Nei confronti
della divisa americana corre ormai per il mondo un atteggiamento quasi
millenaristico. Più che una grandezza economica, la moneta
statunitense è considerata da molti una forza della natura,
selvaggio, ingovernabile. Qualcuno la paragona ad un satellite che
ha perduto i contatti con la base e vaga (a suo piacimento) nello
spazio, lungo orbite e traiettorie imprevedibili. Gli appassionati
di questa visione naturalistica partono da un presupposto che da tempo
è moneta corrente - la sfiducia nei confronti della scienza
economica e dei suoi sacerdoti - e trovano non poche giustificazioni
ripercorrendo passo passo la frenetica cavalcata della moneta americana
negli ultimi quattro anni, giungendo infine alla conclusione che tutto
può accadere, che vivendo ormai il dollaro di forza e d'anima
proprie può continuare a crescere fino alla fine dei secoli
o può bruscamente crollare da un giorno all'altro. Visto da
quest'ottica, in altre parole, il mercato finanziario somiglia a un
tavolo di roulette, i suoi operatori non sarebbero altro che impassibili
croupiers, e le leggi della cabala avrebbero messo in disarmo quelle
dell'economia. Ma è proprio questa la verità?
Dopo le impennate del 1985, vien la tentazione di ammettere che il
dollaro è impazzito, sfuggendo di mano ai suoi padroni. Perchè,
è presto detto. Inizialmente, le autorità americane
avevano deciso di "raffreddare" l'impetuosa vitalità
della loro moneta. Dopo avere scoperto che nel 1984 il deficit della
bilancia dei pagamenti con l'estero si era raddoppiato rispetto al
1982 e addirittura triplicato rispetto al 1983, raggiungendo la cifra
record di 123 miliardi di dollari, gli esperti della Casa-Bianca si
erano convinti della necessità di frenare una tendenza che,
proprio per l'alto costo del dollaro, favorisce quanti esportano merci
in America, mettendo invece sempre più nei guai le imprese
statunitensi che operano sia all'interno sia sui mercati internazionali.
Un economista dell'Università di Stanford, Ronald Mc Kinnon,
aveva calcolato ai primi di dicembre 1984 che al cambio con le altre
valute il dollaro era "gonfiato" di un buon 25 per cento;
e aveva così sintetizzato le conseguenze del fenomeno sull'economia
americano: "E' come se imponessimo una tassa del 25% su tutte
le nostre esportazioni, concedendo invece un sussidio del 25% a tutti
i prodotti importati".
Una situazione paradossale, destinata ad alimentare parecchi malumori
verso il potere centrale. E difatti, appena tornati alle colline del
Campidoglio dopo la parentesi elettorale, deputati e senatori americani
sono stati presi d'assedio da postulanti d'ogni tipo e d'ogni valenza.
Protestavano i viticoltori della California, perchè il superdollaro
faceva costare una bottiglia di Bordeaux d'annata meno di una bottiglia
di vino californiano; urlavano con tutte le loro forze i dirigenti
di alcune gloriose industrie pesanti, come la Caterpillar, che si
son viste divorare la loro clientela internazionale dai concorrenti
giapponesi; arrivavano dal Midwest in ebollizione delegazioni di agricoltori
furibondi per aver visto calare in un solo anno le loro esportazioni
del venti per cento. Al gran coro si univano i tessili, i produttori
d'acciaio, quelli di automobili, e altri ancora. S'era arrivati al
punto che quando John Mitchell, presidente della Matorola Inc., aveva
proposto di introdurre una soprattassa del venti per cento su tutte
le importazioni, attorno a lui si erano stretti solidali numerosi
esponenti del grande business, quello che in America fa e disfa presidenti
e carriere politiche.
