§ L'INEDITO

GENTE IN PIAZZA




Giovanni Bernardini



I giorni di mercato, lunedì e venerdì, c'era lavoro sicuro anche per i vetturali. Ma quanto al resto della settimana si dava il caso frequente di aspettare quattro o cinque ore fuori Porta Rusce per tornarsene da Lecce a brech vuoto, svogliati e lentissimi, quasi si portasse il carico della propria stanchezza. Il cavallo andava da sé. Alle due dopo mezzogiorno, d'aprile, sulla piazza silenziosa, piena di cartacce e di bucce, c'era soltanto l'Umbè, spazzino municipale, sbrindellato magrissimo calvo e bianco di pelle, i denti lunghi e sporgenti.
- Fratello, - gli fece un giorno di quelli neri Salvatore Rista detto Cartuccia - mi sembri la figura della povertà. Eppure, bene o male, scommetto che hai mangiato. Io oggi tiro la cinghia.
- Come Dio vuole - rispose l'altro che era devotissimo e non mancava mai alle funzioni.
- Adesso mi diventi la rassegnazione in persona.
Umberto allargò le braccia e raccattò un mucchietto di torsoli. Cartuccia imboccò l'ingresso di cosa. Accorse Pierino a togliere i guarnimenti al cavallo. Stava appena buttandosi sul saccone, morto d'inutile fatica, che talvolta s'udiva una voce da sotto: - Tore, oh, Tore Ristaaa!
Bisognava fare un carico di bombole pibigas per conto del signor Natale. Il cavallo s'era già strapazzato abbastanza - la vita della bestia contava più della sua -, ma poteva respingere un'occasione piovuta dal cielo, quando nella giornata non aveva buscato neanche una lira?
Ritornava al tramonto. Le strade erano fresche, odorose di fiori d'arancio. Le donne buttavano acqua nelle corti, si ravviavano i capelli, toglievano il grembiule per comparire sulle soglie. I bar e il circolo dei "signori" avevano messo fuori le sedie. La piazza diventava il grande teatro dove ognuno faceva la sua parte e nessuno sfuggiva al controllo. Tutto si veniva a sapere, diventava oggetto di discussione, di pettegolezzo nei crocchi, ci si aggiungeva magari qualche particolare piccante. Gli specialisti in questo genere sedevano sotto la torre dell'orologio: il "covo delle malelingue", secondo la definizione comune.
L'afa del giorno si scioglieva sopra le selci infuocate e voli di rondini saettavano garrendo e intrecciandosi dall'uno all'altro tetto. Poi s'abbreviavano vorticosi, infittivano la loro trama mentre l'ombra lentamente scendeva sul paese. I ragazzi uscivano a frotte, si udivano i loro lunghi richiami da un capo all'altro della strada, irrompevano e si disperdevano a salti veloci. Sono tutti uguali in paese, le loro pene durano poco, la vita li sfiora appena, sembra la possano dominare o dissolvere in un giuoco. Sono crudeli con tutta l'incoscienza dell'età e guai chi capita sotto il loro tiro. Non sarà più risparmiato.
Anche se a prima sera Pippi Bomba aveva tracannato solo pochi bicchieri e le gambe lo reggevano ancora bene, subito si formava il codazzo, partiva il segnale ingiurioso: "Sta cchioe! sta cchioe!" oppure, in lenta insistita cadenza, quasi sillabando: "Te puzzanu li pieti, / te mangi le racoste", parole di cui solo in una lontanissima origine si sarebbe forse potuto trovare il senso preciso ed il nesso, ma che comunque suonavano insulto e facevano di Pippi un energumeno impotente: pugno levato, occhi strabuzzati, un vano tentativo di rincorsa dei suoi grossi piedi sofferenti.
La Nina scema invece andava presa alla largo, perché era capace d'inseguirli fino a Lecce. S'era dimenato il giorno intero da una caso all'altra, tutti la chiamavano per fare provvista d'acqua alla fontana. Si contentava di poco, magari di qualche boccone per sé e pei due bambocci lerci e brutti che si portava appresso e dei quali nessuno sapeva chi fosse il padre. La sottana le copriva sì e no le ginocchia, un filo di perle finte intorno al collo, capelli cortissimi e lisci, due occhi ebeti in un viso da pellerossa. Alta e salda sarebbe stato difficile precisarne l'età, ma doveva essere dai quaranta ai cinquanta. Si contentava di poco, sicché la sera, sotto l'uzzolo del vino e della stagione, qualche uomo saliva alla sua camera. Anche Cartuccia l'aveva avuta, ma chissà quanti anni addietro. Lui, giovanotto di primo pelo, cominciava a fumare qualche mezza sigaretta, non perché gli piacesse ma per darsi un contegno e Nina allora era sana e sbocciava come una rosa di maggio. L'iniziativa l'aveva presa lei dentro al vigneto di don Alfredo Gaia e, dopo la prima volta, gli aveva sussurrato mordendogli l'orecchio: "Sei un omino, ma il tuo uccello lo sai far cantare bene". Ricordava le sue gambe lunghe simili a due colonne e il ventre levigato e tondo come una coppa. Ora, seduto a godersi il fresco, la guardava passare che pareva una cagna randagia, di cui qualche cagnaccio di campagna aveva giù annusato l'odore e la seguiva cauto, a distanza.
