§ INCHIESTA

L'IMMAGINE ITALIA




M. C. Milo, A. Foresi



Ancora una volta, l'Italia fa impazzire l'ago della bussola di economisti e sociologi del mondo. Data quasi per spacciata in tempi recenti (quelli del "rischio Italia", quando per un prestito estero dovevamo garantire con il trasferimento di riserve auree), si riprese nel giro di un anno, smentendo tutti i profeti che avevano previsto un'ulteriore caduta a vite. Attraversata da una crisi che sembrava irreversibile, colpita da due shoks petroliferi, con l'industria di trasformazione delle materie prime costretta a pagare di più e a rendere di meno, è riemersa col "sommerso" e col "made in Italy", che hanno conquistato mercati perduti e mercati nuovi, surclassando concorrenze accanite. Tutte le previsioni sono state sconvolte e regolarmente smentite.
Crazy Italy, "pazza Italia", dicono. Incapace, cioé, di darsi rigorose linee di comportamento, invalicabili e immutabili, almeno nel medio periodo. Ma forse proprio questo è il segreto del suo successo: fantasia, flessibilità, spirito di adattamento, estro, creatività, difficilmente si accordano con un progetto. Oppure, più realisticamente, sono essi stessi progetto, magma in continuo trasformazione, in costante evoluzione. Si ritiene che questo sia il destino dei paesi trasformatori, che come unica materia prima sono costretti, in mancanza d'altro, ad usare l'ingegno. In questo senso, c'è una scuola tipicamente nostra, e assai diverso, ad esempio, da quella giapponese, che plagio e miniaturizza, ma non crea. L'immagine dei "cespugli" che per la nostra economia diede De Rita è forse la più pertinente: solo che i "cespugli" devono rinnovarsi senza sosta per sopravvivere, e aggredire sempre nuovi spazi per non estinguersi. Così, la proliferazione spontanea garantisce recuperi che quella programmata non sempre riesce a dare. Allora la "follia" diventa persino genialità, e genera idee vendibili.
Ma qual'è l'immagine che noi abbiamo di noi stessi? Chi riteniamo di essere, e come ci comportiamo? Soprattutto, che cosa ci riserva il nostro futuro? Abbiamo rivolto queste ed altre domande ad alcuni uomini di spicco, giornalisti, economisti, imprenditori pubblici e privati. Quale Italia? E' emerso un paese allo specchio, con contorni precisi, con ipotesi contigue alla realtà, pur nella suo mutevolezza sistematica o orruffona, invisibile o travolgente. E queste facce della nostra realtà proponiamo qui, perchè siano elemento di riflessione e di dibattito. Per sapere chi siamo, ma anche per capire come siamo, in quale direzione ci muoviamo e insieme con chi vogliamo andarci. E con ogni probabilità, la scoperto più interessante è proprio questa: che una filosofia molto pragmatica è al fondo dei nostri comportamenti; che il rischio imprenditoriale non è più esclusivo di una parte del paese; che persino la religione è - oltre che un'esigenza dello spirito - un fatto in sé "produttivistico", più venata di calvinismo di quanto sia dato credere. Come popolo, siamo profondamente cambiati. Non siamo più la gente degli anni '60, ma neanche gli uomini del dopo - '68. Ci attrae come curiosità dialettica la scuola di Francoforte, con I suoi mugugni e con le sue astratte spinte rivoluzionarle: ma abbiamo i piedi radicati per terra, e le nostre rivoluzioni le facciamo quotidianamente, rinnovando la sola cosa che ci è rimasta, e nella quale siamo unici specialisti planetari: il miracolo. Questo è solo "cosa nostra". Allora non c'è proprio da rimpiangere alcun passato: proprio perchè miracolosamente continuiamo ad affrontare il futuro.

