RICORDANDO PAOLO GRASSI




Sergio Zavoli



Misurarsi con Paolo Grassi, lui vivo, era già difficile. Farlo oggi, almeno per me, non e più facile. Talvolta l'ammirazione per coloro che ci hanno lasciato un forte esempio di vita induce a trarre significati e addirittura lezioni da questo o quel gesto, da questa o quella idea. Sono vite che vanno invece capite e amate nella loro pienezza, per il modo in cui sono state compiutamente vissute. Come quella di Paolo, in cui non saprei dunque distinguere questo o quel tratto della sua straordinarietà.
Uomo di "palco e di piazza", così lo aveva stupendamente chiamato Strehler, egli è un archetipo della generazione che ha attraversato tre decenni fra i più tormentati della nostra storia nazionale. l'omaggio popolare alla sua memoria - leggibile, all'indomani della sua morte, sui giornali e negli occhi degli amici, nei discorsi ufficiali e nelle parole della gente - non era soltanto dovuto a un uomo che aveva dato piena e singolare prova di coerenza, di onestà e di impegno; quell'omaggio, grazie a lui, era già un giudizio storico su tutto ciò che egli aveva rappresentato. A proposito di Paolo viene alla mente un verso austero, e forse un po' solenne, di Ungaretti: "La morte si sconta vivendo". Ricordo quando mi rispose al telefono, da una stanza di quella Harley Clinic che doveva incolpevolmente tradire l'ultima delle sue disarmate fiducie, quella nella scienza medica: "Bisogna vivere, Sergio, bisogna vivere". Una vitalità fin troppo spesa, e anche troppo giudicata: ma con l'accento posto sempre, quasi maniacalmente, sul senso del dovere. Guardava al futuro come per garantirsi sul presente. E qui mi intrometterò con un altro ricordo personale, ma solo per testimoniare col massimo di precisione: quando ci scambiammo le consegne, egli sapeva che non gli succedevo per agire "contro", ed io sapevo che quella scelta l'aveva gradita. Era pensoso, ma poi, in un soprassalto di buonumore, mi disse: "Tu sei tra i pochi cui consento di non portare sempre la cravatta perchè non sei uno scamiciato, nè fuori nè dentro". Mi voleva bene e ingrandì il complimento.
La difesa delle forme, di ogni forma, era la stessa delle prerogative e dei princìpi. Fu del resto amministratore e organizzatore col senso dell'ordine e dell'iniziativa, della precisione e della correttezza. Aveva anche un'altra qualità, che oggi appare più rara delle altre: il senso dell'istituzione, al punto di identificarsi in essa senza reticenze. Credeva nel, Paese, nel municipio, nella cosa pubblica; nella comunità, insomma. Non a caso, insieme con Strehler, all'insegna del Piccolo Teatro di Milano costruì e difese l'immagine dello spettacolo collegato alla società, ispirato all'idea di un servizio culturale che la collettività deve poter dare a se stessa. In un'epoca ricca di fermenti e di cose da fare, Paolo riuniva in sè lo slancio animatore di una polemica culturale basata sulla forza delle idee e la capacità di organizzare quelle idee in una struttura produttiva. Personificava, insomma, l'arco intero di una coerenza che andava dal promuovere un'aperta politica culturale fino a farsene costruttore fedele, e puntiglioso; chiuso, quando aveva deciso, ad ogni sorta di compromesso. In questo fu un custode e forse un cultore dell'ostinatezza, sì da apparire talvolta più cocciuto di quanto non servisse, in generale, e certamente non gli giovasse. Il gusto dell'innovazione si univa paradossalmente a quello della continuità, le impazienze e le intolleranze si sposavano con la severità e l'intransigenza. Spingeva l'amore per il teatro oltre ogni limite; come Copeau, Paolo era convinto che "il fuoco della ribalta brucia tutta la vita".
"Hai la tirannia del grande Impresario", gli aveva scritto in una bellissima lettera Giorgio Strehler, ribadendo con quelle parole che in Paolo c'era davvero lo straordinario talento di far coincidere volontà e azione. "Solo partendo da questo dato di fatto - aveva aggiunto - qualcosa della tua vita e di ciò che sei potrà essere capito e visto nella sua giusta luce. Si conoscerà qualcosa di te, soltanto sapendo qualcosa di un grande amore per questo strumento meraviglioso e terribile che è il teatro, di cui tu fai parte, interamente, integralmente, con tutta la tua natura, con tutti gli scatti, le impennate, gli orgogli, gli abbandoni, gli errori, le tenerezze e le collere che sono gli elementi primitivi del temperamento dell'attore, dell'uomo che si brucia lassù, tutto intero, sul palcoscenico illuminato, senza pietà".
