspeare, dalla cui opera questa osservazione è stata tratta, riporta, in progressione alfabetica, tutto un lunghissimo elenco degli esosi ed assurdi gravami feudali ai quali gli albanesi, inermi di fronte alla prepotenza baronale, erano andati soggetti. E che queste imposizioni, per la loro incredibile quantità e per l'altrettanto incredibile qualità, ricadessero nel dominio dell'iniquo, lo conferma lo stesso Winspeare allorchè annota: "... I diritti a' quali erano soggette la píú parte delle popolazioni d'Otranto possono citarsi come un saggio di quelli a cui erano generalmente soggette le popolazioni tutte degli Albanesi", come a dire che gli albanesi, rispetto agli indigeni sulla cui povera economia pesava tutta una somma d'ingiuste imposizioni, erano letteralmente oltre i limiti dell'umano tassati. Il De Grazia, a sua volta, sostiene che gli albanesi nelle Calabrie "occuparono alcuni casali rovinati e spopolati dal terremoto del 1456. In sulle prime tutti si diedero all'agricoltura, alla pastorizia o alla guerra, rimanendo i piú ad arbitrio dei loro Capi o dei Baroni, nei cui feudi entravano a servire. Sotto gli Spagnuoli furono oppressi come gl'indigeni, anzi peggio: essendo piú agresti e piú alteri, furono angariati orribilmente dai Baroni e dalla Chiesa" (15).
Politica fiscale, questa, assurdamente discriminante, che non poteva certo conciliare le simpatie degli albanesi nei riguardi dei baroni nei cui domini s'erano trovati ad insediarsi e, piú in generale, nei riguardi delle povere popolazioni indigene, i cui obblighi fiscali, pur se pesanti, erano sempre meno pesanti di quelli cui erano costretti gli albanesi. E tutto ciò malgrado la saggia politica d'incoraggiamento realizzata per i primi tempi dal Re di Napoli nei confronti degli albanesi!
E' nella seconda metà dell'Ottocento, sulla scia dell'impetuoso moto romantico che va dischiudendo, insieme con quelli di carattere politico, tanti altri orizzonti, che si comincia a respirare un clima diverso, piú liberale, intorno agli albanesi d'Italia. Certe diffidenze di fondo permangono perchè, per la loro natura, sono dure a morire; ma alcuni atteggiamenti si sono andati modificando dall'una e dall'altra parte, anche in virtú del fatto che gli albanesi, fieri e combattivi, in Italia hanno saputo assumere in molti casi, nel l'appassionata vicenda risorgimentale, un ruolo da protagonisti. Lo rilevava già il De Giorgi, quando affermava: "... Dall'Albania son quindi venute in Puglia le prime correnti di civiltà in tempi remotissimi; essa ci mandò un popolo fiero e coraggioso per discacciare gli stranieri dalle nostre terre; e fra i patrioti che concorsero efficacemente all'unificazione della nostra Italia figurano gloriosi i nomi di alcuni martiri albanesi". E' il momento in cui si va scoprendo degli albanesi anche la cultura, la attraverso saggi di cospicuo interesse, una cultura la quale in Italia può vantare premesse di non comune dignità in poeti albano-siculi e albano-calabri che operarono dal Seicento all'Ottocento. Tra tutti va ricordato Giuseppe Variboba, di S. Giorgio Albanese in provincia di Cosenza, nato nel 1715 (16).


Di questa cultura è parte interessantissima la poesia. Essa è soprattutto ricca di fremiti patriottici e di risonanze spirituali, ed i poeti albanesi del XIX secolo, esuli per lo piú, cantarono con toni accesi di profonda mestizia per l'indipendenza del loro Paese, ma anche per l'indipendenza d'Italia. Vanno ricordati, a questo proposito, i poeti Gerolamo De Rada, nato a Macchia Albanese, in provincia di Cosenza nel 1814 e morto poverissimo nel 1903, Antonio Santori, di Santa Caterina, ancora in provincia di Cosenza, nato nel 1819, e Giuseppe Serembe, di San Cosma Albanese, sempre in provincia di Cosenza, nato nel 1843, morto a S. Paolo del Brasile nel 1891.
