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LA VIA DELLA LIBERTA'
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MONUMENTO AL GABBIANO |
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Italo
Mancini
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San
Benedetto del Tronto decide un monumento al gabbiano. C'è la
dichiarata memoria del gabbiano Jonathan di Richard Bach, il best-seller
di anni non lontani, ancora molto letto tra i giovani. Ipotizzando un
discorso inaugurale per quello che per ora è soltanto un progetto
di Mario lupo, stenderei una prosa con questo titolo: Il gabbiano Jonathan
e la sua logica incompiuta. Per sottotitolo, metterei: perchè
i gabbiani fuggono dai nostri mari? E direi così.
Per rendere chiaro questo titolo e per essere schietto fin dall'inizio indicherò subito la mappa di questo intervento attraverso l'indicazione dei temi che intendo svolgere e ringrazio il monumento dei Sambenedettesi di avermi fatto riflettere e di avermi spinto a parlare su un tema che abito su monti abbastanza lontani da quelli a me, filosofo, che maneggio concetti e non metafore o simboli, quotidianamente abituali. Non avrei mai pensato che, nella mia vita speculativa e di incontro con la gente, avrei dovuto un giorno occuparmi di gabbiani. Ma la linea suggestiva del monumento e l'arco di questo mare che mi ha visto leggere e scrivere non poche volte nelle solitudini soddisfatte sotto la fidata protezione delle palme, come mi è capitato in tante altre spiagge del sud, soprattutto nella terra del Salento, che è anche terra mia; e soprattutto il bel libro di Richard Bach, che ha ormai tre lustri sulle spalle, e si presenta tuttora pulito e utile come un frutto di cielo e di mare nello strano connubio tra la maestria del pilota e quella della gente di mare, non solo umano ma anche animale, e che nel suo genere letterario di parabola o simbolo o allegoria dice molto di più della fragile favolella che gli fa da pretesto. C'è anche da aggiungere che domenica 12 febbraio di quest'anno il "Corriere della Sera" ci offriva il ghiotto elzeviro dell'amico Paolo Volponi dal titolo Cosa insegnano questi gabbiani?, che non può solo servire a "salvare il territorio di Urbino", com'è detto ancora nel titolo, ma ogni territorio, soprattutto di costa e di mare, soprattutto delle coste e dei mari abbracciati dallo Ionio. Proprio con l'interrogativo di Paolo Volponi fisseremo, prima di chiudere, la nostra inquietudine, non solo ecologica, ma anche pacificamente umana e nel segno di una fraternità senza terrore, contro il troppo scialo di morte che ha lambito queste nostre terre. La mappa, dunque, del nostro intervento è disegnata da questi interrogativi: primo, la morale imperfetta del gabbiano Jonathan; secondo, luci e ombre della morale del "branco"; e questa ghettizzazione del "branco" rappresenta, secondo me, il limite di questa avventura drammatica, per definizione solitaria, come chiarirò più avanti; e già la parola "branco" indica provocatoriamente una logica della esclusione degli altri dall'avventura redentiva, e indica l'esecuzione solitaria dell'ascesa, e comporta una sterilità assiologica nei confronti delle normali attività delle opere e dei giorni dell'uomo: l'ideale della sola libertà non è il tutto della liberazione, come la può intendere un cristiano, e anche un marxista; sembra troppo "americano", questo riassunto dell'impegno nella sola libertà. La fraternità senza terrore, l'ideale neogiacobino dell'estremo Sartre mi pare più completo. Terzo, perchè i gabbiani fuggono dalle coste, perchè i nostri mari sono diventati a loro invivibili, quale squartomento della storia e quale manipolazione della natura sta alle spalle di questo inaudito divorzio tra il gabbiano e il mare, tra l'uomo e la sua città? La morale, del gabbiano Jonathan, dunque. Il suo destino straordinario era già nel nome. I gabbiani normali non hanno il nome biblico di Gionata. Questa incarnazione dell'amicizia leale, che permette di guardare in faccia l'altro senza paura, è stata rappresentata anche da Vittorio Alfieri nella sua tragedia a soggetto biblico, il Saul, con