QUALE ITALIA

Arrigo Levi

La creazione umana è un processo senza fine; e mai in passato è stata intensa e drammatica come nell'epoca attuale. Ciò è vero per l'Italia come per ogni altro paese del mondo d'oggi. La società italiana non è mai stato più vitale e più creativa, nella sua lunga storia, di quello che è oggi. Questa nazione di costruttori (fin dai tempi più antichi), è, da alcuni decenni, più che mai impegnata a trasformare, con il suo lavoro, il volto stesso del nostro paese. Questo non vuoi dire che noi non proteggiamo i grandi monumenti del passato che abbiamo ereditato. Una società in sviluppo non può diventare un museo: in verità, la speciale bellezza dell'Italia d'oggi nasce da una ineguagliata combinazione del passato col presente, della tradizione con la modernità.
Quest'immagine di un'Italia che cambia è il risultato di un intenso sviluppo economico. La nostra crescita non è stata interrotta dalle crisi economiche mondiali degli ultimi dieci anni. Durante questo periodo la nostra economia ha continuato ad espandersi, in termini geografici; abbiamo aumentato la nostra percentuale del commercio mondiale; abbiamo adottato o inventato nuove attività produttive.
La nostra famosa "economia sommersa" è andato emergendo, gradualmente e in modo impressionante: le piccole imprese familiari, spesso fondate su antiche tradizioni artigiane, sono diventate solide e competitive industrie di media grandezza, e talvolta di grandi dimensioni. In questi anni, essendo sempre alla ricerca di nuovi mercati, abbiamo insegnato agli americani a bere vino, ai tedeschi e agli inglesi a mangiare pasta; la nostra dieta mediterranea è diventata popolare ovunque. Milioni di persone in Europa e in altri continenti usano piastrelle italiane per le loro stanze da bagno, guidano automobili italiane, indossano abiti e scarpe di casa nostra. Siamo pericolosi concorrenti per tutti nel mercato mondiale delle grandi opere pubbliche: stiamo costruendo dighe e strade, acciaierie e impianti chimici, porti e sistemi telefonici dell'America Latina alla Russia, dall'Asia all'Africa. Duemila anni fa, i nostri antenati Romani erano già maestri riconosciuti in alcuni di questi campi: ma sappiamo gareggiare anche nelle attività più "moderne" con i paesi più avanzati del mondo.
E tuttavia, le fondamenta su cui poggia la vitalità della nostra economia sono, per una parte non piccola, antiche. Il nostro senso dello stile e della bellezza è quasi innato, e più forte che mai; le qualità secolari dei nostri artigiani sono state trasferite nell'industria moderna; abbiamo saputo sempre lavorare con le nostre mani, e in questo siamo ancora piuttosto bravi.
Dai tempi di Leonardo e di Galilei siamo ancora tra i pionieri delle nuove tecniche e della ricerca scientifica. Dai tempi di Colombo ci è sempre piaciuto, e ci piace ancora, viaggiare nel mondo alla scoperta di nuove terre; questa passione aiuta a spiegare perchè siamo bravi esportatori e perchè andiamo d'accordo con tutti i popoli del mondo. E abbiamo seguito sentieri originali nella nostra marcia verso l'industrializzazione. Abbiamo evitato di costruire quelle immense e ingovernabili aree metropolitane, che altrove sono così poco vivibili. Ci sono nel nostro paese relativamente poche di quelle regioni ad altissima concentrazione industriale, dove nasce il male del secolo, l'alienazione. Il nostro ideale è una modernizzazione "dal volto umano". Nemmeno è accaduto che lo sviluppo economico abbia sommerso l'Italia in un mare di uniformità. La varietà dei nostri paesaggi regionali rimane tanto grande quanto la varietà dei settori produttivi che si sono sviluppati spontaneamente in aree diverse, ciascuno di essi fondato su tradizioni diverse. Queste qualità rendono la nostra economia resistente e adattabile, in un periodo di crisi mondiali ricorrenti.
Forse questo vuoi dire che tutto va bene nell'Italia d'oggi? Certamente no. E tuttavia, questo antico paese non si è mai sentito casi giovane e casi fiducioso nel suo avvenire. Siamo ben coscienti dei nostri problemi, e talvolta siamo portati a drammatizzarli. Ma siamo anche fiduciosi di poterli affrontare, portando avanti quel lavoro creativo che ha fatto dell'Italia la meta preferita, ogni anno, da milioni di visitatori stranieri.