D'altro canto, la cultura albanese vanta una poesia d'amore che può benissimo stare accanto a quella dei primi secoli della letteratura italiana per la genuinità dei sentimenti che la sollecitano e per la varietà e purezza delle forme che la sostengono. Rispetto a quella italiana, la poesia albanese ha caratteri distintivi di notevolissima portata. Afferma con acuto senso critico il De Grazia: " ... A differenza della poesia popolare di tutto il mezzogiorno d'Italia, lirica e subbiettiva, questi Canti hanno quasi tutti carattere epico, obbiettivo, sono insomma come un patrimonio di famiglia trasmesso di generazione in generazione", dove ancora una volta risalta il carattere di questa gente fiera che non accetta di rinunziare alle caratteristiche etniche e le difende strenuamente.
Il 31 maggio del 1717 George Berkeley, viaggiando in Italia, arriva a Faggiano e s'incontra con un prete albanese, il quale "... Non ha potuto dirci nulla della colonizzazione; gli uomini erano andati mercenari in altre parti d'Italia e in loro assenza le donne non avevano preso cura del testi scritti. Cosí manoscritti storici e archivi vi sono andati perduti. A Faggiano ci sono 1.500 abitanti, tutti di origine albanese e che usano la loro lingua madre, mentre i figli vanno a scuola ad imparare l'italiano. N.B. L'abbigliamento delle donne albanesi ... " Il prete ci ha detto che se un braccio, ad esempio, è morso dalla tarantola si gonfia. Ci ha inoltre confermato la credenza che si guarisce solo alla morte della tarantola. L'abitazione del prete èstraordinariamente curata. Dappertutto si avverte un certo rispetto per gli inglesi, che sono anche abbastanza conosciuti per il commercio, la marina e l'esercito. Un'antica cappella greca, con dipinti barbari e iscrizioni a caratteri in parte greci e in parte barbari. Il prete aveva una particolare avversione per il vino, lo beveva solo all'Eucaristia. Faggiano è totalmente albanese, mentre altri centri, come La Rocca (Roccaforzata) e San Giorgio (San Giorgio lonico) lo sono solo parzialmente" (18).
Già nei primi dei '700 i bambini delle colonie albanesi in Italia andavano a scuola "ad imparare l'italiano" ed il Gregorovius, un secolo e mezzo dopo circa, scendendo nella Penisola Salentina, trovava che a San Giorgio, il comune citato anche dal Berkeley, "... Gli abitanti conservano ancora un residuo della loro lingua indigena e delle loro costumanze. Quanto al resto, non si distinguono piú in nulla dalle altre popolazioni del paese... " (19). D'altronde, s'è visto che il Freccia non faceva distinzione tra italiani ed albanesi una volta che costoro "per annos viginti aut triginta firmi permanserunt in certo loco".
Degni di noto sono, nel passo del Berkeley, due rilievi. E' importante quello relativo alle credenze intorno al morso della tarantola. indubbiamente c'è tutto una letteratura intorno al tarantolismo che è, certo, ideologia non esclusiva dell'area albanese, tutt'altro. Al di la del tarantolismo, però, per quel che riguarda il mondo degli albanesi in Italia, c'è da osservare che questi non hanno mai rinunziato a tutta una gran somma di credenze e di pratiche magiche, che hanno costituito come una cortina difensiva dietro la quale gli albanesi si sono ritirati, come per difendersi un po' dai tiri incrociati di una ostilità variamente diffusa nella società nella quale si sono trovati a vivere (20).
Importante è, inoltre, il rilievo che riguarda la lingua ed il costume di vita. Già nel 1717 un viaggiatore constata che i bambini albanesi a scuola imparano l'italiano, dando, forse, allora l'avvio ad un processo, ancora oggi non arrestato, che forse non s'arresterà mai se non si prendono opportuni provvedimenti, di dissoluzione linguistica. Che al tempo dei Gregorovius doveva aver già raggiunto una misura abbastanza avanzata se il tedesco accennava ad "un residuo della loro lingua indigena". E' incontestabile, in altri termini, che ad un certo momento, mutate le condizioni storiche e culturali in Italia, inizia, sia pure con alterne vicende legate al flusso della politica contingente, per gli albanesi il processo d'integrazione con le popolazioni della Penisola, anzi della parte meridionale della Penisola. il prezzo di tale integrazione è la rinunzia - non forzata, certo, non ci si sarebbe assoggettata la naturale fierezza degli albanesi ed il loro giustificato attaccamento alle memorie avite, ma naturale, sull'onda degli eventi storici - alla lingua in modo particolare ed all'identità etnica. E questa, insomma, che comincia gradatamente a dissiparsi, diventando a poco a poco mero rimpianto.
