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LE "IMITAZIONI DALL'ANTOLOGIA PALATINA"
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LEONARDO SINISGALLI |
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Ottorino
Specchia
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E'
l'ultima opera del Sinisgalli, pubblicata nel 1980 (qualche mese prima
della morte del poeta) con la ben nota, sobria eleganza nelle romane
Edizioni della Cometa di Giuseppe Appella. Gli "imitati" sono
alcuni fra i poeti dell'Antologia Palatina che, in virtù della
loro grazia (ed arguzia) il Sinisgalli con deliziosa immagine paragona
ad una processione di lucciole che mandano bagliori lontani, un po'
spenti ma continui "di pagina in pagina, di luogo in luogo, di
secolo in secolo". Poeti minori, senza dubbio (frammisti anche
ad abili e meno abili verseggiatori); ma il poeta lucano avvertì
sempre il fascino della loro voce lungo l'arco della sua vita. Financo
l'architettura di quel celebre monumento (" ... eterogeneo, spesso
raccogliticcio, come lo sono certe grandi opere murarie ... ")
che è l'Antologia Palatina, sollecitava la sua curiosità
volta a capirne la genesi complesso e difficile. E nelle rapide pagine
introduttive, nitide e sottili, affiora il ricordo delle sue escursioni
nel fascinoso mondo della poesia epigrammatica greca, tutta raccolta
appunto nella Antologia. La scoperta, per esempio, di Nicodemo di Eraclea,
un curioso, virtuosissimo prestigiatore in versi del quale si divertiva
spesso a decifrare i distici "anaciclici", oppure il tentativo
di accostarsi a quell'Eratostene le cui composizioni definite dagli
eruditi "algebriche" o "enigmatiche", contribuivano
a tener desta la fiamma delle sue matematiche passioni. Ma a parte simili
ingenue escursioni nei territori più remoti e talvolta monotoni
dell'Antologia (senza mai avvertire noia alcuna, come pare non accadesse
financo a quel fine ed appassionato lettore della poesia epigrammatica
greco che fu Filippo Maria Pontani!) quel che più colpisce è
la grande simpatia che il Sinisgalli avvertì sempre per questi
poeti, specialmente se suoi conterranei; una simpatia che trova la sua
spiegazione nella fede profonda del poeta lucano alla vecchia società
della sua terra, fiorita anche sul tronco della civiltà di Magna
Grecia.
Frutto dell'ultima fase (risultano indicati financo i precisi termini cronologici: giugno-ottobre 1978) del suo intenso e continuo rapporto con i poeti dell'Antologia, il delizioso album delle "imitazioni" di cui brevemente qui si scrive. Il Sinisgalli non traduce (" ... non potevo ripetere Carducci o Thovez o tantomeno i traduttori di professione ... "); egli ha in mente ed esegue un altro progetto. Lui che "da anni", sono sue parole, "annusava questi petits maîtres, da anni tentava di stare in loro compagnia", alla fine riesce a raggiungere le scaturigini del loro umile canto ed a rigenerare non tanto le loro sillabe, le loro parole, quanto "i loro gesti, i loro tic e ad adeguarli ai suoi in una vera e propria operazione di transfert". Un'operazione portata innanzi sempre con segreta felicità lungo un viaggio suggestivo non privo anche - s'è già detto - di qualche sorprendente scoperta. Quanti autori di epigrammi nati in decine di paesi diversi, vissuti in epoche diverse, sfilano nell'Antologia Palatina e vi coabitano confusamente!. Autentici poeti risultano affiancati a poeti minori, talvolta addirittura a noiosi poetastri. Il Sinisgalli non ignora tutte queste cose e tuttavia durante le sue continue e meditate letture dei loro epigrammi, di tutti, grandi o piccoli che siano, ugualmente si innamora. Uno in modo particolare, dentro l'esteso orizzonte dell'Antologia nei suoi risvolti cemeteriali e votivi, gli canta in cuore: Leonida di Taranto. E non è certamente dovuta al caso la cospicua presenza nella silloge sinisgalliana delle "imitazioni" dal Tarantino, il ben noto poeta degli umili e dei derelitti. Si direbbe anzi che muove proprio da Leonida per poi sempre più allargarsi (da Leonida a Pallada, da Callimaco a Meleagro ... ) la scoperta da parte del Sinisgalli di certo nucleo ideologico che accomuna e lega insieme (quasi fossero tutti conterranei e contemporanei) questi poeti e letterati disseminati nei vari libri dell'Antologia e che affiora specialmente dal profondo degli epigrammi funebri e votivi dove è intensamente avvertita la religione dei morti e la devozione agli dei: i due poli appunto intorno ai quali ruota gran parte delle poesie epigrafiche (cemeteriali e votive) racchiuse nell'Antologia. Di questa poesia il Sinisgalli legge nell'interno dei contenuti ed interpreta, di volta in volta, ciò che gli autori vogliono dire con lo scopo