Partenza al tocco dopo la mezzanotte quando portava al mercato di Brindisi i calzolai. Per tenersi desto prendeva la tromba, ma di solito faceva appena in tempo a tentare qualche nota che, da dentro al brech, una voce sonnacchiosa protestava: - Serbala per la festa di Sant'Antonio questa suonata !
Sopra il capo un cielo denso di stelle e nelle orecchie lo zoccolìo del cavallo uguale sempre sulla pianura senza nemmeno una "serra" che impegnasse i garretti della bestia e la volontà del conducente.
I paesi si annunziavano con le luci dei distributori di benzina, isole di acciaio e cristallo, dove gli uomini in tuta parevano gente d'un pianeta diverso. Ma fra le case, risonanti al passaggio della vettura, l'oscurità tornava a infittire quasi come in campagna. Al riverbero della lanterna si svolgeva la rapida successione delle porte spalancate oltre le quali intere famiglie dormivano in un'unica stanza. Poi di nuovo la compatta presenza di oliveti e vigneti ed ai margini dei fondi i fichi d'india.
In vista delle elezioni politiche, Feliciano aveva affisso a mo' d'insegna sopra al suo negozietto di generi vari un cartellone raffigurante una enorme sfera con la scritta COCULA. "Il mondo gira carne una palla - spiegava - e girando girando torna necessariamente al punto di prima. Vedete queste? - e mostrava un'incartata di fettine di vitello -. Ora me le passo al burro con un goccio di vino vecchio e sto da padreterno. Se fosse vivo il Benettanima, - aggiungeva alludendo a Mussolini - mangereste tutti carne, ogni giorno della settimana. Ma torneranno quei tempi, ve lo giuro. Cocula! cocula! Non si può andare avanti con questa democrazia del cazzo".
Teneva in testa un gran cappellaccio di paglia e premendo il bastone spaccava la piazza, sdentato e grifagno. Dei giornali sottolineava a matita blu o con una rosa di frecce le notizie che gli facevano comodo e che commentava ai passanti, a voce alta sempre, quasi tenesse piccoli comizi in privato. Molti lo ascoltavano non tanto perché condividessero le sue idee quanto perché era uno spasso sentirlo; se però, ad un risolino, se ne accorgeva, brandiva immediatamente il bastone. Era giunto a rimettersi la bicicletta fra le gambe e a percorrere il paese reggendo un cartello simile all'altro esposto sul negozio. Per un pelo non l'avevano schiaffato in guardina quando aveva avuto la faccia tosta di seguire il Sindaco passo passo gridandogli dietro a pieni polmoni: "Cocula! cocula!".
Il Sindaco si diceva liberale e molto democratico. In realtà era un uomo che stava sulle sue, tronfio come volevano il suo cervello e il suo sangue di cafone arrivato a possedere abbastanza quattrini, un diploma e la massima carica amministrativa. Soddisfatto e di mezza età, a conferirgli imponenza non gli mancava la pancia. Circondato dalle tre guardie comunali - il capo, un giovane dall'aria signorile; Palatini ulivigno e arrogante; Rega alto, massiccio e brav'uomo - il Sindaco, la sera, stazionava davanti al portone del Municipio nell'atteggiamento proprio di chi si ritiene il padrone. Per essere giusti, a considerarsi tale non era il solo. Secoli di feudalesimo lasciano i loro residui fino nei più tardi discendenti dei servi della gleba. Quella sete di libertà fermentante nel cuore degli antichi progenitori produceva l'effetto dell'uva la quale, colta dal tralcio e schiacciata fra lingua e palato, si trasforma in sangue e ti nutre, ma se, fatta vino, la si beve senza misura, avvelena e monta la testa. Diventa volontà di primato, autoesaltazione. Questo in Italia, e specialmente nel Sud, e più ancora in provincia. Casi accadeva che di signorotti simili a tacchini pettoruti sulla piazza ce ne fossero diversi oltre al Sindaco. Anche Feliciano - ognuno a suo modo - era di quelli. Non gli mancavano però le trovate brillanti. E una sera mandò all'aria un comizio antimonarchico.