QUALE ITALIA

Romano Prodi

Lo scenario economico mondiale è caratterizzato con intensità crescente da un vasto processo di integrazione tra i vari sistemi nazionali. Nell'ambito di un andamento generale estremamente difficile e complesso, dove mercati e prodotti non crescono ma mutano continuamente, tale processo rappresenta una delle poche costanti su cui maturerà con certezza il domani della nostra economia.
Non a caso lo stato di salute manifestato dalle due maggiori economie nazionali, Stati Uniti e Giappone, è maturato all'insegna del l'integrazione. Negli USA l'aumento del livello di cooperazione tra le grandi aziende ha facilitato il processo di sfruttamento delle sinergie dei singoli Stati dell'Unione. L'industria giapponese, certo aiutata dalla sua collocazione geografica nell'intraprendere un discorso di apertura internazionale, ha di fatto dato via ad un vasto sottosistema che coinvolge anche numerosi paesi extra-asiatici. Basta pensare che il più classico dei prodotti del Giappone d'oggi, il computer, se escludiamo il progetto ed alcune componenti elettroniche, è il risultato di parti ed assemblaggi realizzati fuori dai confini nipponici.
Di fronte a tali esempi, l'integrazione delle economie europee diventa un fattore determinante per uscire da uno stato di drammatica immobilità, che certo la debole e timorosa ripresa del Vecchio Continente non allontana.
Ma perseguire quest'obiettivo sembra oggi un'impresa ancora molto difficile. Sono soprattutto le differenti matrici storico-culturali a porre un freno costante al processo integrativo, agendo a tutti i livelli. è dunque necessario sfrondare tutte le culture nazionali degli inutili egoismi. Con la convinzione che tali valori avranno la possibilità di tradursi in elementi decisivi per una cultura contemporaneo solo se gli Stati europei sapranno adeguarsi alle esigenze del mercato.
Non a caso negli Stati Uniti si è sperimentato che ad un processo di integrazione economica risponde una rivalutazione delle caratteristiche distintive culturali. Così come ad ogni immissione di nuove tecnologie avanzate fa riscontro una crescita parallela della sensibilità e del livello di adattamento dell'uomo. Altro elemento negativo nei confronti del l'integrazione economica europea è la pretesa, da parte di più di un paese, di rappresentare l'elemento-guida nel progetto di unificazione. In realtà, oggi ogni Stato europeo è abbastanza grande da poter prendere da solo quelle decisioni che gli permettono di sopravvivere, ma non è sufficientemente grande da assumersi la responsabilità di provvedimenti capaci di dare slancio all'intero apparato produttivo europeo. Il mantenimento di tale assetto in realtà impoverisce, giorno dopo giorno, i poteri decisionali dei governi europei. Già oggi, rispetto a molti settori d'intervento, i singoli Stati non decidono più, ma si limitano ad inseguire con affanno Il ritmo vertiginoso dell'innovazione tecnologica
Nell'ambito industriale, tuttora molte importanti aziende guardano alle società concorrenti come ai possibili partners di domani. E la strategia di accordi e cooperazioni che stanno attuando si rivela, giorno dopo giorno, come lo strumento più idoneo per pervenire, in tempi relativamente brevi, all'internazionalizzazione dei sistemi. Questa strada dovrà essere seguita necessariamente anche dall'apparato produttivo italiano.
La sfida che attende la nostra economia e, nello stesso tempo, il modello su cui essa si formerà, sarà costituita da tre fasi interdipendenti fra loro ma parallele nello sviluppo. Sarà necessaria una maggiore integrazione tra un'industria pubblica risanata e l'industria privata. Quest'ultima, nella sua dimensione piccola e media, ha dimostrato, proprio in questi anni difficili, tutta la sua vitalità, assicurando a gran parte del sistema produttivo italiano un passaggio senza traumi eccessivi nella crisi.
Sta oggi agli enti economici a partecipazione statale, come l'Iri, fornire a questo prezioso tessuto tutto quell'insieme di servizi e tecnologie avanzate che ne moltiplichino nel futuro il potenziale commerciale. Tale sforzo dovrà essere coadiuvato da un processo di definitiva integrazione con l'industria europea. Senza svendere il proprio patrimonio di idee e possibilità, in un dialogo capace di porre le nostre società sullo stesso piano di quelle degli altri paesi del Vecchio Continente, dobbiamo saper creare un vero modello europeo. E' una questione di volontà e di intelligenza.
E solo quando le tecnologie sviluppate in Europa risultino insufficienti sarà necessario operare in un terzo scenario, quello più ambizioso del l'integrazione e della cooperazione tra la nostra industria con quella americana e nipponica. Il risultato di questa continuo tensione porterà il nostro paese ad essere investito da un flusso sempre maggiore di nuove tecnologie.
La nostra realtà dovrà adattarsi a situazioni ed occasioni estremamente differenti dalle attuali. Questi mutamenti investiranno anche la pubblica amministrazione. La parola d'ordine oggi è rappresentato dalla deregulation. Credere che tale formula permetto di guarire tutti i mali di una pubblica amministrazione cresciuta a dismisura è illusorio. Ma certo i prossimi anni saranno caratterizzati da un vasto processo di semplificazione e di riduzione di strutture oggi incapaci di agire in uno scenario in rapida evoluzione. L'obiettivo, dunque, rimane quello di contribuire ad uno sviluppo equilibrato e costante, i cui protagonisti siamo sempre più sensibili al rapporto tra le risorse investite e i risultati ottenuti. Mancare tale obiettivo significherebbe impedire ad un qualsiasi paese europeo di poter essere padrone del proprio futuro.