lo scopo di alleggerire il mondo tragico che si stringeva dannosamente nella maledetto e perduta esistenza del re d'Israele. Il primo dato, infatti, che possiamo annotare nella vicenda del gabbiano di Richard Bach èproprio la portata biblica. E fa cenno in due direzioni. Dapprima nella direzione di una angelizzazione dell'uomo, secondo temi che, in modo indipendente, le correnti recenti del Nouveaux Philosophes hanno promosso e hanno riassunto nell'invocazione Que l'ange vienne!: e venga a districare l'uomo da una corporeità greve e soggetto alla legge della violenza dell'immediato che la sua plètora delle informazioni ci frantuma in ogni modo, decostruendoci nel nòcciolo più indispensabile della nostra realtà, quell'io personale e sussistente, che è la radice della libertà e della responsabilità, proprio nel senso del termine, rispondere di (quanto si fa, si dice, si pensa, che non può essere ridotto a irrazionali pulsioni dell'inconscio) e rispondere a (quei segni dei tempi e chiamate provvidenziali, il cui acre bisogno sembra appuntarsi ora soprattutto nel rifiuto di un rifugio nel privato e nella immediatezza di un corpo senza organi, fatto tutto e solo senso, ritrovando insieme la dignità del servizio nell'autorità e nella vita pubblica e politica). Il gabbiano Jonathan fa cenno nel senso dell'angelo non solo trasfigurandosi in essenza, in idea, in ideale (nel senso kantiano dell'idea fatta individuo), ma anche nel senso di risoluzione della vita del pensiero nella spiritualità, nella franchigia dalle barriere soprattutto spaziali, anche se la verticalizzazione sembra risultare eccessiva. Nel momento in cui la teologia, anche cattolica sembra aver svenduto l'angelo, ecco che il gabbiano ce lo ripropone, casi come lo riproponeva, con più alta intenzione filosofica e teologica, quello che può essere considerato la punta di diamante della rinascente cultura neoebraica, parlo di Walter Benjamin e del suo complesso motivo dell'angelus novus, che non può essere trattato qui, ma solo accennato. La seconda direzione verso cui fa cenno la biblicità del gabbiano è quella verso l'alto, verso il regno, molto indicativa ora che il mondo, da qualche secolo, sembra non essere altro che una repubblica, e l'alto viene inteso come forma di classismo ontologico, si che lassù sarebbero gli enti soddisfatti, imperituri, al riparo e noi si starebbe qui destinati all'insignificanza, al dolore e alla morte. La biblicità del gabbiano fa cenno inoltre nel ritrovamento del padre esemplare e proteggente, e anche questo è importante, vista la rimozione psicanalitica verso il padre e la cancellazione di ogni residuo di identità, teologica ontologica e morale, che si riflette anche nel tema della deterritorializzazione, parola dell'ultimo Nietzsche per indicare il primo passo nella via del pensiero negativo e che significa la recisione anche della forma più umile di radice e di legame con la solidità spaziale, quella della famiglia, della città, delle proprie tradizioni, fino al raggiungimento di quell'idea proposta ancora da Nietzsche nella Genealogia della morale, che è la soppressione della memoria, soprattutto quella morale e della colpevolezza, onde la cifra suprema del suo superuomo che è l'innocenza del divenire e la soppressione di ogni forma di pena, un vero e proprio negativismo penale. Infine, la biblicità del gabbiano Jonathan fa cenno, se non spaventa la parola, verso una escatologia della storia e della vita, dove c'è un fine, uno scopo, un'andare verso traguardi che vengono coperti dalla parola classica in questo campo, quella di paradiso, che non è utopia, ma frutto della dialettica di moralità e felicità, nel cui vincolo sta, secondo Kant, la pienezza morale che fa centro nel sommo bene. Quanto è lontano tutto questo da una concezione ripetitiva e ciclica del mondo, "che si nutre dei suoi escrementi", in preda allo "spreco di forze" e all'"usura dell'invano", secondo modelli nietzschiani che vengono riproposti anche dalla Nouvelle Droite. La favolella del gabbiano Jonathan diventa istruttiva, anzi maxime pro nobis, nel suo stesso sviluppo, che non solo è ternario, ma