§ INCHIESTA

L'IMMAGINE SUD




Rossana Livolsi, Flavio Borsi



Esiste una questione meridionale per l'economia italiana alle soglie del terzo millennio? li Governatore della Banca d'Italia non ha dubbi: sì. Nelle sue considerazioni finali, ha riepilogato con chiarezza quali sono, oggi, i termini del problema. Rispetto a trent'anni fa, il Mezzogiorno ha compiuto un enorme salto di qualità, ma il processo che lo ha portato a triplicare il prodotto pro-capite e a ridurre progressivamente il divario con il Centro-Nord si è interrotto nel 1973. Per questo motivo, nel prossimi dieci anni le regioni del Sud saranno le prime vittime di quella miscela esplosiva (aumento dell'offerta di lavoro per effetto di recente baby-boom e contrazione della domanda indotto dall'innovazione tecnologica) che in tutto il paese tenderà ad accrescere la disoccupazione giovanile.
Da queste stesse premesse muove uno studio recentemente realizzato dalla Svimez che esamina le tendenze dell'occupazione al Sud e chiarisce le caratteristiche specifiche che il problema della disoccupazione assume nelle singole regioni. Nel Sud d'Italia oggi è concentrato il 40% dei senza-lavoro: un milione e 700 mila persone, per metà tra i 14 e i 29 anni. Nel Nord il tasso di disoccupazione è intorno al 10%. Sulla base di queste cifre, i ricercatori della Svimez hanno realizzato una stima del numero dei lavoratori in cerco di occupazione al Sud di qui al 1994. Il risultato della simulazione non lascia spazio all'ottimismo: si tratto di 2,3 milioni di unità, pari al 57% dell'offerta aggiuntiva di lavoro in tutto il paese. Oltre al fattore demografico, l'aumento è spiegato da una richiesta sempre più marcato di partecipazione al mercato del lavoro da parte delle donne e dalla tendenza a un'ulteriore diminuzione dell'occupazione nel settore agricolo.
Ma se queste sono le tendenze spontanee dell'offerta di lavoro, quale dev'essere il numero di nuovi posti da creare nel Sud? La Svimez ritiene che si possa definire di pieno impiego una situazione caratterizzato da un tasso di disoccupazione del 5% (livello di disoccupazione "frizionale"). Ciò significa che, per ottenere Il pieno impiego nel Sud, sarebbe necessario creare nell'arco di nove anni circa un milione e 800 mila nuovi posti di lavoro, pari ci due terzi della nuova occupazione che occorrerebbe creare a livello nazionale.
Secondo la ricerca Svimez, un traguardo intermedio perseguibile in un orizzonte temporale più breve potrebbe essere quello di riportare il tassi di disoccupazione meridionale dall'attuale 15% all'11%. Ma anche per realizzare questo obiettivo, la domanda di lavoro aggiuntiva dovrebbe aggirarsi sulle 200 mila unità ogni anno. E questa cifra, secondo la Svimez, evidenzia la necessità dell'intervento straordinario nel Sud.
Infatti, nemmeno una lunga e sostenuta fase di ripresa potrebbe riuscire a metter su nei prossimi anni una domanda di lavoro così elevata. Le ipotesi più ottimistiche sulla congiuntura fanno comunque ritenere che prima di creare nuovi posti di lavoro, la ripresa comporterò una fase di aumento del prodotto senza aumento dell'occupazione. L'intervento dello Stato, dunque, deve creare infrastrutture ed economie esterne tali, da permettere una ripresa nel lungo periodo dell'industrializzazione.
Ma in quali zone va concentrata l'azione dello Stato? L'analisi dei vari indicatori dei malessere mette in evidenza una situazione estremamente differenziato. Si va da una regione come l'Abruzzo, che raccoglie solo il 4,9% del totale dei disoccupati meridionali ed è riuscita a ridurre il divario di prodotto procapite con il resto del paese al 28,7%, fino a una regione come la Calabria, che oltre alla forte incidenza della disoccupazione lamenta il più forte gap di sviluppo con il resto del paese (43,2%).
In posizione intermedia si colloca la Puglia, dove l'incertezza delle prospettive è dovuto alla forte crescita dell'offerta di lavoro. Ma i problemi più dirompenti (oltre a quelli originati dalle aree arretrate o che maggiormente hanno risentito dalla crisi, come la Sardegna) nascono dalle aree metropolitane. Il rapporto Svimez sottolinea infatti la gravitò della situazione campana, che totalizza il 30,6% della disoccupazione meridionale (351unità mila disoccupati, includendo anche i cassintegrati a zero ore). Ma parlare della Campania equivale a parlare di Napoli, dove vive il 75 %.della popolazione campana; così come i problemi della Sicilia sono in larga parte riconducibili a quelli di Palermo e di Catania.
A questo punto, una domanda: ha un avvenire l'industrializzazione del Sud? E se non ce l'ha, diciamo nei prossimi quattro-cinque anni, che cosa occorre fare? Abbandonare a se stessi i meridionali oppure supplire con altre iniziative alla mancata ripresa industriale? Sono interrogativi che si pongono in molti, anche alla luce dei sommovimenti che scuotono le gerarchie del capitalismo italiano e dai quali tutto traspare, fuorché una strategia che rilanci in modo unitario, a Nord e a Sud, il sistema industriale e ne faccia la fonte di lavoro e di ricchezza per tutto il paese.