Figurarsi se i deputati potevano restare insensibili. L'ondata neo-protezionista
veniva rapidamente accolta e riversata immediatamente sulla Casa Bianca,
mettendo in serio imbarazzo il presidente. E Reagan, come poteva conciliare
il fervente libertinaggio del dollaro con l'imposizione di balzelli
doganali? E quali sarebbero state le conseguenze di un'operazione
protezionistica nei rapporti con i vassalli dell'impero? La risposta
della Casa Bianca fu dunque negativa: se qualcosa si deve fare per
alleviare le pene di tante corporazioni - si disse - meglio agire
direttamente sul dollaro, calmierandone l'ascesa.
Fu così che agli inizi del gennaio 1985 al Direttore della
Federal Reserve, Paul Volcker, venne suggerito di abbassare (appena
un poco, s'intende) i tassi d'interesse del denaro, nella speranza
che questa mossa rendesse un tantino meno appetibili i dollari agli
occhi dell'ingordo speculatore straniero. Ma niente da fare! Come
del resto era prevedibile - e forse previsto - si è ripetuto
il fenomeno dell'autunno scorso, quando il dollaro aveva continuato
a galoppare malgrado un brusco calo degli interessi.
Dopo quel primo tentativo, la Casa Bianca aveva invitato il Ministro
del Tesoro, a vendere dollari sui mercati internazionali, per dimostrare
la buona volontà del governo americano sia ai cittadini disastrati
sia ai partners occidentali, la cui irritazione era più che
comprensibile. Appena un pò di suspence... E poi nulla. Il
dollaro non smetteva di arrampicarsi sul collo di tutte le altre monete.
Magia? Ingovernabilità? Un momento: a conti fatti, si è
scoperto che il Tesoro americano aveva venduto soltanto 46 milioni
di dollari, che è come dire pochissimi spiccioli, se si pensa
che sulla sola piazza di New York vengono trattati ogni giorno cambi
per 25 miliardi di dollari.
"La verità", dice il professar Franco Modigliani,
docente al Massachusetts Institute of Technology, "è che
il dollaro sfugge ad ogni controllo soltanto perchè lo si vuole
lasciar sfuggire". In parole povere: le misure adottate dall'Amministrazione
americana per contenere la crescita della divisa nazionale sono solo
un espediente di facciata, che si può definire tranquillamente
una mossa di relazioni pubbliche. Nulla di più.

E allora? Tornando all'ipotesi di quanti considerano le fluttuazioni
della moneta americana come una "variabile impazzita", c'è
da obiettore che anche negli ultimi tempi esse rispondono ad una logica
abbastanza decifrabile con i criteri classici della scienza economica.
Quale logica? Il presidente americano è deciso a portare fino
in fondo il suo build-up militare, almeno per due ragioni. Intanto,
e lo sappiamo, per rafforzare l'immagine dell'America come sentinella
dell'Occidente. "E poi perchè", spiega il professar
Samuel Bowles, dell'Università del Massachusetts, "dopo
tanto parlare di liberismo, Reagan ha introdotto in realtà
una forma di keynesismo militare". Vale a dire che lo Stato si
riempie di debiti per favorire la crescita economica che aveva teorizzato
Keynes. L'unica differenza, rispetto all'insegnamento keynesiano classico,
è che gli investimenti statali sono destinati all'industria
bellica invece che a strade, case popolari o oltre opere di carattere
sociale. In conclusione, il presidente più "monetarista"
della storia americana difende a denti stretti il suo deficit, e non
intende ridurlo neanche di un cent.
Il problema del dollaro è tutto qui. l'ex consigliere economico
della Casa Bianca, il professor Martin Feldstein, lo dice con franchezza:
"L'unico modo per rallentare la corsa del dollaro è ridurre
gradualmente il deficit, abbassando poi i tassi d'interesse".
Senz'altro. Ma la politica dell'Amministrazione è del tutto
all'opposto. "E fino a che il presidente continuerà a
proporre sistemi di difesa sempre più sofisticati, come le
guerre stellari e al laser", dice Robert Hortmans, un economista
che ha lavorato per il Dipartimento di Stato, "il suo messaggio
ai capitali erranti di tutto il mondo sarà chiaro: venite qui,
io ho bisogno di voi e vi pagherò meglio di chiunque altro..".

Questo tipo di richiamo, come si vede, non ha nulla di soprannaturale.