Chiama in negozio, alla chetichella, uno alla volta una ventina di ragazzetti e gli distribuisce un fischietto di latta ciascuno; dà istruzioni precise; ingiunge di non fiatare. Appena l'oratore aperse bocca, da più angoli della piazza partì una scarica di fischi. E quando quello, dopo la prima sorpresa, tentò di riprendere il discorso, per contagio la fischiata raddoppiò. le guardie mossero alla caccia. Ma chi li trovava o chi li prendeva? Era come inseguire il vento o nuvole nel cielo. La piazza brulicava di ragazzi, ma d'un tratto scomparivano, quasi un turbine li avesse spazzati via tutti. Senonché l'illusione di averli dispersi era appena nato che essi risbucavano d'ogni parte, fischierellavano ironici, si perdevano in un baleno. E non li vedevi più, ma li udivi all'imbocco delle strade secondarie, nel vicolo a fianco alla chiesa o d'improvviso in alto sulle terrazze buie, sui cornicioni e dalla torre campanaria. L'inseguimento doveva ,spostarsi in mille sensi, salire di piani, infilarsi tra la folla. Uno zufolio clamoroso, un tafferuglio indescrivibile complicato dal fatto che i partigiani dell'oratore accusavano gli avversari, questi cadevano dalle nuvole; altri, volendo porre un po' di calma, intorbidavano vieppiù le acque; altri si mettevano a fischiare pure loro.
- Maresciallo, faccia il suo dovere! - protestava l'oratore dal podio. Ma tutti ormai erano ingalluzziti. Cominciato come un fuor d'opera, come un preludio inaspettato al quale avevano assistito perplessi dapprima, poi divertiti od urtati, ognuno alla fine s'era sentito impegnato in quel diavoleto se non altro per lasciar andare uno scappellotto al ragazzino che gli sgattaiolava fra le gambe con il fischietto in bocca.
Di comizio non si parlò più, si parlò invece molto dell'accaduto, ricercandone i possibili responsabili, ché certo dietro ai ragazzi si nascondeva qualcuno.
- Non vi mangiate il cervello, - sentenziavano i perspicaci - questa è opera di Nano.
- I fischietti li vende lui - rincalzava un altro nei gruppi.
Feliciano da parte sua faceva lo gnorri. Anche il maresciallo dei Carabinieri se n'era calato in negozio con l'aria di niente, s'era seduto, così, per far quattro chiacchiere, e intanto gli andava ponendo una domanda dopo l'altra. Certo, ,erano venuti a comprare i fischietti al negozio; ne compravano tanti! Che, l'avevano proibito? Cosa ne dovevano fare? Oh bella, con la penna si scrive; con il fischietto si fischia. Il maresciallo a questo punto l'aveva guardato male. Ma Nano aveva continuato imperterrito: se si erano messi a fischiare in momento inopportuno, che c'entrava lui? Mica ci faceva un contratto coi ragazzi che ad un'ora dovessero fischiare, a un'altra no. Regalare i fischietti?! Sarebbe stato fresco; è vero, mangiava carne quasi tutti i giorni (era il suo vanto principale), ma anche i fischietti sono soldi, chi glielo faceva fare, nessuno dà niente per niente. Qualche monello aveva parlato in famiglia, aveva asserito di aver ricevuto il fischietto gratis da lui: piccole bugie, ne dicono a centinaia i ragazzi per evitare un castigo, per rendere ragione di un oggetto comprato magari coi soldarelli grattati a casa.
Il maresciallo lo sogguardava tamburellandosi le ginocchia e stringendo le labbra e, siccome era barese di Bari vecchia, gli soffiava in faccia con accento spiccato: - Tu porti il pelo dentro.
Feliciano ammiccava. Appariva chiaro che ci teneva alla paternità della trovata che ormai tutti a buon diritto gli attribuivano.