QUALE ITALIA

Luigi Lucchini

Dopo alcuni anni di appannamento, l'industria italiana è tornata ad occupare un ruolo di primo piano sullo scacchiere mondiale. Il mode in Italy si afferma su molti mercati. Il processo di sviluppo è ripreso, sia pure ad un passo troppo lento rispetto alle necessità del paese. Le aziende hanno saputo stare al passo con la nuova rivoluzione tecnologica e in molti casi hanno registrato un vero e proprio salto di efficienza. A livello sociale, sono tramontate le utopie del "tutto e subito" e si sta lentamente affermando un clima più vicino alle esigenze delle imprese.
Il credito dell'Italia sui mercati internazionali è la testimonianza di questo ritorno della fiducia. I tempi del "rischio Italia" appaiono ormai lontani e si sta consolidando la tendenza alla ripresa anche degli investimenti diretti da parte delle imprese internazionali.
Elemento di fondo di questo successo è la scelta compiuta nel dopoguerra di aprirsi agli scambi internazionali. Le grandi potenzialità d'inventiva e le capacità creative caratteristiche tipiche degli italiani sono state esaltate dal confronto col più vasto mercato mondiale. Siamo ancora convinti che solo l'apertura dei mercati può assicurare il massimo dei benefici per i consumatori e per le imprese. Questa regola deve essere rispettata da tutti: non si possono creare continuamente artificiose barriere alla libera circolazione delle merci, dei capitali, degli uomini e delle tecnologie.
Ed è per questo che l'Italia deve battersi in tutte le sedi per perfezionare l'integrazione economica europea e per dettare corrette regole del gioco nella concorrenza tra le grandi aree del mondo. Per poter competere con successo su tutti i mercati, fantasia e capacità di lavoro, da soli, non possono bastare. Per rendere stabile la presenza dei nostri prodotti nel mondo e per ampliarne la gamma, l'industria non può continuare ad operare in solitudine: occorrono sempre maggiori sostegni agli investimenti, ulteriori incentivi alla ricerca e un sistema scolastico in grado di preparare ad un futuro che sarà sempre più affidato all'alta professionalità della gente. La mobilità sociale è poi indispensabile per poter affrontare i grandi cambiamenti che ci stanno di fronte: mestieri nuovi che nascono in sostituzione di mestieri vecchi che non hanno più alcuna validità economica. Gestire questa mobilità senza cadere nella degenerazione assistenziale, ma predisponendo opportuni ammortizzatori sociali: questa è la grande sfida che i governi, specie quelli europei, devono affrontare con coraggio.
L'industria italiana ha le carte in regola per poter chiedere agli altri attori comportamenti coerenti, allo scopo di incrementare lo sviluppo. Il nostro nuovo "Rinascimento" si gioca nei prossimi anni. L'impresa italiano ha scelto con determinazione questa strada.