indica anche tre aspetti classici della vita e della storia intesi non come cicli uguali a quelli dell'atomo, del cane e della scimmia, ma come un itinerario di libertà e di liberazione. Anche Jonathan sta nell'inferno della logica del branco, con la sua vita inautentica rivolta al satollarsi e alla chiacchera, senza progetti e senza svuotamenti, che accompagnano sempre, in senso ascetico e in senso politico, la vita dei rivoluzionari: sta nel purgatorio delle Scogliere Remote, a purgarsi della corporeità greve, a istruirsi nel volo senza peso, a raggiungere l'identità con il pensiero e con l'anima; e sta nella pienezza paradisiaca, quando lascia non solo il branco, ma anche i compagni di perfezione, e torna al "Gabbiano padre", nell'altissimo del cielo, dove starà eternamente nella vita angelicata. La vita del gabbiano diventa, alfine, istruttiva per la tragicità della vita che gli è imposta a motivo di queste scelte. Tragedia qui io l'intendo secondo il saggio di György Lukacs del 1910 e intitolato appunto Metafisica della tragedia. Metterò in risalto solo due punti. Il primo. L'uomo è tragico quando si trova di fronte a Dio, ha solo Dio come spettatore. Lucien Goldmann, nelle sue analisi sul pensiero tragico di Pascal e di Racine, ricorda questo brano di lettera di Mère Angelique che va nel senso di Lukács. Dice Mère Angelique scrivendo al fratello Arnauld d'Antilly il 9 gennaio 1623: "Il buon Monsignore di Nantes mi ha insegnato una sentenza di Sant'Agostino che mi arreca grande consolazione: Che è troppo ambizioso colui al quale gli occhi di Dio spettatore non bastano". Brano che può essere commentato con le parole iniziali del testo di Lukács: "il dramma è un gioco; un gioco tra l'uomo e il destino; un gioco dove Dio è spettatore". La tragedia sta nel fatto che in questo esclusivo rapporto con l'eterno e con l'essenziale l'uomo viene sottratto alle cure e alle faccende del mondo; vien fatto ruotare intorno a ciò che è essenziale e non può essere sottratto a questa domanda cruciale: "può ancora vivere colui sul quale si è posato lo sguardo di Dio?". Come dire: chi ha bevuto alla fontana dell'eterno, può ancora bere alle fontane del mondo? E se Dio diventa così altissimus, e l'uomo così solitario, il servo non "rimane a bocca asciutta", e Dio non finisce per essere daltonico, incurante del colore della pelle umana, che tanto scatta quando è nera nelle strade di Harlem e nelle terre del Sud Africa? L'altro tratto della tragicità in sé e nel nostro gabbiano è ancora la solitudine, che sarà soddisfatta in senso psicologico, ma non può esserlo in senso assiologico, di fronte agli altri. Dice ancora Lukács parlando dell'essenza del tragico: "Nude anime dialogano solitarie con nudi destini". Non hanno amici, non entrano in gruppi, hanno solo compagni di viaggio. La socialità va in crisi. La rottura con il normale avvia a una diversità che ha avuto, come per Sade, come per Nietzsche, per esito o la follia o il "gesto eroico" del suicidio (Cioran). Quello che mi fa paura nel gabbiano Jonathan è questa sua solitaria tragicità. Anche per lui vale quello che annota Lukács: "la tragedia ha una sola dimensione: quella dell'altezza". Unidimensionalità (Marcuse) quasi cerebrale che va corretta con l'amore, sia quello di servizio (diacronia) sia quello della partecipazione (coinonia). il cristianesimo pone questa logica del servizio e della partecipazione come momenti inprescindibili o, come si direbbe oggi, caratterizzanti, della conoscenza di Dio, che non è mai un fatto cosmologico, ma sempre morale e si santità (la lezione di Kant). Il taglio elitario, in definitiva borghese, del gabbiano di Richard Bach presenta solo una faccia della luna, un certo perfettismo sdegnoso della morale del "branco", o, per meglio dire, di quella ragione media e comune, che fu il vanto della cultura illuministica, di Rousseau e Kant, il primo quando parla del "cuore" e il secondo quando valorizza l'organo della conoscenza nel campo pratico della morale e della religione. Anche per la stessa ragion pura egli cerca l'accordo con la ragione comune e, per il tema di Dio, il consenso