E' difficile ammettere
che, oggi più che mai, tra invasioni di computers e robots,
troppi problemi esistenziali restano ancora irrisolti. Anche la disoccupazione
ci appare solo come una tragica incoerenza. Purtroppo, l'automazione
ha distrutto tutti i precedenti parallelismi, rendendo inutili troppi
uomini. Ma, si sa, non si può fermare il progresso.
Si dice sia l'epoca dei dubbi, dei ripensamenti. E, di fatto, tutti
sembrano aver aperto gli occhi. Ma con che coraggio si parla di presa
di coscienza? Ignorare i problemi, finchè non ne derivano drammatiche
conseguenze, è ancora nel nostro ordine di idee: soltanto quando
la situazione è esasperata nascono le indagini, i dibattiti,
e si cerca di rimediare in qualche modo. è successo anche in
materia di occupazione; solo che, stavolta, il fenomeno si è
rivelato più grave del previsto e le proposte fanno acqua da,
tutte le parti.
In Italia, poi, sembra di essere in un vicolo cieco. Tutte le previsioni
dicono che al problema non c'è rimedio e i dati sono terrorizzanti:
siamo, dopo la Gran Bretagna, il paese a più alto tasso di
disoccupazione (10,4%) dell'Occidente industrializzato; mentre abbiamo
il record assoluto in materia di disoccupazione giovanile (33,2%).
A peggiorare la situazione concorre l'incapacità di inquadrare
nettamente il fenomeno: non c'è niente di preciso e, nel momento
in cui si cerca di indagare a fondo, lo si scopre aggrovigliato in
una fitta rete di dubbi. Innanzitutto, incertezze nascono quando si
cerca di sintetizzare il problema in cifre: infatti, per l'impossibilità
di accertare i dati sul lavoro nero e sugli immigrati clandestini,
esse danno solo un'immagine parziale della nostra realtà occupazionale.
In Italia, si parla di due milioni e mezzo di disoccupati; ma si parla
anche, secondo dati ufficiosi, dell'esistenza di un egual numero di
occupati svolgenti doppio lavoro, di 800 mila immigrati di colore
(clandestini e non), di 500 mila donne occupate nel sommerso... Dati,
questi, che variano da Istituto ad Istituto, provocando contrasti
e contraddizioni.
Un'altra fonte di perplessità riguarda il carattere della disoccupazione
italiana: molti sostengono (e la presenza di tantissimo lavoro nero
e di doppio lavoro dovrebbe esserne la prova) che il fenomeno, in
Italia, non è dovuto alla mancanza di posti di lavoro, ma si
riduce ad una questione di settori e di mobilità. Eppure, questa
affermazione perde credibilità, se si considera che anche l'apparato
del lavoro nero e della doppia occupazione è entrato in crisi.
Inoltre, nonostante si continui ad assimilare il fenomeno a quello
degli altri Paesi industrializzati, mai, in nessuna di queste nazioni,
esso ha assunto un carattere così endemico e permanente come
in Italia: in nessun altro Paese industrializzato si rischia di restare
disoccupati a vita, né si emigra per cercare lavoro.
Purtroppo, in Italia, il fenomeno è più grave di quanto
si voglia far credere: non vi è dubbio che una politica statole
caratterizzata da sperperi ed assistenzialismi sia stata un errore
comune a tutte le nazioni europee: ma, nel nostro Paese, questo sbaglio
si è unito ai seri problemi strutturali esistenti in alcune
aree del Meridione, dando casi un carattere cronico alla disoccupazione
italiana.