In altro modo un fatto simile si era verificato anni addietro, quando in paese venne per la prima volta a parlare una donna. Era salita su di un tavolo, vicino alla pescheria; accanto al tavolo un uomo reggeva una grande bandiera rossa. E lei aveva cominciato a rivolgersi alle tabacchine, ai braccianti, agli operai. Si sentiva che doveva essere altitaliana; aveva una voce un po' nasale e monotona: pareva dicesse sempre le stesse cose quasi non si preoccupasse affatto di piacere al suo pubblico, bensì volesse fargliele penetrare a tutti dentro le orecchie e il cervello le parole che diceva. Intorno poche persone: dieci, quindici forse. Ma, da punti diversi della piazza, ascoltatori ce n'erano molti di più: alcuni provavano l'impressione di udire parole sante, altri stavano a bocca aperta incuriositi non sapevano se dalla novità dell'oratore o dell'argomento, a qualcuno interessava solo il fatto di vedere là sopra una donna, le "malelingue dell'orologio" si sbizzarrivano in commenti salaci accompagnati da grasse risate, i "signori" non avevano neppure voltato le sedie, erano rimasti come si trovavano cioè quasi tutti di spalle. Poi toccheggiarono le campane, tempellarono, batterono a doppio, a distesa, divenne uno scampanio senza sosta. E per la piazza, su e giù con sventolare di tonache, comparvero i preti: divisi in due gruppi camminavano di buon passo; la loro presenza ammoniva i fedeli che il demonio era uscito allo scoperto e bisognava respingerlo. Intanto proprio a questo scopo si dava di forza nelle campane. Cartuccia non l'aveva dimenticato. Era stato uno dei pochissimi che si erano aggiunti agli altri facendosi più vicini al tavolo affinchè gli fosse ancora possibile udire. la donna per qualche istante aveva interrotto il discorso, quindi - visto che lo scampanio non cessava - lo aveva ripreso.
Saranno stati lì intorno sì e no in venti. Era l'autunno dell'anno 1945.
Da quel giorno Cartuccia, durante certi periodi, evitava la chiesa. Non che fosse un eretico, un miscredente. A Gesù Cristo ci credeva. Appunto perciò non voleva bestemmiare, tanto meno nella casa di Lui. Ma te le tiravano proprio con quelle prediche dal pulpito, con quelle cose che sul Vangelo non stavano scritte. Uno andava a sentir messa e doveva sorbirsi le aggiunte fuori posto. Allora, per non dirne di grosse, che restava da fare? Scapparsene via. Tanto valeva non entrarci neppure.
- Perciò il Signore non ci vuoi bene - si lagnava la Nina, sua moglie.
- Perché? all'Umberto e famiglia gli va meglio?
- Almeno ha il conforto della religione.
- Eh si, quando i figli hanno fame e a casa non tieni nemmeno una frisa, il conforto della religione gli dai a mangiare...
- Ma Gesù Cristo era povero!
- E stava dalla parte dei poveri!
- Lo so. L'ha predicato pure l'arciprete domenica e ha detto che è difficile che i ricchi entrino in paradiso se non aiutano i poveri.
- E tu hai visto mai don Luigi Nestola o don Filippo o donn'Annunziata o tutti quegli altri che ci hanno più viti e olivi piantati in terra che peli sul corpo, venire da te e dirti: "To', ecco un quintale di farina. Impastala pei tuoi figlioli"? I regali li fanno sì ma solo a chi glieli ricambia. E se pure un miracolo del genere avvenisse, cosa risolve? Mangi oggi, mangi domani... e poi ricominci daccapo. Se ti manca il lavoro o l'animale è azzoppato, non puoi chiedere nemmeno la disoccupazione. Possiedi carrozza e cavallo, ti dicono, peggio per te se non camminano. Né tanto meno possono iscriverti all'elenco dei poveri. Che del resto sarebbe un'umiliazione troppo grande. Così non sei né carne né pesce e crepi lo stesso di fame.
- E che c'entra il Signore con tutto questo?
- Non c'entra, non c'entra, d'accordo. Ma un po' di giustizia, dico io.
- C'è pure chi sta peggio di noi.
- Anche questa è una storia di quelle che vanno ripetendo i preti. Possibile che si debba sempre guardare indietro?
- Sai che ti dico? - concludeva la Nina - Mondo è stato e mondo sarà. A ognuno il suo destino. Noi siamo nati per tirare la carretta.
Che fosse la moglie a pronunciare l'ultima parola, a Cartuccia causava un certo disappunto, non per la cosa in sé, ma poiché era convinto di avere ragione e si chiamava minchia in quanto non riusciva a dimostrarla. Borbottando scendeva a governare il cavallo, non lo attirava nemmeno la tromba, s'affacciava a dare un'occhiata fuori. Passava il vecchio Lisandro. Era stato combattente durante la prima guerra mondiale e tutti conoscevano la sua straordinaria avventura: un giorno al fronte i soldati erano tristi, non arrivava posta da casa; lui, buttato contro la parete di terra della trincea, triste al pari degli altri, casi senza pensarci s'era messo a schioccare la lingua e a muover rapidissimo le labbra producendo una sorta di suono, pressappoco "ticchi ... ti ... chiricò" (una sua specialità che nessuno riusciva a imitare) e allora i commilitoni avevano cominciato a ridere e a battere le mani a tempo e l'avevano attorniato e lui in mezzo "ticchi ... ti ... chiricò... ticchi ... ti ... chiricò ... ", quando alle spalle, senza alcun preavviso, era comparso il re coi generali e lui non se n'era accorto e continuava a fare "ticchi... ti...chiricò ... ". Infine, dopo degli altri, era scattato sull'attenti, mano alla visiera, confuso come un cucciolo. E il re aveva voluto che gli spiegasse la cosa e davanti a lui e a tutti i generali ripetesse il verso. Quindi lo aveva esortato: "Bravo Lisandro, tieni allegri questi buoni soldati!". E aveva fatto distribuire due pacchetti di sigarette a testa, ma a lui in più aveva stretto la mano.
