STORIE DELL'ALTRA ITALIA




Tonino Caputo, Gianfranco Langatta



Ha scritto Franco Cardini che quello della storia d'Italia è un destino molto strano: e tanto più strano tutte le volte che si cerca di tracciare i lineamenti di una "storia patria" anche se non necessariamente unitaria. Perchè, se da una parte la formulazione metternichiana d'Italia come pura "espressione geografica" si è ormai da tempo rivelata un grave e tutt'altro che innocente fraintendimento, dall'altra resta vero che è difficile tracciare le linee storiche di uno sviluppo pieno di scarti cronologici, di eccezioni e, in non pochi casi, di contraddizioni.
Italia: si fa presto a dirlo. Ma quali ne sono i "caratteri originali"? Al Nord-Ovest, la penisola - al di là della "barriera" delle Alpi, più netta sulle carte geografiche che non nella realtà: perchè le montagne da certi punti di vista uniscono piuttosto che dividere - sfuma nella Borgogna e nella Provenza; a Nord-Est, nell'Austria, nella Slovenia e nella Croazia. Ad Alghero si parla ancora catalano, la Puglia è straordinariamente vicina (e non solo geograficamente) ai Balconi e alla penisola ellenica; a Trapani si sente il vento dell'Africa e Tunisi è a un tiro di schioppo.
Abbiamo minoranze etniche che parlano francese e tedesco e altre che si esprimono in greco e in albanese: insomma, la penisola è davvero un ponte fra Mitteleuropa, Grecia e Africa. Lo stivale taglia quasi in due il Mediterraneo, e - lo diciamo senza sottintesi geopolitici - alla luce di tutto questo si sfugge difficilmente all'impressione che il suo ruolo fondamentale sia quello della mediazione tra civiltà e culture diverse.
Può darsi che tutto si sia davvero giocato verso il VI secolo prima di Cristo, quando - mentre Nord e Centro d'Italia erano colonizzati da Celti, Italici ed Etruschi - il Sud divenne gradualmente Magna Grecia. Può essere che già fin da allora si sia stabilita quella linea di demarcazione che ha costituito poi un elemento costante nella storia d'Italia e che ha determinato il porsi di un Settentrione e di un Meridione non più come elementi di orientamento geografico, bensì come centri e poli di aggregazione di tutto un divergente sviluppo sociopolitico e socioeconomico.
La storia del Mezzogiorno d'Italia sembra fatta apposta per far saltare i comodi parametri e le non meno comode periodizzazioni (antichità, medio evo, e via dicendo) elaborati dagli storici nel tentativo di ingabbiare il tempo; lì, alcuni fatti che parrebbero legati alla contingenza e destinati a non incidere se non sugli avvenimenti di breve periodo (ad esempio, le invasioni e le conquiste: la longobarda, la normanna, l'arabo-africana in Sicilia e casi di seguito) si rivelano in realtà carichi di implicazioni tali da mutare profondamente il corso della storia. Si pensi ai principati longobardi fondati nel VI secolo e durati grosso modo fino all'XI, ben oltre quindi i limiti del regno longobardo del Centro-Nord: in essi, e nel loro problematico convivere con un potere bizantino mai debellato del tutto nonchè con la sorgente volontà autonomistica delle città marittime (specialmente nella Puglia), si avvia una prima vigorosa sintesi fra tradizioni autoctone, cultura greca ispirata a Costantinopoli e civiltà "barbarica" germanica.
O si pensi, ancora, ai Normanni: questo pugno di guerrieri mercenari capitato in Puglia quasi per caso, sulla via dell'Oriente, e che da lì, nel corso di un paio di secoli (XI e XII, per l'esattezza) hanno saputo costruire la prima realtà unitaria meridionale, fornendo il Mezzogiorno di due nuove istituzioni destinate a segnarne le vicende sino a metà dell'Ottocento: la monarchia unitaria e le istituzioni feudali.
A questa "unità" meridionale, convivente in maniera problematico con le varie istanze centrifughe e con le infinite varianti politiche e culturali locali, si è rivolto Giuseppe Galasso in un profilo sintetico, (il Mezzogiorno nella storia d'Italia), in seconda edizione ampliata (la prima è del 1977), nella collezione "Quaderni di Storia" diretta da Giovanni Spadolini per il fiorentino editore Le Monnier.