L'impegno dei politici è a lunga scadenza: si dice che dovranno
passare almeno dieci anni, prima che la percentuale di disoccupazione
possa raggiungere livelli oscillanti fra il 7% e l'8%. E, in questi
dieci anni, la situazione, soprattutto per i giovani e per il Sud
(dove si concentrerà il 90% delle nuove offerte di lavoro),
è tutt'altro che incoraggiante: attualmente, sono 2 milioni
800 mila i disoccupati espliciti, impliciti od occultati dalla Cassa
Integrazione. Fino al 1994, circa un milione 700 mila persone si aggiungeranno
alla lista di atteso: infatti, si consideri che l'ingresso sul mercato
del lavoro delle leve dei "baby boom" si completerà
solo nel 1991; che l'offerta femminile subirà un inevitabile
aumento e che molti lavoratori saranno espulsi dall'agricoltura e
dall'industria. Completano il quadro gli emigrati che, per le condizioni
non certo migliori degli altri Paesi, saranno presto costretti a ritornare
in Italia. Totale: circa quattro milioni e mezzo di persone in cerca
di lavoro... Una cifra sconcertante!
D'altra parte, solo per riuscire a contenere il tasso di disoccupazione
entro il 7-8%, bisogna creare ogni anno, per dieci anni, ben 250 mila
nuovi posti di lavoro: mèta molto difficile da raggiungere,
se si pensa che la media del decennio 1974-84 non oltrepassa le 110
mila unità.
Anche la speranza che una crescita economica potesse salvare la situazione
è venuta meno: nel 1983 si era creduto che la recessione dell'1,2%
del Prodotto Interno Lordo fosse stata la causa principale della creazione
di un minor numero di posti di lavoro (solo 64 mila unità).
Ma che dire del 1984? Nonostante la nostra economia sia cresciuta
del 3-3,5% (è stata la terza crescita economica del mondo),
sono sorti soltanto 90 mila nuovi posti di lavoro. Quell'antico parallelismo
tra produzione e occupazione viene dunque oggi ad essere definitivamente
infranto.
Si delineano, allora, periodi cupi per tutti; ma per i giovani è
ancora peggio. Purtroppo, se non cambia qualcosa, un'intera generazione
rischia di restare disoccupata a vita: infatti, il 60% dei senza lavoro
è costituito da giovani al di sotto dei 29 anni che non hanno
mai lavorato. I dibattiti si susseguono, nella speranza di aprire
uno spiraglio di luce. Il fatto è che oggi le imprese non hanno
alcuna convenienza ad assumere le forze in cerca di primo impiego:
la differenza di salario tra un giovane senza esperienza e un lavoratore
qualificato è solo del 25%. Che fare? Creare un .salario d'ingresso
per far aumentare quella differenza, oppure dare ai giovani un'adeguata
formazione professionale? Sono queste le possibilità tenute
in maggiore considerazione da politici, sindacati e industriali. E,
mentre la necessità di dare una formazione professionale alle
nuove forze resta ancora qualcosa di teorico, la creazione di un salario
d'ingresso si delinea ormai come una realtà. Meno salario per
i giovani e più lavoro per tutti: è questa la ricetta.
E, visti i tempi che corrono, la prospettiva di guadagnar meno è
sempre più accettabile della disoccupazione. Ma quante forme
di sfruttamento, in aggiunta a quelle già esistenti, verranno
a crearsi? Non dimentichiamo, poi, che su questo principio si basava
anche la legge 285 sull'occupazione giovanile. Eppure si sono visti
i risultati: in due anni di applicazione, essa ha prodotto solo 13
mila assunzioni nel settore privato. ,Questo significa che simili
soluzioni non potranno essere, in nessun caso, efficaci strumenti
nella lotta contro la disoccupazione. Infatti, alla necessità
di creare nuovi sbocchi occupazionali le di slanciare le forze produttive,
non .si può far fronte adottando politiche ,sostanzialmente
redistributive, come quella del salario d'ingresso o della .riduzione
dell'orario di lavoro.


E' lo stato di
inerzia industriale che va innanzitutto guarito. La creazione di nuove
industrie, come fonte prima di occupazione, deve allora rimanere l'obiettivo
principale da raggiungere. Anche perchè non possiamo dimenticare
che, oltre ai giovani, è diventata inutile moltissima mano
d'opera impiegata nelle imprese: sono, infatti, più di 200
mila i lavoratori in Cassa Integrazione a zero ore che non torneranno
più in fabbrica. E il loro numero è destinato ad aumentare:
le vecchie industrie devono rinnovarsi e, per farlo, devono espellere
continuamente mano d'opera, facendo venir meno qualsiasi garanzia
di stabilità occupazionale.