E' un dato economico concreto, come concrete sono le altre circostanze
che hanno favorito anche la più recente impennata del dollaro.
Tanto per cominciare, una crescita dell'economia americana come quella
registrata a fine 1984 continuerà a dare spinte in alto della
divisa. Poi c'è la scarsa appetibilità delle altre monete:
dal marco tedesco che perde appeal ogni giorno, allo yen giapponese,
le cui sorti sembrano legate alla precaria fortuna dei commerci nazionali.
E infine, c'è il continuo calo del prezzo del petrolio. Che
altro occorre? Chi può fermare il dollaro?
Ovviamente, c'è chi prevede il crollo della moneta americana.
I "catastrofisti" appartengono anche loro alla scuola naturalistica
di cui parlavamo. Quella che concede alla valuta statunitense una
suo perfetta autonomia comportamentale, all'insegna della imprevedibilità.
Nessuno fra loro fornisce infatti una spiegazione razionale del motivo
per cui il dollaro dovrebbe crollare, almeno nel breve periodo. le
difficoltà interne, il deficit, i problemi con gli alleati
occidentali, altro ancora: spiegazioni vaghe, alle quali è
fin troppo agevole opporre un semplice ragionamento: chi ha interesse
a far "precipitare" il dollaro?
Esclusi ovviamente i Paesi del blocco socialista, quali economie trarrebbero
vantaggi da un'improvvisa debacle della moneta americana? "In
un'ipotesi del genere", sostiene il professor Modigliani, "nel
resto del mondo i prezzi andrebbero al ribasso, le bilance dei pagamenti
si indebolirebbero, ci sarebbe una ripresa dell'inflazione. Nulla
di drammatico, intendiamoci: con una giusta politica economica si
potrebbe far fronte coraggiosamente anche ad una simile eventualità",
prosegue il docente italiano, che del superdollaro è un avversario
accanito, ma che in ogni caso deve ammettere: "Il massimo del
ribasso configurabile al momento è un venti per cento, vale
a dire la misura della sua sopravvalutazione finanziaria. Fatte salve
eventuali correzioni in eccesso, dovute alla speculazione".
Crollo, calo, ulteriore impennata: gli economisti non sono scienziati
e non sono nemmeno angeli; ciascuno formula le sue previsioni anche
per simpatie o per antipatie politiche. Ci sono eccezioni? Probabilmente.
Tra i forecast, le previsioni più attendibili e più
obiettive, vi è quella della Wharton Econometrics, un istituto
di Filadelfia che pubblica mensilmente le sue analisi. Una delle ultime
prevedeva che nel giro di un paio di settimane il dollaro avrebbe
toccato quota 3,27 nei confronti del marco tedesco e quota 2.000 nei
confronti della lira italiana. Se questa è una buona referenza,
visto che le cose sono andate effettivamente così, ecco cosa
prevedono gli esperti della Wharton: i tassi di interesse verranno
ridotti negli Stati Uniti entro breve tempo, ma ciò non impedirà
ai capitali internazionali di inseguire ancora il dollaro. Quanto
al destino della supermoneta, vento in poppa per i prossimi mesi:
si manterrà ai livelli attuali, con poche oscillazioni in ribasso,
e con qualche oscillazione in più verso l'alto. A partire dalla
seconda metà del 1985, tendenza al ribasso, in parallelo con
una diminuzione della crescita industriale americana. Ma, tutto sommato,
l'anno in corso dovrebbe chiudersi con un 2,9 per cento complessivo
di perdita rispetto alle altre monete.
Nel 1986 il calo dovrebbe aggirarsi attorno al 10,5 per cento. Queste,
le profezie degli economisti. C'è da crederci? Oppure, visti
i risultati del passato, per quanto riguarda la valuta americana conviene
iscriversi alla scuola millenaristica? Chi lo sa! La risposta, invece
che sugli schermi del computer, potremmo trovarla domani nel nostro
portafogli. O nella lista delle nostre spese. O infine, in quella
dei nostri risparmi.