Furono anni di grandi invenzioni, di dure fatiche, di roventi polemiche; ma in un quarto di secolo Paolo creò il modello dell'istituzione culturale per l'Italia democratica. Certamente conosceva il potere, ma aveva sempre saputo servirsene ai fini di un progetto che tutto poteva prevedere fuorchè il potere. E men che mai il proprio. Il suo unico, vero, confessato potere era Via Rovello, negli anni del dopoguerra, della guerra fredda, dei rigurgiti reazionari, ma anche degli slanci bellissimi e della crescita civile: lo usava in funzione di una democrazia che non era del tutto riuscita a eliminare vecchi e indomabili vizi, per accelerare quella mutazione della cultura che era la premessa indispensabile perchè mutasse, tutta insieme, la società. Non erano in molti a sacrificare sicurezza e prestigio personale in nome di un concreto progetto collettivo; lo furono uomini come Paolo, colti e liberi, con le loro fedi disincantate, le loro passioni lucide, le loro follie ragionate, le loro certezze rischiose: "nutriti - come scrisse Rossana Rossanda - dall'ambizione sconfinata d'un levar di sipario su un'opera proibita, tenaci come mastini con sè e con gli altri; presuntuosi, poveri, ma anche, in quegli anni oscuri, felici".
Il doppio registro della militanza teatrale e di quella politica era il segno di una coincidenza fortemente vissuta, in un intellettuale come lui, fra ideologia e prassi. "Non credo si possa essere socialisti e offendere i deboli - ha lasciato scritto -; non credo si possa essere socialisti ed essere insensibili ai bisogni del prossimo... Socialismo, per me, è anche essere vicini agli sconfitti, ai vinti, alle persone che sono state qualcosa e adesso non lo sono più; è essere vicini alle gioie e ai dolori di un amico; è essere vicini a chi rimane solo". Socialista, dunque, senza utopie, ma anche senza l'albagia, o l'abbaglio, di una sorta di post-moderno a tutti i costi, con l'animo non voltato indietro, verso i valori estetizzanti e subdoli di una casta miseria contadina, ma neppure votato ai diagrammi del tecnicismo prima di tutto, cioè alle estenuate razionalità e alle conoscenze senza amore. Nemico acerrimo d'ogni assistenzialismo e parassitismo; tutt'altro che catastrofico, ma neanche disposto a gozzovigliare con l'ottimismo; ilare mai, ma neppure severo oltre il lecito, ebbe un rispetto devozionale del lavoro e un senso dello Stato, eredità di quaggiù, che in lui era altrettanto forte del senso della società. Cittadino di Milano nel significato più laico, moderno ed europeo della parola, Paolo si è identificato a tal punto col capoluogo lombardo che ogni altra città - a cominciare da Roma, dove non ebbe mai una propria caso - gli procurava impazienza e insicurezza, cioè disagio. Non a caso, alla sua morte, molti giornali scrissero che un pezzo, un limpido pezzo di Milano se ne era andato con lui: la Milano ordinata e progressista, sperimentale e pragmatica, nella quale aveva attecchito il ramo nordico del suo codice genetico, che gli veniva dalla madre; la Milano sempre in cerca di qualcos'altro da aggiungere al proprio primato, che tuttavia egli aveva vissuto con la fantasia e gli impulsi, ma anche con le tenerezze e gli stralunamenti presi dalla Puglia paterna. Proprio qui, dove noi siamo, era nata la parte, per così dire, più profetica di lui. E non posso aggiungere, per amore di simmetrie, o di tesi, che la più concreta l'imparò altrove. Molti "colpi di teatro", di cui riempì come uno scenario la vita, ebbero una qualche origine in questa civiltà: così altera e prodiga, severa e barocca, marinara e agreste, incline a levante e non chiusa a ponente, con la fresca anzianità dei gesti e delle parole, gli squarci di paese come quinte di palcoscenico, gli alberi cavi dalle membra nodose e i manti argentei, i cieli così lunghi, così bianchi e a volte così infelici, la vecchiaia luttuosa e la gioventù ardente, con tutta questa straordinarietà, insomma, esibita e nascosta; com'era in qualche modo, lontanamente, anche lui, Paolo.