Ma la nostra più grande conquista sarebbe quella di eliminare
le assurde ingiustizie esistenti nel Paese. Purtroppo, in Italia,
si vive e ci si crogiola nelle contraddizioni e nella degradazione
umana: un enorme reticolato prolifera e opera nell'ombra... Tutti
sanno e tutti ignorano: doppi, tripli lavori, attività sommerse,
laureati, giovani non garantiti e stranieri che accettano il "nero"
pur di lavorare. Bisognerebbe spezzare questa catena.
I politici, però, la pensano un po' diversamente. "Il
nostro sistema è troppo rigido" - dicono - "l'unica
speranza è quella di far presa sulla flessibilità e
sull'innovazione, seguendo l'esempio del Giappone e degli Stati Uniti.
Se lì non c'è disoccupazione è perchè
hanno spaccato in due il mercato del lavoro: da una parte i protetti
e i garantiti; dall'altra il resto, remunerato male e impiegato, in
molti casi, in aziende senza sindacati: una specie di "sommerso"
riconosciuto e accettato. D'altra parte, anche il nostro mercato è
spaccato in due: da un lato chi lavora, dall'altro chi è disoccupato
e rischia di restarlo a vita. Una soluzione di certo non migliore
di quella giapponese o americana. E, così come stanno le cose
oggi, sarebbe un'utopia credere che si possano creare 250 mila nuovi
posti di lavoro all'anno come quelli che ci sono ora. Resta inteso
che si farà di tutto per ridurre al minimo sperequazioni e
ingiustizie". Ma com'è pesante quest'ultima promessa...
E' certo che un recupero della flessibilità, in un sistema
rigido come il nostro, sia più che necessario; solo che la
soluzione da dare dovrebbe essere molto più complessa, più
giusta. Tale recupero servirà ad esasperare la situazione,
se non si batteranno prima altri fronti. Infatti, come convincere
i giovani che è più giusto, per loro e per la società,
accontentarsi di un salario di fame e di un lavoro precario?
No, non è questo che si prefiggono politici e sindacati; ma
è questo ciò che si otterrà, perchè viviamo
in una società ancora molto immatura, e di questo dobbiamo
esserne convinti. Se così non fosse, si porrebbe innanzitutto
fine dell'assistenzialismo stile Anni '70: si riformerebbe quel finanziamento
pubblico a favore dei partiti, enormi apparati burocratici che hanno
smarrito, negli sperperi elettorali, il senso della loro azione politica;
ma, soprattutto, si porrebbe in primo piano la questione meridionale,
quale fonte principale di disoccupazione.
Nei dibattiti non se ne parla; eppure è nel Sud che il tasso
dei senza lavoro arriva anche al 19% mentre nel Centro-Nord è
di molto inferiore al 10%. Ciò significa che la disoccupazione,
in particolare quella giovanile, è destinata ad essere sempre
più un problema meridionale; ma soprattutto significa che,
se si vuole affrontare seriamente e risolvere il problema, non si
può più trascurare la necessità di una ristrutturazione
globale del Sud. la svolta da compiere è quella di inserire
i problemi meridionali nella più ampia e complessa lista dei
problemi di politica economica generale. Va, dunque, immediatamente
corretta la logica dei due tempi, che vede, nell'ulteriore rinvio
dell'impegno per il Mezzogiorno, un'azione giustificata dalla più
pressante necessità di curare il disavanzo statale (come se
bisogni e mali del Meridione fossero estranei agli equilibri strutturali
del nostro sistema).