Lisandro camminava rasente il muro, le maniche rimboccate e la giacchetta sotto il braccio, i grossi baffi bianchi sul viso adusto e rugoso di vecchio contadino. L'arteriosclerosi gli aveva toccato il cervello sicché i monarchici del paese ne traevano qualche vantaggio propagandistico. Infatti, giunto nel bel mezzo della piazza, fece un giro su se stesso levando alto il berretto e gridò: - Viva il re! viva lu tata nostro che ci da il pane!
Cartuccia non poté trattenersi dal sorridere. Gli sembrava di vederlo questo re nell'atto di prelevare pagnotte da una madia gigantesca per distribuirle alle popolazioni affamate. Un'immagine simile doveva essersi cristallizzata nella testa del vecchio Lisandro.
"Mondo è stato e mondo sarà. Noi siamo nati per tirare la carretta". Ma è una favola inventata dai "signori", - come mai non gli era venuto in mente prima? - da chi ha la pancia piena al fine di tenere buono chi ha la pancia vuota. E Gesù Cristo non c'entrava sul serio. Sono gli uomini quelli i quali fanno e disfanno le cose loro.
Non che Cartuccia una mattina si fosse svegliato con queste conclusioni bell'e pronte come qualcosa di ben levigato e completo in ogni sua parte. Certe idee sono simili ad acque di diversa origine che il suolo assorbe e scorrono sotterranee non si sa per quanto cammino finché, lucide e fresche, arricchite di sostanze minerali, rampollano da una sorgente. La realtà circostante, l'esperienza, un nostro pensiero, un'osservazione, incontrandosi con esperienze, parole e osservazioni altrui, si accumulano in noi e tanto ci rimangono dentro che un giorno ne spremiamo irrefutabile una verità. La quale vuole che, possedendola, la si partecipi. E Cartuccia naturalmente la partecipava, prima che ad altri, alla suo donna: anche per amor di polemica. Ma quella, più cocciuta, trovava l'appiglio per tornare a battere il tasto della chiesa. Se lui si era proprio persuaso che il Signore non ci aveva che vedere, perché non sentire almeno la messa la domenica? Punto e daccapo: a ripetere che erano quelle prediche dall'altare a rivoltargli lo stomaco, che - passate le elezioni e diradatisi quegli argomenti - ci sarebbe tornato alla chiesa, che in ogni modo il Signore lo si poteva pregare dovunque, anche a casa, e chiedergli lavoro per sé, salute e pane pei figlioli e per sé.
La Nina invece ci teneva a farsi vedere in chiesa: non solo a messa, ma anche alle funzioni della sera. Da quando il consigliere provinciale le aveva promesso d'interessarsi per l'Alfio, che aveva un male al ginocchio e non poteva sottoporsi a lavori pesanti. "Ecco, - sospirava la Nina - un figlio E' arriva in età d'essere d'aiuto alla famiglia e il Signore ti castiga mandandoti la malattia". Alfio era sui diciotto, aveva frequentato la scuola media, s'era presa la licenza; ma da quattro anni aveva dovuto lasciare gli studi: da quando, giocando a pallone, un calcio gli aveva causato una sinovite e non se n'era più rimesso. Andare e venire da Lecce in bicicletta, più di quattordici chilometri al giorno, con qualunque tempo e spesso col vento contrario non ce la faceva più per via della gamba malata. Né poteva portarlo ogni giorno suo padre, che spesso doveva battere altre strade, né pagargli l'abbonamento alla corriera che costava duemila lire mensili. Ambizione di mandare i figli alle scuole superiori - per vantarsi che studiavano a Lecce e che domani avrebbe avuto il professionista o il diplomato in casa - Salvatore Rista non ne nutriva. Per loro, semmai: che non menassero quella vita da cane che menava lui. Sebbene, sotto questi chiari di luna, quanti erano i laureati che stavano a reggere i muri della piazza o a scaldare le sedie del bar e del circolo dei "signori"! Comunque l'Alfio mostrava inclinazione, sarebbe stato peccato non assecondarla. Perciò aveva barattato l'unico oggetto di qualche valore esistente in casa, l'orologio da tasca del padre cavamonti che spaccava il secondo, in cambio d'una bicicletta usata e ci aveva dovuto aggiungere, per tre mesi di seguito, una mille lire al mese. Poi era sopravvenuto il guaio del ginocchio e addio: fra medicine e dottore e l'impossibilità di servirsi più della bicicletta, Cartuccia s'era dovuto convincere che mandare il figlio a scuola a Lecce diventava ormai impresa irrealizzabile. Lo vedeva, i primi tempi, trascinarsi da una sedia all'altra, gettandosi a leggere quanto gli capitava sott'occhio, se gli capitava, ché certo non era casa quella da libri e giornali. Gliene doleva il cuore, per il ragazzo. Fortunatamente il buon senso portava Cartuccia ad accettare la realtà non con animo rassegnato, che è posizione di resa, ma con la calma speranza di un rimedio futuro.