QUALE ITALIA

Franco Reviglio

Si è parlato a lungo di energia negli anni difficili seguiti agli shock petroliferi dell'ultimo decennio. Se ne discute molto meno oggi, e ciò rischia di creare il convincimento che il problema abbia perso d'importanza o sia divenuto meno urgente: ma non è proprio così.
Alcuni importanti cambiamenti sono intervenuti dopo la "rottura" traumatica del 1973-74, che aveva dato luogo ad una situazione caratterizzata dalla fortissima ascesa dei prezzi del petrolio e dalla paura di una vera e propria carenza nelle disponibilità di tale materia prima. Così, molti sforzi sono stati compiuti per diversificare l'approvvigionamento di energia con il concorso di fonti diverse dal petrolio (carbone, gas naturale, nucleare), e per cercare di ridurre in modo stabile la quantità di energia utilizzato nei processi produttivi e nelle diverse forme di consumo. l'insieme di queste azioni, portate avanti con intensità e determinazione differenti da paese a paese, ha dato risultati apprezzabili. Oggi si impiega una minore quantità di energia per unità di prodotto, si è arrestato il processo di arretramento del carbone e si utilizzano percentuali maggiori di gas naturale, di energia idrogeoelettrica e di energia nucleare. Il tutto, a riduzione del peso del petrolio. Sembra, dunque, che la situazione abbia imboccato un sentiero più sicuro, lontano dalle difficoltà e dai rischi del recente passato.
Ma qualche cautela è necessaria. Intanto, non va sottovalutato il fatto che la forte contrazione dell'attività produttiva che si è avuta fino a qualche tempo fa ha favorito una diminuzione in quantità della domanda di energia e, più in particolare, del petrolio. Ciò ha compromesso, a sua volta, i vantaggi acquisiti in precedenza dai paesi produttori dell'Opec, risolvendosi in una sensibile riduzione dei prezzi del petrolio in dollari e in una limitazione dei loro volumi di produzione, con i gravi problemi finanziari e politici che stanno emergendo. Questo quadro, tuttavia, non è privo di ombre e di rischi ed è d'obbligo, allora, una certa cautela nel guardare al futuro. I paesi importatori di petrolio, e in particolare il nostro, commetterebbero infatti un errore di prospettiva se considerassero risolto il "vincolo" energetico che grava sulle loro economie. Non si può infatti banalizzare la natura stessa degli avvenimenti dell'ultimo decennio, e non si può rallentare la diversificazione verso altre fonti di energia, nè sottovalutare la necessità di proseguire nei processi complessi di trasformazione strutturale - spesso appena iniziati - che possono assicurare un migliore impiego dell'energia. La "previsione" migliore che possiamo fare per il futuro sta dunque nell'impegno per allentare il vincolo complessivo che l'energia pone al nostro paese e a molti dei paesi industrializzati.
In questa prospettiva, un'importante risposta sta nel promuovere una più stretta collaborazione in materia energetica fra i paesi industrializzati e lo sviluppo di un serio dialogo con i paesi produttori di idrocarburi, abbandonando gli approcci unilaterali che in parte sono all'origine delle difficoltà finora riscontrate. Dei resto, l'alternativa al dialogo e ad accordi con i paesi produttori è il perpetuarsi di una situazione di incertezza e di instabilità, di duplicazione degli investimenti, di spreco delle risorse, di possibile accanita concorrenza per la difesa e la conquista dei mercati di consumo.
Bisogna dunque puntare, in concreto, su una logica di cooperazione, che costituisce una scelta ancora più obbligata per l'Italia, per la quale rimane molto forte la dipendenza dalle importazioni di fonti energetiche. Il mercato energetico mondiale richiede di legare ad un orizzonte meno angusto i programmi che il nostro paese deve realizzare per rendere più razionale il suo sistema energetico e diversificarne meglio la composizione. E, questa, una via importante per aiutare la crescita dell'economia italiano e le sue possibilità di competere a livello internazionale.