E va corretta anche la visione egoistica con cui il Nord rivendica
al Sud competenze e poteri. Infatti, mentre è indiscutibile
la necessità che l'intervento straordinario trovi ancora attuazione
nel Mezzogiorno, da più parti si levano proteste: tale vincolo
viene considerato una sottrazione di risorse finanziarie alle industrie
del Nord, gravate anch'esse dalla crisi. Non si comprende, cioè,
che, per poter unificare le esigenze di riconversione industriale
del Settentrione con le esigenze di espansione delle basi produttive
meridionali, è indispensabile un aiuto reciproco e un'integrazione
delle due economie. Ma, com'è che si dice?... Non c'è
peggior sordo di chi non vuoi sentire! E inutile negare che lo stato
di arretratezza del Mezzogiorno ha portato molti vantaggi al Settentrione:
da sempre il Nord ha sottratto al Sud materie prime e uomini, e ha
offerto in cambio beni di consumo immediato. Per attuare un'integrazione
delle due economie, invece, sarebbe necessario sia un profondo mutamento
da parte del Nord nella sua offerta di beni al Sud sia una nuova qualità
della domanda meridionale. la svolta da compiere sarebbe, dunque,
quella di offrire al Mezzogiorno beni d'impianto, tecnologie.
Infine, va corretta la logica degli interventi di pura assistenza:
nel Sud, infatti, gli investimenti non riusciranno mai ad avviare
una effettiva crescita dell'accumulazione, se non saranno decentrati
e collegati essenzialmente alle risorse locali. Tramite quegli investimenti,
quindi, si dovrebbe recuperare l'agricoltura, come punto di forza
dello sviluppo meridionale.
Purtroppo, se non si affrontano e risolvono questi punti, la realtà
del Mezzogiorno offre ben poche speranze: nessuna illusione, per il
Sud, sulle capacità miracolose del terziario avanzato. "Le
aree del Nord - dice la Svimez - sono le più favorite nella
prospettiva di sviluppo delle nuove funzioni terziarie, tendendo per
questa via ad accrescere il loro vantaggio rispetto a quelle del Mezzogiorno,
in cui lo sviluppo industriale è più limitato e recente".
Dunque, solo nel Nord, dove c'è già stata una matura
evoluzione industriale, le trasformazioni porteranno effettivi vantaggi.
Il Sud, invece, rischia ancora una volta di restare isolato.
Nonostante la qualità diversa della disoccupazione, anche le
altre nazioni europee vivono il nostro stesso dramma. Come in Italia,
anche nel resto dell'Europa si affronta la crisi economica sperperando
risorse in contributi a fondo perduto, per mantenere in vita imprese
senza futuro e sull'orlo del fallimento. Politica, questa, che ha
sottratto tali risorse alle imprese dinamiche, rendendo più
costoso e difficile il loro processo di sviluppo. Si è giunti,
così, ad un tragico stato di inerzia industriale e di inefficienza.
Inoltre, si è investito poco e male, considerando ancora fondamentali
i settori della chimica e dell'acciaio. Conseguenze: a fine settembre
1984, la CEE contava 12,7 milioni di disoccupati, con aumenti molto
forti soprattutto in Francia, Lussemburgo e Gran Bretagna. le previsioni
sono tristi. Anche se c'è una mobilitazione generale di politici,
esperti, sindacati e industriali, non è facile recuperare anni
di sprechi e di sbagli. L'occupazione resterà ancora paralizzata,
nonostante si prospetti, per i prossimi cinque anni, un aumento del
2% del prodotto interno lordo e un assestamento dell'inflazione sul
5-6%.
E' chiaro che stiamo scontando i nostri errori. E il prezzo è
troppo salato. Potrebbe sembrare una forma di giustizia, nell'ingiustizia,
se a pagare non fossero uomini colpevoli solo d'essere di troppo.
l'importante è capire la lezione. E capire soprattutto che
soluzioni, in teoria giuste ed efficaci, perdono ogni valore una volta
inserite nella nostra struttura sociale. Ma c'è anche un'ultima
cosa da comprendere, più importante di tutto il resto: il mondo
ha tanto, tanto bisogno di realpolitik.