Alfio in seguito migliorò, non tuttavia da star proprio bene. Sempre patito e il ginocchio che ogni tanto bisognava estrargli il liquido. Si mise discepolo presso un sarto, maestr'Alfredo Cuppa, che teneva pure Bruno, l'altro fratello. Non li pagava, naturalmente; avrebbero imparato il mestiere dopo una trafila innumerevole di soprammani, di ritreppi, d'imbastiture; se mai, buscavano qualche dieci lire la sera del sabato andando in giro a consegnare i vestiti. Bruno, si capisce, a dodici anni certi pensieri non sfiorano neppure il cervello; ma Alfio, diciotto, gli pesava di mangiare a ufo e anche, in fondo, di avere le saccocce costantemente vuote.
Gli altri figli inclinazione agli studi non ne avevano proprio mostrata. "Chi ha i denti non tiene da masticare - ripeteva Cartuccia alludendo all'Alfio - e chi tiene da masticare gli mancano i denti". Ma visto che di muli non si possono fare cavalli, sempre secondo il suo modo d'esprimersi, li aveva ritirati appena finite le elementari.
Santuzza, diciassettenne, sperava nel prossimo autunno di entrare alla fabbrica del tabacco. Pierino, di quindici anni, pareva voler seguire l'arte del padre: gli piaceva abbeverare e governare il cavallo, condurlo passo passo per la cavezza quando si ritirava affaticato e bisognava gli si asciugasse il sudore prima d'entrar nella stalla che non infreddasse, e qualche volta gli saltava sulla groppa nuda mettendolo al piccolo trotto. Si sentiva una specie di cavaliere del Texas, i ragazzi lo seguivano e lo chiamavano sceriffo. Ma per quelle trottate quanti ceffoni dal padre! Del resto lo aiutava o addirittura lo sostituiva nel lavoro, in caso di malattia. A cassetta gli sembrava d'essere uno di quei gagliardi postiglioni che nelle terre dei pellirosse sanno usare con pari abilità briglie e pistola. Anche nella fatica portava questo spirito d'avventura insieme al condimento della fantasia, che però non pregiudicavano affatto il suo senso della realtà: sapeva esigere con fermezza il pagamento dei trasporti né mollava sui prezzi. Era di braccia forti, piantato su solide gambe e colorito, la testa a palla: squadrato proprio con l'accetta, come si dice. Aveva preso dal nonno materno che a ottant'anni suonati lo si era visto ancora in giro pei campi a fare gli innesti e salire sulla scala a pioli, di quelle più lunghe da potatore.
Silvano, l'ultimo, era ancora un piscialletto per poterne scoprire le tendenze. Ora pensava a saltare in cortile col figliolo della Lola: bisognava vederli, zio e nipote che si levavano a stento due anni, immergersi nudi nella pila d'angolo dove s'abbeverava il cavallo. Alfio stava un po' a guardarli divertito. Ma allorché zoppicando s'avviava alla sartoria lo prendeva il malumore. Da un pezzo aveva cominciato a sfogarsi con la madre: che della sua licenza media non potesse servirsene proprio in nulla? Così lei s'era rivolta al consigliere provinciale col quale esisteva una lontana conoscenza di famiglia. Era tempo di elezioni sicché quello aveva promesso un posto di usciere negli uffici del Comune.