di offrire al lettore una evocazione elegantemente sobria ed asciutta non tanto delle loro parole quanto dei loro più nascosti sentimenti. Un lavoro non facile, ovviamente: è ben noto che talvolta la poesia epigrammatico greca, quella ellenistica in modo particolare, a forza di obbedire a talune rigorosissime convenzioni letterarie (la obbligata, sconcertante brevità del componimento, per esempio) nasconde dentro più di quanto esteriormente non riesca ad esprimere. Ma il Sinisgalli - e qui, a mio parere, sta la qualità più attraente delle sue "imitazioni" - possiede quasi per vocazione nativa la capacità di leggere in trasparenza dentro questa poesia fino a mimarla. E non è da vedere nulla di insolito in questa pur singolare attitudine: il poeta lucano, nel solco della sua più schietta vocazione di artista "più contento di capire che di creare", (G. Pampaloni) si fa interprete dei "fatti" raccontati dai testi ed in assoluta coerenza con quel bisogno della sua anima volta per natura a leggere nelle radici delle sue origini sul filo di una intensa fiducia nella inesauribilità del rapporto fra passato e presente, si sorprende talvolta a cogliere nei piccoli componimenti degli epigrammisti racchiusi nell'Antologia, toni ed accenti affini a quelli della sua stessa anima di poeta. Piace, a questo proposito, segnalare una "imitazione" da un epigramma di Anite di Tegea (intitolato dal Sinisgalli: "Un gioco" e non a caso collocato a chiusura del libretto): "Ti hanno
messo le redini tinte di porpora, Si direbbe che
l'anima remotamente greca del poeta lucano si diverta a riascoltare
nel verso tenue e delicato dell'antica poetessa, un qualche soffio
di voce della sua stessa poesia. SULL'AIA (da
Bacchilide) A DEMETRA (da
Zona) Queste due "imitazioni"
provengono da due epigrammi di autori appartenenti ad epoche ed a
province molto diverse l'una dall'altra. Le differenze fra i due testi
saltano subito all'occhio, specialmente se ci si trasferisce sugli
originali: il primo appartiene ad un artista che con mano sicura disegna,
nel giro di due soli distici, i contorni di un paesaggio rurale niente
affatto convenzionale; il secondo, non privo dei soliti, stucchevoli
riferimenti a Leonida di Taranto (in posizione di risalto a chiusura
dell'epigramma il luogo comune sulla povertà !) si riduce a
non più che ad un buon esercizio di retorica compilato da un
abile artefice di versi. Tuttavia dall'interno dei due epigrammi affiora
lo stesso tema (la devozione agli dei così come in questo caso
viene manifestata da contadini abituati a vivere, in determinati periodi
stagionali, le ansie della maturazione dei frutti della terra) e i
due autori - qualità poetiche o niente affatto poetiche a parte
- appartengono a quella schiera di epigrammisti (privilegiati dal
Sinisgalli) che si fecero interpreti con la loro opera nei suoi aspetti
etici, dei sentimenti e degli affetti delle più diseredate
classi sociali del mondo antico (ellenistico e post-ellenistico). "Un bimbo
di dodici anni, L'autore dell'epigramma - Callimaco - ci tramanda il ricordo del dramma di un infelice uomo che chiude nella tomba, insieme al figlioletto prematuramente perduto, tutti i suoi sogni. Callimaco è poeta grande e l'epigramma reca il sigillo della sua arte immortale. Ma più che l'arte del grande Callimaco, il Sinisgalli nella sua "imitazione" vuole cogliere, nel modo più semplice che può, ciò che passa per l'animo del poeta greco nel momento in cui canta la disperazione di un disgraziato genitore. Raggiunge il suo scopo senza affatto forzare il testo originale, semplicemente creando un accordo più concreto tra linguaggio e situazione. E se si pone a confronto l'epigramma callimacheo con l'"imitazione" del Sinisgalli, vien da chiedere dove siano finite le parole sottilmente selezionate ed ancor più sottilmente disposte dal poeta greco nel giro di un distico soltanto, quale appunto è la misura (canonico misura!) dell'epigramma callimacheo. Rimane intanto, a leggere attentamente l'"imitazione" che dell'epigramma di Callimaco ci dona il Sinisgalli, scolpita nella nostra mente, soltanto la memoria del "fatto" così come fu vissuto un giorno da un essere umano privato del suo bene più prezioso. Ed è esattamente questo, più che ogni altra cosa, che importa al poeta lucano, inseguire cioè - e rigenerare possibilmente, di là da ogni inutile superfluità -, all'interno di taluni temi centrali dell'Antologia, i pensieri che si agitano nell'opera poetica degli epigrammisti greci, autori senza dubbio minori, periferici e tuttavia custodi talvolta di qualche verità profonda sfuggita forse ai fratelli maggiori dell'Ellade classica. |
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