Ed ancora di recente, ecco come s'esprime un autore intorno agii albanesi di Calabria: " ... quel po' che conosciamo lascia credere che essi abbian chinato la schiena a ogni sorta di vincoli (fra cui quello di non muoversi dai loro villaggi) pur di por fine a una catena di peregrinazioni e di pericoli. Le fonti bruzie di quei tempi li descrivono come violenti e primitivi, responsabili di molti furti e omicidi: e questo èsicuramente vero. Ma a tale riguardo vien naturale una domanda: cosa recavano di novità a una società agricola come quella bruzia, gli albanesi? Partiti dai loro paesi in conseguenza della guerriglia fra Scanderbeg e i sultani, e chiamati a popolare zone deserte, aspre, insicure, la loro esperienza agricola e pastorale era con ogni probabilità più regredita di quella - pure così elementare - dei bruzi" (21). Si vuoi testimoniare, in effetti, che malgrado una intensa elaborazione storica e culturale, che occupa oltre un secolo ed ha fatto giustizia del vecchi schemi attraverso i quali gli albanesi erano osservati, c'è ancora chi assume quegli schemi e, pur mostrando di non volerli applicare, li propone, tuttavia, come dovessero ancora oggi valere.
Gli studi recentissimi vanno dimostrando che in moltissimi comuni dell'Italia meridionale, un tempo ed oggi ancora abitati dagli albanesi, la lingua d'origine comincia ad essere soltanto un mesto ricordo.


NOTE
1) L. GIUSTINIANI, Lettera a S.E. D. Francesco Migliorini Segretario di Stato di S. M. (D G) di Grazia, e Giustizia, e dell'Ecclesiastico in Dizionario Geografico - ragionato del Regno di Napoli di Lorenzo Giustiniani Regio Bibliotecario a Sua Maestà Ferdinando IV Re delle Due Sicilie Tomo X. Nopoli, 1805, pp. 191-198. Ristampa anastatica presso Forni Editore, Bologna, 1970.
2) G. SIMINI, Albania. Foligno- Roma, Franco Campitelli, 1932, p. 310: "... Le grandi immigrazioni, sostiene il Guyon, furono 10, di cui due prima della morte dell'Eroe Skanderbeg, in virtù delle amichevoli relazioni fra gli Albanesi e gli Aragonesi del Reame di Napoli".
3) Cfr. M. CALLARI GALLI & G. HARRISON, Un rapporto antropologico sul biculturalismo delle comunità arberesh della provincia di Cosenza in M. CALLARI GALLI & G. HARRISON, La danza degli orsi. Roma, Sciascia Ed., 1974, pp. 307-309.
4) C. DE GIORGI, Puglie ed Albania. Firenze, Uffizio della Rassegna Nazionale, 1886, p. 19. Testo della Conferenza tenuta in Firenze il giorno 11 settembre 1885 nell'Aula Magna dell'Istituto di Studi Superiori, nel III Congresso dell'Associazione meteorica italiana.
5) La Calabria. Milano, Lerici editori, 1961, cap. II - Gli italo-albanesi, pp. 348-358.
6) G. MARAFIOTTI, Croniche et antichità di Calabria. Padova, 1601, cit. in M. CAMAJ, Il bilinguismo nelle oasi linguistiche albanesi dell'Italia meridionale. 1° Consiglio Nazionale delle Ricerche. Centro di Studio per la Dialettologia Italiana. Pacini Editore, pp. 5-13.
7) M. FRECCIA, De subfeudis Baronum, et investituris Feudorum... Venetiis, Apud Nicolaum de Bottis, MDLXXIX, pp. 297-299.