della gente. Va recuperata, pertanto, anche l'altra faccia della luna. La lezione di Bonhoeffer, punta di diamante della resistenza tedesca, impiccato dalla furia nazista dopo una sola notte di sommario processo, nelle ore antelucane del 7 aprile 1945, a qualche giorno dalla fine della guerra, è perentoria su questo punto. Dopo aver detto che astratta è la posizione di un Dio in sé, vede l'"arrovesciamento" di questa astrazione nel tema di Cristo, che è Dio in forma umana, e ne risolve il senso nel tremendo tema dell'esistere-per-gli-altri. Qui sta, per me, il compimento della morale del gabbiano. Nell'esistere per gli altri, prendere su di sé le miserie i limiti i misfatti di tutti: attuare quella logica della sostituzione, che è un nonsenso per la coscienza normale e per la morale naturale e invece sta al centro del paradosso cristiano. Quando scoppiò l'ultimo conflitto, Bonhoeffer nel settembre 1939 era al riparo in America per un corso di perfezionamento; prese subito la prima nave, tornò in Germania, e si inserì in mezzo al suo popolo per viverne insieme la vergogna e la sconfitta. Fu lui a dire: "chi non urla per gli Ebrei, non può cantare il gregoriano". Nel carme La morte di Mosé, bello come un salmo antico, l'ultima strofe dice questa verità nel seguente modo: Tu che punisci
i peccati e perdoni volentieri, Gli occhi del
gabbiano di Richard Bach sono occhi di gatto che vedono nella notte
e traverso le durezze opache; sono occhi desiderabili, dilatano la
coscienza; e possono essere invocati. Ma bastano per vedere quello
che ha visto Tolstoj nei dormitori pubblici della Mosca fine Ottocento
e che ha descritto con l'arte potente che fu sua nel Che fare? Bastano
questi occhi per vedere la perversa litania degli zar come fu vista
da Tolstoj in pagine del suo Cadzi-Muràt e che egli stesso
ha soppresso tanto gli parevano spietate? Bastano questi occhi per
vedere quello che sempre Tolstoj vide dopo un grande ballo in una
notte festosa (Dopo il ballo, 1903): "la cosa che veniva avvicinandosi
era un uomo denudato fino alla cintura, legato ai fucili di due soldati
che lo trascinavano [ ... ]. Torcendosi con tutto il corpo, tonfando
coi piedi tra la neve sciolta, il punito, sotto i colpi che da un
lato e dall'altro gli grandinavano addosso, s'avanzava [ ... ]. A
ogni colpo, il punito, in una specie di stupore, girava, aggrinzato
dal dolore, la faccia verso quel lato, da cui era venuto il colpo:
e, digrignando i denti bianchi, ripeteva sempre una frase, sempre
la stessa. Soltanto quando mi fu vicinissimo, io distinsi quella parole.
Non diceva, ma singhiozzava: "Fratelli, abbiate pietà.
Fratelli, abbiate pietà". Ma i fratelli non avevano pietà:
e quando il gruppo degli avanzanti fu arrivato ormai al mio livello,
potei vedere con che risolutezza il soldato che mi stava di fronte
uscì d'un passo dalla fila, e, facendo fischiare in aria la
verga, di tutta forza picchiò sulla schiena del tartaro [ ...
]. Quando il gruppo ebbe oltrepassato il punto dove io mi trovavo,
m'apparve in un lampo, tra le due file, la schiena del castigato.
Era una cosa totalmente chiazzata, umida, rossa, innaturale, da sembrarmi
impossibile che quello fosse un corpo umano". Se parti alla
ricerca della libertà, impara anzitutto La via della libertà
è anche quella del gabbiano Jonathan. Non avrebbe accettato
le spericolate discese dall'alto fino a superare le barriere del suono,
non avrebbe accettato il duro esilio alle Remote Scogliere, se non
ci fosse stato questo premio della libertà. Libertà
come liberazione dal materialismo crasso dello Stormo. èdetto
dei pensieri di Jonathan: "quando lo sapranno, quando sapranno
delle Nuove Prospettive da me aperte, impazziranno di gioia. D'ora
in poi vivere sarà più vario e interessante. Altro che
far la spola tutto il giorno, altro che la monotonia dei tran-tran
quotidiano sulla scia dei battelli da pesca! Noi avremo una nuova
ragione di vita. Ci solleveremo dalle tenebre dell'ignoranza, ci accorgeremo
di essere creature di grande intelligenza e abilità. Saremo
liberi! Impareremo a volare!". |
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