CAFONI IN RIVOLTA




Franco Compasso



Il 1860 è l'anno dell'epopea garibaldina: essa accende le speranze delle plebi meridionali al possesso delle terre. Ed infatti, Garibaldi, che sta sconfiggendo l'armata borbonica, il 2 giugno 1860 con l'editto di Palermo promette la terra ai contadini. L'esercito dei "mille" si ingrossa come un fiume in piena perchè ad esso aderiscono i contadini meridionali che in Garibaldi vedono l'angelo liberatore, il vendicatore degli antichi soprusi ed inganni, venuto nel Sud a liberare i poveri dagli sfruttatori, a distribuire la terra ai contadini.
Gli storici più attenti della "questione meridionale" hanno sempre posto il seguente interrogativo: come fu possibile che un esercito di soli mille uomini potesse compiere l'impresa di arrivare da Quarto a Marsala e ai Ponti della Valle in Maddaloni passando di vittoria in vittoria e conquistando intere regioni meridionali? Le vicende post-unitarie, in particolare la complessa vicenda del brigantaggio meridionale, ci offrono la chiave di lettura del fenomeno garibaldino. Un fenomeno che si sviluppò sulla ambiguità (non solo politica) dell'impresa garibaldina: la parola d'ordine nel 1860 era quella di gridare che i garibaldini erano scesi al Sud per liberare le plebi meridionali.
Ciò spiega la solidarietà del mondo contadino meridionale, l'adesione compatta dei "cafoni" all'esercito garibaldino accolto ovunque come "liberatore". Per i contadini meridionali libertà significava liberazione dagli antichi padroni, possesso della terra, più equa distribuzione dei demani comunali e dei latifondi; mentre per i garibaldini la liberazione era solo un fatto militare: liberare il Sud dai Borboni per ricongiungerlo al Piemonte. I fatti di Bronte, un comune siciliano dove i contadini che reclamavano il possesso della terra furono trucidati dai garibaldini, vanificano l'ardore dei "cafoni" e segnano una netta rivincita dei "galantuomini", passati armi e bagagli dal più servile ossequio alla monarchia borbonica al più interessato sostegno alla causa unitaria.
Quando ci si interroga sulle radici del trasformismo della borghesia meridionale bisogna risalire ai vasti e diffusi fenomeni del gattopardismo che accompagnarono le vicende garibaldine fino all'unità ed il sostanziale inserimento della classe dei "galantuomini" nelle schiere liberali. Ma essi furono liberali come erano stati borbonici: cambiando solo casacca, la borghesia terriera meridionale rimase attenta a servire i propri interessi, pronta ad approfittare di tutte le circostanze per consolidare l'egemonia sociale esercitata per secoli a danno delle plebi meridionali.
In questo contesto storico si inserisce il recente libro di Giuseppe Melchionda ("Cafoni in rivolta") pubblicato da Giuseppe Galzerano, che ci ripropone una rilettura delle imprese garibaldine nel Cilento, la dura lotta dei contadini per il possesso della terra, la forte speranza e la cocente delusione di Nicola Ferrante che con la sua morte intende riscattare le umiliazioni dei suoi compagni e di un mondo contadino che, con i Borboni ed i Savoia, con i legittimisti ed i garibaldini, è rimasto sempre il mondo dei subalterni e degli emarginati.
Questo romanzo storico di Melchionda è uno "spaccato" della società meridionale alla vigilia dell'unità e nelle sue pagine rivive il dramma del mondo contadino, la sua presa di coscienza di una condizione civile non più sopportabile, il breve sogno di una realtà diversa, il pesante inganno del trasformismo, la dura repressione dei borbonici, che nel luglio 1861 fu feroce e non risparmiò nessuno. Una repressione che trovò le sue milizie proprio nei contadini meridionali che poco tempo prima avevano incoraggiato l'epopea garibaldina. Il primo attacco frontale contro lo Stato unitario venne nel Sud appena annesso: come già avvenne nel 1799 e nel 1849 i Borboni si serviranno del brigantaggio meridionale per tornare a Napoli. E Melchionda ci ricorda che "nelle lotte contro il brigantaggio l'esercito italiano subì un numero di vittime superiore ai caduti delle due guerre mondiali". Bisogna altresì ricordare che la repressione contro il brigantaggio fu durissima e feroce: con la legge Pica venivano fucilati tutti i "cafoni" in possesso di una lama, passati per le armi senza alcun processo. Già con "I briganti degli Alburni", Giuseppe Melchionda aveva rievocato le vicende del brigantaggio meridionale nel primo decennio post-unitario: con la legge Pica del 1863, quasi tutte le province dell'ex regno Borbonico furono dichiarate in stato d'assedio e oltre diecimila "briganti" furono passati a ferro! Con "Cafoni in rivolta" si prepara lo scenario che dovrà condurre, dopo il passaggio di Garibaldi nelle terre del Cilento, alla tragedia del brigantaggio; una tragedia che non è nuova, e che oggi rivive - come memoria storica e critica delle antiche ingiustizie e delle profonde lacerazioni sociali - non solo nelle pagine di Melchionda e nel bel libro di Peter Nicolas ("Rosso Cardinale", Editori Riuniti) quanto nelle interessanti mostre organizzate nel Museo del Sannio a Benevento e a Brienza in Basilicata.
Il vero protagonista che dominò dalla prima all'ultima parola la vicenda umana e politica di Nicola Ferrante è il diritto dei "cafoni" alla conquista della terra: "le terre dei galantuomini ci appartengono di diritto. Non sapevo mica - afferma Nicola Ferrante rivolto al suo amico Alfonso dopo l'incontro con i garibaldini - che tanti e tanti anni fa i padri dei nostri padri ne erano i padroni e che poi vennero con le guardie gli antenati dei padroni e se le presero con la forza".
Ora, a rileggere attentamente il succoso e breve romanzo di Giuseppe Melchionda si può ricostruire la storia dei lunghi inganni e dei tradimenti patiti dal Mezzogiorno. E si può trovare nell'incessante battaglia per la terra la spiegazione di ciò che è avvenuto da Bronte a Melissa a Montescaglioso: non per giustificare il brigantaggio, strumentalizzato dalla reazione sanfedistica, ma nemmeno per assolvere una borghesia famelica e uno Stato assente.
La storiografia neoborbonica ed antiunitaria è impegnata nel tentativo di nobilitare il brigantaggio: nessuno dimentichi che nella primavera del 1799 il Cardinale Fabrizio Ruffo, come tutore della "Santa Fede", si incaricava di bruciare gli alberi della libertà e le bande di Ninco Nanco e Crocco, dopo l'unità, infestarono le province scatenando, anche su civili inermi, la durissima repressione dei piemontesi. Il merito di Melchionda è quello di aver narrato una pagina della nostra storia nazionale senza partigianeria nè pregiudizi: in fondo, la ricerca storica è tuttora aperto ed il fenomeno del brigantaggio meridionale è così complesso e contraddittorio da richiedere un paziente, rigoroso ed obiettivo scandaglio storico se si vuole onorare la verità dei "vincitori" ed il rispetto dei "vinti". Ma al di là di ogni manichea visione della storia meridionale, deve essere forte in ognuno di noi la consapevolezza che senza la svolta unitaria il destino del Mezzogiorno sarebbe stato ancora più buio e drammatico.
Bisogna operare, semmai, per colmare le antiche distanze, vincere i profondi squilibri, marciare in avanti sulla strada della crescita civile.

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