8) G. M. GALANTI, Della descrizione geografica e politica delle Sicilie. A cura di F. Assante e D. Demarco, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1969, vol. II, p. 537. Vale la pena, a questo punto, riportare l'opinione di uno storico contemporaneo di scuola marxista: "... Gli albanesi stabilitisi in Italia sono sempre stati turbolenti, probabilmente perché lo sforzo costante dei signori locali per ridurre i privilegi da essi ricevuti all'atto del loro insediamento, i continui tentativi della Chiesa per trasformarli in cattolici romani e la singolarità delle loro concessioni di terre, che, dopo l'abolizione del regime feudale, fece sì che i loro villaggi si trovassero in una situazione critica, inaspriva i loro rapporti con le autorità ... ": E. J. HOBSBAWM, l ribelli. Forme primitive di rivolta sociale. Torino, Piccola Biblioteca Einaudi, 1974, pp. 130-134.
9) G. PALMIERI, Della ricchezza nazionale. In Napoli, MDCCXCII per Vincenzo Flauto, pp. 211-212.
10) L. GRAZIUSO, Un inedito di L. G. De Simone per censimento di minoranze linguistiche in "Rassegna Trimestrale della Banca Agricola Popolare di Matino e Lecce", a. V, n. 3/4, Sett./Dic. 1979.
11) G. ARDITI, La Corografia fisica e storica della Provincia di Terra d'Otranto. Lecce, Stab. Tip. "Scipione Ammirato", 1879-1885, p . .....
12) G. CEVA GRIMALDI, Itinerario da Napoli a Lecce e nella provincia di Terra D'Otranto. Napoli, Dalla Tipografia di Porcelli, 1821, p . .....
13) A. MASCI, Discorso del Consigliere di Stato Angelo Masci sull'origine, i costumi e lo stato attuale degli Albanesi del Regno di Napoli (1807), ristampato per cura di F. Masci, Napoli, Nobile, 1847, p. 48. Cfr. per il Masci, R. TRIFONE, Feudi e demoni. Eversione della Feudalità nelle Provincie Napoletane. Milano, Società Editrice Libraria, 1909. In questo testo, che qua e là s'occupa degli albanesi e dei riflessi della feudalità su di loro, il Masci è detto (p. 82) "Fra i più fieri avversari degli abusi e delle prepotenze baronali".
14) D. WINSPEARE, Storia degli abusi feudali... Napoli, Gabriele Regina, Editore, 1883, seconda edizione ampliata, pp. 39-40. In questo libro la nota n. 158 a pag. 260 rimanda alla nota n. 154 a pag. 222 sgg., nella quale è contenuto un lunghissimo elenco, in ordine alfabetico, dei gravani feudali. Alcuni di questi, segnati con asterisco, sono comuni alle popolazioni albanesi e greche. S'è detto che agli albanesi capitò subito di perdere, almeno ufficialmente, la loro identità etnica, in quanto, a causa della comune appartenenza al rito greco, furono confusi con i greci. Anche le denominazioni d'alcune località forniscono una testimonianza di questa circostanza.
15) D. DE GRAZIA, Canti popolari albanesi tradizionali nel Mezzogiorno d'Italia riordinati tradotti e illustrati da Demetrio Prof. de Grazia. Noto, Off. Tip. di Fr. Zammit, 1889. Ristampa anastatica A. Forni Editore, 1980, p. 35.
16) Per questo e per altri autori cfr. G. SCHIRO' Jr., Storia della letteratura albanese. Milano, Nuova Accademia Editrice, 1959.
17) D. DE GRAZIA, Canti popolari albanesi cit., p. 71.
18) G. BERKELEY, Viaggio in Italia a cura di Thomas E. Jessop e Mariapaola Firmiani. Napoli, Ed. Bibliopolis, 1979, pp. 209-210.
19) F. GREGOROVIUS, Nelle Puglie. Versione dal tedesco di Raffaele Mariano con noterelle di viaggio del traduttore. Volume unico. Firenze, G. Barbera, Editore, 1882, p. 408.
20) Cfr. il recentissimo A. BELLUSCI, Magia miti e credenze popolari, Ricerca etnografica tra gli albanesi d'Italia. Cosenza, Centro Studi e Ricerche Socio-Culturali "G. Kastriota Skanderbeg", 1983.
21) L. GAMBI, Calabria. Torino Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1965, pp. 167-169.


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