QUALE ITALIA

Cesare Romiti

Negli ultimi anni '70, quando più acuto si manifestava la crisi del sistema industriale, si diffuso in Italia un dibattito, per certi versi originale, sulla posizione che questo paese avrebbe dovuto occupare nell'economia internazionale. Ci si domandava se per caso non fosse inutile e dannoso continuare a scegliere l'Europa industrializzata come modello di riferimento o non, piuttosto, seguire la "vocazione mediterranea" e porsi su un livello più basso, a leader dei paesi del Terzo Mondo.
Il dibattito non ebbe grande seguito per molte ragioni. La scelta del "livello più basso" apparve improponibile per motivi politici, per motivi storici, ma soprattutto perchè l'Italia era un paese industriale avanzato, che si era conquistata questa posizione con venti anni di sviluppo che avevano indotto la trasformazione economica e sociale più grande e più rapida della storia. Il problema non era quello di scegliere alternative di rinuncia, ma al contrario, quello di evitarle, mettendo in grado l'industria di confrontarsi con la nuova competizione internazionale e il paese di riprendere il cammino dello sviluppo.
Questo problema è stato affrontato dal sistema dell'industria privata italiana fin da prima della grande crisi recessiva degli ultimi anni. E che questo impegno abbia dato i suoi frutti può essere riscontrato dai dati complessivi del 1984: l'industria privato italiana ha incrementato il suo fatturato, ha migliorato i suoi conti economici, ha ridotto il suo indebitamento, ha aumentato le sue esportazioni.
Non basta il miglioramento della congiuntura internazionale a dare conto di questa inversione di tendenza. Esso è soprattutto il risultato di un processo di ristrutturazione e di riorganizzazione, di innovazione del ciclo produttivo e nei prodotti, affrontato con decisione e con coraggio, spesso con duro impegno e con sacrificio. Questo processo ha consentito di ridare nuovo vigore ai settori in cui l'Italia è tradizionalmente forte, i cosiddetti "settori maturi", che teorie superficiali e frettolose avrebbero voluto abbandonare.
L'esempio dell'auto è emblematico, a questo proposito: dopo che molti, anni addietro, ne avevano proclamato la decadenza, oggi l'industria italiano del settore è leader in Europa, per posizione sul mercato, per modernità degli impianti, per qualità dei modelli. Ma quello che può essere detto dell'auto, può essere detto per altri settori e per altre imprese: tutti quei settori e quelle imprese che hanno scelto la via di affrontare attivamente la crisi, piuttosto che subirlo.
Accanto ai settori tradizionali sono cresciuti e si sono sviluppati alcuni settori avanzati in cui l'Italia occupa le prime posizioni sui mercati internazionali, come ad esempio quello dell'automazione e della robotizzazione: l'Italia è il secondo paese europeo dopo la Svezia per la produzione di robot, ed esporta il 30% della sua produzione. C'è quindi una grande quantità di riferimenti per poter dire che il sistema industriale italiano è vivo e vitale, ed è in grado di affrontare la competizione internazionale più difficile e più avanzata.
Questi segni di vitalità del nostro sistema industriale sono ancora più importanti se si tiene conto del contesto del paese in cui si manifestano: una strutturo pubblica arretrata, un sistema dei servizi inaffidabile, una situazione politica perennemente instabile. Cioè: esiste tuttora una differente velocità di sviluppo tra "sistema industriale" e "sistema Paese", che costituisce di per sé una sfida aggiuntiva, per l'industria, alla sfida della concorrenza internazionanale.
E' necessario però mettere in luce che molte cose sono cambiate e stanno cambiando, in Italia, intorno al sistema industriale. in questi ultimi anni si è accresciuta, nell'opinione pubblica e nel mondo del lavoro, la sensibilità verso i problemi dello sviluppo e la consapevolezza delle azioni necessarie per mettere ordine all'interno del nostro sistema economico. E' sorpassato l'atteggiamento ostile all'industria che aveva caratterizzato tutti gli anni '70. Oltre a ciò, sta emergendo una nuova generazione più preparata, più attenta al nuovo, più disposta a impegnarsi per il cambiamento. Da questo punto di vista, la situazione è migliore di quanto possa desumersi dal comportamento degli esponenti politici e sindacali. Si può quindi concludere che, malgrado i gravi problemi ancora aperti, che è urgente risolvere, esistono le capacità e i presupposti perchè il sistema industriale italiano possa continuare a mantenere alte le sue tradizioni di qualità e di prestigio sui mercati del mondo.