Durante le elezioni ognuno assume le proprie responsabilità o viceversa non ne assume affatto. C'è chi preferisce scaricare il peso sopra gli altri prima ancora d'addossarselo e va come la barchetta di carta portata dal rigagnolo. Del resto si direbbe che la coscienza sia qualcosa d'imprecisabile, di multiforme. Per i don Luigi e le donn'Annunziate la coscienza s'indentifica con la proprietà, inalienabile sacra eterna. Per il consigliere provinciale con il seggio in Parlamento. Per altri con la croce, espressione ambigua e polivalente non potendosi sempre specificare se uno intenda la croce di Cristo o dello scudo o quella piuttosto che si trascina sulle spalle o la croce della scheda elettorale o il segno che la mano malferma e nocchiuta traccia dentro l'ufficio postale alla presenza di due testimoni per riscuotere i quattro soldi dell'invalidità e vecchiaia. Per Lisandro s'identifica con il re "che ci dà la pagnotta". Per molti la coscienza sta sulla lingua degli oratori, che se la giocano da un estremo all'altro dello schieramento politico e la lasciano anche sospesa in aria come una palla che non si può davvero capire dove andrà a rimbalzare. Coscienza, bistecche e benettanima per Feliciano erano tutt'una cosa. E una notte, con l'aiuto del genero padrone d'autobus, disegnò con la vernice nera al centro della piazza una palla perfetta. Che gli potevano fare? E' forse proibito dipingere palle?
- Il mondo gira! - commentavano i maligni - Ma girando girando può anche succedere che il genero torni capraio qual era e la figlia debba rinunciare ai bracciali che ora sfoggia e lui alla carne tutti i giorni.
In periodo elettorale come si assiste ai più strani connubi così gli animi sono tesi, le inimicizie e gli odi stanno sempre Il lì per scoppiare. E si avverte anche il bisogno di prendere una tessera, quasi per darsi radici, per rinsaldare le proprie idee e sventolarle in una con il cartoncino o col distintivo d'un partito. Maestro Gustavo il carpentiere, segretario della sezione comunista, lo veniva invitando da un pezzo Cartuccia che s'iscrivesse. Maestro Gustavo era un uomo pieno d'entusiasmo. Era stato prigioniero in Germania e parlava un dialetto italianizzato e colorito di espressioni tedesche a suo modo, con gli ausiliari buttati alla rinfusa e le parole che gli uscivano tutte direttamente dalla gola: un linguaggio fitto fitto del quale non si sapeva se ridere per come le sbroccolava forte o se commuoversi per il cuore che ci metteva. Ma neanche lui aveva saputo rispondere con precisione a Cartuccia se il partito s'interessava anche dei vetturali.
Fra i socialisti locali era molto popolare Giovanni Paia, un sardo trapiantato quaggiù per aver sposato una contadina del paese. Un uomo in gamba che dirigeva la Camera del Lavoro e sapeva tenere comizi di due ore filate sulla riforma agraria e, all'occorrenza, si caricava una scala, la pentola della colla e andava tappezzando di manifesti tutti i muri. Ma l'avevano trasferito a Taranto. Ora rimaneva qualche insegnante elementare. Discutevano sempre di "struttura" e "sovrastruttura", di "dialettica" e di "materialismo storico". Di tutti quei discorsi una cosa sola riusciva chiara per Cartuccia: che "materialista", in senso politico, non sta affatto a classificare, come insinuavano gli avversari, una specie di porco intento unicamente a riempir la pancia, a starsene in ozio e a far le schifezze con le femmine. In tal caso, a guardarsi intorno, cominciando dagli accusatori, si sarebbe potuto constatare che molti, chi più chi meno, erano materialisti. Quanto al resto, non afferrava gran che di quei discorsi e ne provava soggezione. Per lui la questione si poneva in termini assai più semplici: si trattava di trovare lavoro ogni giorno e avere il pane quotidiano, sufficiente per tutto la famiglia, e non penare se la bestia s'ammalava e avere le medicine e le cure per l'Alfio ed essere sicuro di poter chiudere gli occhi in pace, un giorno, senza dannarsi per quelli che avrebbe lasciati.
Così, con questi problemi che rinascevano ad ogni alba e che spesso lo torturavano durante la notte, dopo otto anni era idealmente rimasto sempre vicino a quel tavolo e a quella bandiera rossa del 1945. Tuttavia, sebbene il tempo fosse venuto confermando sempre più la sua posizione, egli non aveva saputo ancora impugnare quella bandiera per sventolarla pubblicamente. D'altra parte si rendeva conto che, come accadeva per alcuni, colpiti da ricatti e rappresaglie, avrebbe significato anche per lui mettere a rischio quel poco di lavoro che gli capitava. Le sue idee le manifestava a qualche amico e in famiglia e cercava di tirare la moglie dalla sua. La Nina invece credeva nel consigliere provinciale: per l'Alfio, povera donna anche lei - pensava Cartuccia.