Egli si volse con attaccamento crescente, quasi febbrile, agli amici, alla gente, alle cose di questa terra. E, via via, sempre più ai ricordi. Ciascuno tende a collocare la propria fine nei luoghi pacificanti dell'infanzia, e Martina Franca aveva assunto, per lui, la piccola, pagano sacralità del rifugio. I suoi ritorni erano occasioni per congedarsi ogni volta dalla Puglia propiziando, con una promessa, un altro anno di vita.
"Omnia mea mecum porto", soleva dire, adottando al suo andare e venire il motto della chiocciola. Era un modo di parlare di Martina Franca, di voi.
D'altronde non fece mai mistero di sé, tanto che ha lasciato ovunque indizi e reperti, tracce e allusioni, simboli e prove.
Nello spazio dei suoi uffici, al Piccolo come alla Scala, alla RAI come all'Electa, convissero i suoi segni particolari: l'effige di Maria Teresa d'Austria, il tallero sotto vetro, le foto sbiadite degli ulivi di Fasano, e poi le locandine, i ritratti, i manifesti, i cimeli di una lunga campagna combattuta e vinta, combattuta e lasciata a metà. Con il dono indicibile di far apparire semplici le battaglie, dovute le vittorie, e necessarie, se non addirittura provvide, le sconfitte, Paolo ha rappresentato, dando forma domestica al senso naturale che aveva della storia, ciò che spetta a un intellettuale moderno in un Paese dal cuore antico come il nostro. "Non si può buttar via tutto - confessò una volta -, bisogna avere il gusto di tenere i materiali, di conservare i documenti, di fissare certe cose e far sì che le nuove generazioni sentano i retroterra, quello che si è fatto, quello che si è pensato".
Raramente, in un uomo pubblico del suo rilievo, ho trovato tanta gelosa, educata, quasi elitaria privatezza. Eppure fu un uomo essenzialmente pubblico. Negli anni Cinquanta, quelli dei "miracoli", ebbe il coraggio di provocare le declamate sicurezze e le conclamate speranze denunciando una facilità senza scopo e una felicità senz'anima. Negli anni Sessanta, quelli delle riforme e delle contestazioni, spostò sulla scena internazionale la qualità del prodotto culturale italiano. Negli anni Settanta, quelli che ci hanno obbligato a deporre miti e a sollevare dubbi, continuò altrove le sue battaglie, alla Scala e infine alla Rai, dentro universi assai distanti tra loro, se non proprio opposti. E alla fine in qualche misura sbagliò, credendo di far durare un'impossibile continuità tra delicati laboratori artigiani, con sicure e puntuali forme d'arte, e un opificio culturale di complessità e dimensioni tali da non poter essere altro o molto di più, appunto, di una grande anche se straordinaria industria. Tra la rinuncia e la soggezione scelse comunque, e sempre, la via di tener salda la coscienza pubblica, coerente l'impegno politico, alta la cifra culturale, senza piegarsi a mortificanti obbedienze, respingendo ugualmente demagogia e opportunismi. Diceva Cervantes che "La sconfitta è il trionfo di un'anima ben nata". Ma un professionista della cultura di così rara dignità non fu mai del tutto sconfitto; sconfitta semmai, fu la "logica" che lo aveva fatto morire di "crepacuore", come disse Strehler nella sua orazione funebre: un'invettiva piena di dolore, pronunciato in morte di un uomo tradito dalle sue fedi indifese, dalle sue rischiose certezze. Non avevo ascoltato mai discorso più duro e impietoso e, insieme, più traboccante di saggezza; e raramente le cronache di questi anni recenti hanno registrato analisi più sofferte ed esplicite di quel nodo cruciale in cui si aggroviglia il rapporto tra l'intellettuale e il potere. L'esercizio del dubbio, tanto caro a un estimatore di Galileo, non era un dato da poter essere colto con entusiasmo in anni e da uomini bisognosi di credere. Paolo Grassi non poteva ignorarlo, ma la fatica di una continuo rimessa in causa di se stesso era ormai qualcosa di superiore alle sue forze. Adesso, gli disse StrehIer chiudendo con un elogio e insieme con un rimprovero il suo discorso l'addio, "adesso, Paolo, smetti di stancarti". Oggi sappiamo, e voi più di ogni altro sapete, che anche in quel darsi senza posa, e senza scampo, fu la sua forte, indimenticata, insostituibile presenza.

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