QUALE ITALIA

Carlo De Benedetti

L'industria del computer nel mondo affronterà nei prossimi anni un fenomeno analogo a quello già verificatosi per le imprese dell'automobile, che si sono ridotte a meno di venti delle duecento, quante erano negli anni '20.
Negli ultimi sei o sette anni, la tecnologia microelettronica ha abbassato la soglia d'ingresso per i nuovi produttori. Il crollo del rapporto tra prezzo e prestazioni, reso possibile dall'innovazione tecnologica, ha generato mercati di massa prima sconosciuti nell'area dei prodotti informatici. La svolta è stata rapida e non tutta l'offerta - soprattutto la grande offerta - ha saputo adeguarsi prontamente e con i prodotti giusti: questo ha lasciato spazio libero per molti nuovi venuti. Ma allo stesso tempo gli alti costi di ricerca, marketing e automazione di fabbrica hanno alzato la soglia per restare sul mercato. Così i nuovi venuti, dopo avere sfruttato la loro nicchia di domanda, troveranno difficile rimanere stabilmente sul mercato.
Ci sono fattori nuovi che stanno modificando le regole del gioco nella competizione internazionale e che richiedono perciò risposte nuove da parte delle imprese. Nell'analisi dei fattori più significativi del mutamento della competizione internazionale, la prima area da considerare è quella tecnologica.
Il ritmo dell'innovazione microelettronica non è ancora entrato nella fase di decelerazione. I produttori di hardware, da oltre vent'anni a questa parte, si trovano a convivere con una rivoluzione tecnologica permanente. Il numero di componenti elementari miniaturizzati su un medesimo chip, dall'inizio degli anni '60 ad oggi, è sistematicamente raddoppiato ogni anno. In nessun altro settore, nella storia industriale, il progresso tecnologico si è manifestato con tanto continuità. Non siamo di fronte ad un "gradino" tecnologico: siamo di fronte ad una "scala" tecnologica. Questa scala ha determinato le grandi fasi dell'evoluzione informatica: dal grande calcolatore, il cosiddetto mainframe, ai mini e poi ai microcomputers. Possono esistere idee divergenti sul contenuto della prossima fase, ma non sul fatto che dopo i microcomputers la tecnologia renderà possibili nuovi orizzonti per l'offerta e per i mercati. Questo significa che per sopravvivere le imprese di informatica devono destinare quote elevate del proprio fatturato alle spese per ricerca in modo continuativo e devono avere sempre accesso alle tecnologie più innovative.
La tecnologia condiziona in un ulteriore modo la forza competitiva di un'azienda di informatica. La microelettronica ha determinato una convergenza tra informatica e telecomunicazioni, al punto che oggi non sempre è facile stabilire per certi prodotti dove finisce la funzione di trattamento delle informazioni e dove inizio quella di trasporto delle informazioni. In Europa, le sollecitazioni del mercato in questa direzione sono ritardate dalla gestione frammentaria delle telecomunicazioni, generalmente basata sul principio del monopolio nazionale assai più che su quello del mercato aperto. Invece di poche forti aziende europee, abbiamo una trentina di deboli aziende nazionali. In ogni caso, i pochi sopravvissuti al processo di concentrazione dell'offerta, che avrà luogo anche in Europa, avranno come denominatore comune una forte competenza tecnologica sia nell'informatica sia nelle telecomunicazioni. Sono molti gli accordi di collaborazione conclusi negli ultimi due o tre anni tra aziende provenienti da questi due settori: ma ancora di più saranno gli accordi che si concluderanno nei prossimi anni.
Una seconda area di fattori che cambiano lo scenario competitivo è quella del mercato e dei marketing dei prodotti. L'evoluzione verso i prodotti di massa ha modificato radicalmente le condizioni della competizione. La scelta dei canali di distribuzione ha acquisito un ruolo decisivo, così come la capacità di assistenza tecnica: il parco di calcolatori installati nel mondo - e quindi di calcolatori che devono essere assistiti - era di poco più di 100 mila a fine degli anni '60, di 2,5 milioni a fine degli anni '70, e oggi (limitandoci a considerare mainframes, mini e personal computers professionali) si sta avviando a toccare i 15 milioni.
La storia recente delle imprese europee è ricca di episodi - di successo e di fallimento - nella ricerca di soluzioni adeguate al problema della distribuzione. Finora molti movimenti sono stati fatti casualmente e in direzioni diverse: ma le tendenze vincenti cominciano ad emergere. Si può essere certi che i sopravvissuti avranno una forte base commerciale, con un approccio dinamico e innovativo alla vendita, orientato alla soluzione dei problemi dell'utente. La parte più interessante del mercato è infatti costituita da acquirenti che non richiedono l'installazione di singoli prodotti, ma che vogliono risolvere un problema di automazione del lavoro attraverso l'introduzione di pezzi adeguati di hardware e software.
La quarta grande fase nella storia del mercato dell'informatica - dopo quella dei mainframes, dei mini e del micro - sarà quella delle stazioni di lavoro multifunzionali che esaltano la capacità di vendere un servizio, più che un prodotto, perchè sono destinate a soddisfare un'esigenza articolata e complessa del cliente, qual'è l'automazione degli uffici. Questi prodotti, inoltre, per le tecnologie che contengono e le standardizzazioni che richiedono, rafforzano la tendenza all'internazionalizzazione, presupposto indispensabile della capacità di competizione. Le economie di scala sono ora più di prima un fattore decisivo per abbassare i costi di produzione e per ripartire in modo migliore gli alti costi della ricerca. Nascono in questo modo nuovi schieramenti, nuove alleanze tra imprese che si scontrano sul mercato mondiale con una gamma completa di prodotto.
La terza area di fattori che cambiano le regole del gioco della competizione, con particolare riguardo all'Europa, è quella delle politiche industriali. Nel passato, i governi europei hanno generalmente optato a favore della creazione di imprese di bandiera nel settore dell'informatica o delle telecomunicazioni, utilizzando strumenti diversi: sussidi finanziari e creditizi, agevolazioni alla ricerca concentrate sull'azienda prescelta, commesse pubbliche riservate. I risultati sono stati negativi, perchè la strategia delle imprese di bandiera si è scontrata con la forte esigenza di internazionalizzazione che caratterizza l'industria e il mercato del l'informatica: un'industria e un mercato che sono proiettati verso il libero scambio e la libera concorrenza.
Errori e ritardi delle politiche industriali nazionali hanno non poca parte nello spiegare i risultati deludenti dell'industria europea del computer nel suo complesso. Ma da qualche tempo è in atto una svolta. Deregolamentazione e internalizzazione sono principi che trovano uno spazio crescente, dalla Gran Bretagna all'Italia, dal settore dell'informatica a quello delle telecomunicazioni. E' un'evoluzione da seguire con grande attenzione. Nei prossimi anni non mancheranno episodi traumatici, ma certamente ci sarà più chiarezza, e soprattutto si creerà maggior spazio per quelle poche imprese europee che meritano di restare.