I microfoni avevano vociato fino all'ultimo minuto dell'ultima mezzanotte prima della chiusura dei comizi. Se n'erano buttate di parole e promesse in tutti quei giorni! Quando Salvatore entrava nella stalla a riempire di biada la mangiatoia, il maresciallo scioglieva qualche crocchio disperdendo i ritardatari. Sulla piazza deserta si udiva solo il vecchio Lisandro. Dalla mattina presto cominciava a gridare "viva il re" e la sera aveva bisogno di sciacquarsi la gola e schiarirsi la voce arrochita. Col vino delle botteghe: del Piccionne, della Ronza leccese, della Lucia di Copertino. Il vino però, superato il litro, finiva per immalinconirlo e dopo tanto entusiasmo di "viva il re" cambiava solfa e gridava: - Siamo nati, patiamo, soffriamo e poi la pigliamo in culo e moriamo!
Nella notte quel grido rimaneva sospeso a mezz'aria e diventava un chiodo conficcato nel cervello di Salvatore Rista. Che fosse proprio così?
Passate le elezioni giunse la grande estate con un sole simile a un'indomabile macchia gialla incrostata in mezzo al cielo patinato di vapori.
Le donne erano andate alla spiga. Una di esse l'aveva pizzicata la tarantola. Era una vecchia di contrada Spierti, che dopo il morso aveva ballato quasi per quattro giorni di seguito al suono d'un tamburello e d'una chitarra, in camicia, i capelli bianchi disciolti sulle spalle. La porta di casa in tali occasioni, come in quelle liete o luttuose, rimane continuamente aperta. E la gente va e viene per assistere allo spettacolo, ma anche, al bisogno, per dare una mano, come portare da bere ai suonatori e asciugare l'ammalata tutta in sudore.
Poi, dopo il susseguirsi di feste minori, ecco la festa più importante, quella di Sant'Antonio, protettore del paese, la prima domenica d'agosto. La chiude quasi sempre, a tarda notte, il crescendo dei terribili tamburi di Rovel. Sommosse nei visceri da quell'orgiastico ritmo, le ragazze ancheggiano sul selciato come su una pedana da ballo e i giovani tra la folla non sanno tenere più a posto le mani. Ma fra poco - un'ora, un'ora e mezzo al massimo - certo seguendo inconsciamente un remoto rito lustrale, muoveranno tutti alle spiagge dello Ionio o dell'Adriatico, dopo la festa, verso l'acqua che monda e verso nuovi peccati.
Come gli altri vetturali, anche Cartuccia metterà sotto il cavallo e trasporterà a Cesaria la sua canora clientela. Ora si, strada facendo, potrà dar di fiato alla tromba e salutare dal vertice d'un acuto la fresca luce del mattino sul mare.
In ottobre il medico suggerì di far visitare l'Alfio da uno specialista a Lecce. E lo specialista tranquillizzò che mediante una non difficile operazione il ginocchio sarebbe guarito.
Fu deciso dunque per l'operazione, anche se bisognava pagare le spese, che solo in seguito e parzialmente la Cassa-malattia avrebbe rimborsato.
- A costo di firmare cento cambiali o di far qualche corbelleria... - aveva affermato Cartuccia col tono sommesso e inflessibile di chi sente il diritto perfino di rubare per un figlio: che è un figlio.
Alfio col desiderio anticipava il giorno in cui sarebbe stato bene, guarito del tutto, da poter sopportare anche i lavori pesanti. Era svanito del resto il posto in Municipio toccato a un galoppino del consigliere provinciale. Ora quasi se ne rallegrava, anche di non sentirsi vincolato a una gratitudine simile in questo caso al guinzaglio che qualcuno tiene stretto dall'alto, e rassicurava suo padre: - Non preoccuparti. Quando torno a casa, un posto lo trovo, un lavoro qualsiasi che mi frutti la giornata. Pagheremo ogni debito.
La speranza attecchisce presto negli animi sani, pur se deve accompagnarsi con la decisione di sobbarcarsi a nuovi sacrifici oltre quelli abituali. Nello stesso tempo però che se ne veniva profilando la realtà, subentrava la tenaglia del dubbio circa l'atto operatorio: un atto comunque violento sul tavolo dove le cinghie di cuoio avrebbero inchiodato il ragazzo e i bisturi scavato la sua carne. E nasceva la pena di quell'immenso edificio ai margini della città, in fondo al lunghissimo viale di platani, che giorni dopo percorsero a passo d'uomo, Pierino in serpa, Alfio con la gamba adagiata su un sedile del brech, Cartuccia e sua moglie seduti di fronte, che se lo carezzavano con gli occhi quel loro figliolo senza riuscire, per una sorta di scontroso pudore, a passargli una mano fra i capelli...
Lecce, 1955

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