Alla storia meridionale Giuseppe Galasso va dedicando da anni il meglio delle sue forze di studioso; e i suoi lavori sono felicemente riusciti a dimostrare, tra l'altro, che le vicende del nostro Mezzogiorno possiedono una loro complessiva logica, un loro sviluppo privo di soluzione di continuità che ne impone una sia pur ardua trattazione unitaria e una visione di lungo periodo. In altri termini, insomma, non è concepibile studiare il Mezzogiorno solo come parte o aspetto di una "Storia d'Italia" che - dal confronto, appunto, al suo preteso "interno", fra un Nord e un Sud - non ne uscirebbe se non drammaticamente dicotomizzata. Non si può ricomporre artificiosamente (magari sulla base di un frusto presupposto patriottico) un'unità che di fatto non è mai esistita, nè mai è stata sentita come tale, prima di un secolo e qualcosa fa. l'innegabile unità storica e culturale del Meridione si misura su un contesto più ampio e articolato, che non è quello italiano, bensì semmai - ed eccoci al punto - quello euromediterraneo.
Sensibile agli sviluppi storiografici degli ultimi decenni, Giuseppe Galasso non rifiuta - ed è ben lungi dal considerare anche semplicisticamente come "superati" - gli indirizzi e le suggestioni derivati dalla grande lezione di Benedetto Croce, così come dal composito mondo del cosiddetto "meridionalista" o da quello di una cultura di radice e di segno marxiano che, variamente atteggiato (si potrebbe dire da Gaetano Salvemini a Rosario Villari), si è appunto confrontata, nello specifico degli studi sul Meridione, con crocianesimi e meridionalismo. Anzi, il confronto - e talora anche il dissenso aperto e robusto - sono elementi costanti di questo saggio, che quindi dedica molte pagine a questioni di carattere metodologico e storiografico, oltre che propriamente storico.
E' tuttavia la trattazione dei grandi temi di fondo a darci gli stimoli più vigorosi: la problematica coesistenza medievale di monarchia, baronaggio e comuni; la costruzione dello "statalismo" meridionale, dai presupposti normanno-svevo-angioini alla sintesi aragonese, fino al già troppo discusso secolare dominio spagnolo, quindi alla sterzata borbonica, all'illuminismo meridionale (senza dubbio uno dei capitoli più affascinanti e convincenti di tutto il libro) e alla vexata quaestio del rapporto fra Mezzogiorno e Risorgimento.
A questo riguardo - e riguardo le responsabilità della politica dei governi unitari italiani nella mancata soluzione dei problemi del Mezzogiorno, quindi nella nascita in tutta la sua drammaticità di una "questione meridionale" - Giuseppe Galasso ha modo di prendere con chiarezza le distanze dalle varie tesi ideologizzanti proposte in passato.
Rinnovamento "garibaldino" del rapporto popolo-Stato, poi vanificato dall'abbraccio fra nuovo governo "piemontese" e ceti dirigenti meridionali? Plausibilità della condanna dell'ordinamento amministrativo accentrato del nuovo Stato unitario, a fronte d'una palese incapacità delle forze politiche locali a proporre (o magari anche a imporre) soluzioni differenti? Pura conquista politica ed economica del Meridione da parte dell'Italia unitaria, e non invece - come propone Rosario Romeo - anche una sia pur lenta "conquista morale"?
E' appunto appoggiandosi soprattutto agli studi del Romeo e del Passerin d'Entrèves che il Galasso ci propone una riconsiderazione della storia del Mezzogiorno lontana "sia dall'apologetica di vecchio stampo che dai recenti cedimenti a tentazioni moralistiche e populistiche". E non è cosa da poco, in giorni in cui il dibattito sui problemi del Sud d'Italia sembra entrato in una fase decisamente calante.

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