QUALE ITALIA

Piero Ottone

Che l'Italia stia a galla, ormai, è chiaro a tutti. Le industrie producono ed esportano. Il tenore di vita si regge a un livello soddisfacente, e chi viaggia attraverso le città italiane ha l'impressione di trovarsi in un paese prospero: ristoranti affollati, strade piene di traffico, esodo verso il mare o la montagna nei week-ends. Le vetrine dei negozi sono eleganti, talvolta opulente. La lira subisce un'inflazione superiore alla media europea, e il tasso inflazionistico è considerato un fatto tecnico col quale è possibile convivere: basta prendere i necessari provvedimenti. I discorsi sulla crisi suprema, sulla disintegrazione, sul crollo del paese, ormai, non si fanno più. Ancora una volta, la nazione italiana ha dato prova di vitalità.
Il problema è un altro: si tratta di capire in quale posizione l'Italia sia destinata a collocarsi, di qui alla fine del secolo, fra le nazioni industriali dell'Occidente. E non alludo, ovviamente, a un semplice problema di classifica. Importa poco che l'Italia sia al quinto, al settimo o al decimo posto. Quel che importa è la qualità della sua economia e, in ultima analisi, del suo modo di vita. Sarà uno dei paesi avanzati, presente nei settori di nuova tecnologia, capace di mantenere una sua autonomia e una sua creatività? O scivolerà fra le nazioni di seconda serie, destinate a luccicare di luce riflessa, quindi a diventare semplici appendici del nucleo di avanguardia? Possiamo porre la stessa domanda in termini tecnici: quale sarà il valore aggiunto delle sue esportazioni? O possiamo porla in termini giornalistici: sarà l'Italia in concorrenza con l'Olanda o con l'Inghilterra nell'informatica, o con i paesi del Terzo Mondo nei tessili o negli elettrodomestici?
Alcuni fattori positivi inducono all'ottimismo. Il primo fattore è la capacità inventiva. Mi rendo conto che questo è ormai un luogo comune, perchè quando si parla degli italiani si cita sempre, carne loro virtù congenito, la capacità inventiva o l'iniziativa individuale: però è vero. Dopo la guerra vi era stata la nascita improvvisa di imprese piccole e medie, in tante diverse ragioni, per produrre macchine utensili e frigoriferi, rotative e caffettiere. Adesso si assiste a una nuova proliferazione di attività più moderne. Gli italiani mantengono spirito imprenditoriale e senso di avventura. Anche chi dava per scontata l'iniziativa individuale manifestava perplessità, negli anni scorsi, a proposito delle grandi imprese. Si temeva che fossero destinate a decadere e si diceva, giustamente, che l'economia nazionale di un grande paese non può essere solida se il tessuto delle imprese minori non è sostenuto da alcuni grandi gruppi. Nel frattempo, mentre si esprimevano questi timori, le grandi imprese provvedevano silenziosamentre ad accrescere la produttività e a ridiventare competitive sul piano internazionale. Fiat, Olivetti, Pirelli hanno riconquistato posizioni sui mercati internazionali, raccolgono capitali in Italia e all'estero, decidono massicci investimenti.
All'origine di questi fenomeni è, evidentemente, uno stato d'animo aggressivo, che non accetta la sconfitta. L'Italia è un paese giovane, che vuole costruire per l'avvenire, e preferisce la lotta alla vita comoda. Questo è vero sia per quegli operai che si industriano in mille modi anche nelle ore libere sia per quegli imprenditori che affrontano tutte le difficoltà dei pionieri per dar vita a nuove attività.
A questi fattori positivi si contrappongono alcuni ritardi organizzativi. Mi rendo conto che ritardi analoghi si osservano ovunque in Occidente, persino nei paesi più moderni e dinamici. L'adeguamento delle istituzioni alla nuova situazione è compito della classe politica, cioè dei partiti.
Prevarranno i fattori positivi o quelli negativi? Non è il caso di fare previsioni, anche perché in faccende del genere le previsioni sono totalmente arbitrarie. E' preferibile che ciascuno lavori al meglio delle sue possibilità e pensi ad assolvere bene il proprio compito. Il che, per fortuna, in molti casi sta accadendo. Poi si vedrà.

 


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