Il primo ad aver cercato di dare una risposta a questi interrogativi è stato Pasquale Saraceno, il quale ha detto in sostanza che l'industrializzazione del Mezzogiorno, finora trainata dalle decisioni di investimento di grandi imprese del Centro-Nord, nei prossimi anni continuerà a ristagnare, come è accaduto almeno da un decennio a questa parte. La grande industria centrosettentrionale va da tempo realizzando investimenti "intensivi", cioè investimenti che non accrescono la capacità produttiva, bensì razionalizzano gli impianti esistenti con l'automazione, con la riorganizzazione del lavoro, con la contrazione degli organici. Ma il Sud puo' approfittare solo degli investimenti "estensivi", che sono quelli che accrescono la capacita produttiva e l'occupazione, e dunque danno vita a nuovi stabilimenti. Perciò, conclude Saraceno, bisogna attendere che si compia tutta intera la ristrutturazione dell'industria forte, del Centro-Nord, e poi sperare che l'accumulazione muti segno, passando da intensiva ad estensiva. Nel frattempo, nelle regioni meridionali, si possono intraprendere investimenti pubblici compensativi, come quelli per il risanamento delle città che da un lato affrontano problemi acuti di vivibilità, e dall'altro preparano l'ambiente alla successiva, auspicata ondata di nuova industrializzazione.
Il ragionamento di Saraceno apparentemente non ha folle. E gli investimenti pubblici che egli rivendica non sono la solito spesa pubblica per assistere gli emarginati. Quindi, non dovrebbero attrarre gli strali di quei rigoristi della finanza pubblica, i quali vorrebbero impugnare la scure e tagliare le spese improduttive. C'è tuttavia una premessa maggiore (dicevano una volta gli Scolastici), che è una premesso non convincente. Perchè mai la ripresa industriale del Sud dovrebbe fare perno ancora e sempre sugli investimenti della grande impresa del Centro-Nord?
Che i grandi impianti industriali localizzati al Sud nel decennio 1965-75 abbiano cambiato, nel bene e nel male, la geografia economica di una parte del Sud, è un dato di fatto irrefutabile. Che i generosi incentivi all'industrializzazione siano stati incassati perciò dalla megaimpresa settentrionale è un'altra constatazione di fatto da tutti ammessa. Ma siamo sicuri che da qui alla fine del secolo la musica riprenda e che il rinnovamento industriale del Sud debba necessariamente assomigliare al deja vu?
E' tempo di mettere in discussione simili ipotesi e di avanzarne altre, alternative. Siamo infatti convinti in molti che il futuro Industriale del Sud dipenderà sempre meno dalla grande impresa, spinta semmai a localizzare nuovi impianti (se ce ne sarò bisogno) in altre parti del mondo, dove abbondano materie prime e forze di lavoro a basso prezzo e dove tirano i mercati per i prodotti maturi. E dipenderà sempre di più dall'impresa medio-piccolo, di origine locale. Dipenderà sempre di più dagli imprenditori meridionali.
Un ceto imprenditoriale dinamico, aggressivo, proteso all'innovazione si è fatto ormai le ossa nel Mezzogiorno, e ambisce, e ha le capacitò di crescere. Sono questi i protagonisti della rinascita industriale del Sud. Ed è inutile sognare la ripetizione di un passato irripetibile.
Semmai, il discorso dovrebbe spostarsi sugli strumenti che possano favorire la crescita dei nuovi imprenditori meridionali. Incentivi finanziari e fiscali bastano, oppure sono tipici strumenti disegnati e abbondantemente utilizzati dalle grandi imprese nel decennio d'oro, tra metà anni '60 e metà anni 70? Non servono allora all'affermazione dei piccoli imprenditori meridionali altri incentivi, quelli che si chiamano incentivi reali, come una buona rete energetica, la trasmissione efficace delle informazioni a distanza (telematica), le aree industriali (e quelle artigiane) attrezzate?
E non è forse meglio deregolamentare il sistema degli incentivi, anziché costruire - come fa la nuova legge sul Mezzogiorno - una selva di controlli e di veti incrociati? Controlli, visti, autorizzazioni sono funzionali a un disegno di cosiddetto contrattazione programmata, tra Stato e grande impresa, per nuovi investimenti a Sud. Ma diventano un abito stretto se l'interlocutore da privilegiare è il piccolo imprenditore. Allora: a che gioco si sta giocando?

QUALE SUD

Paolo Savona

Su quali basi ricostruire le prospettive di sviluppo del Mezzogiorno drammaticamente cadute? Come affrontare il problema della concentrazione del Mezzogiorno dei tre milioni di disoccupati preconizzati da Ciampi a politiche immutate? Vediamo innanzitutto come la pensa il Governatore della Banca d'Italia. Egli sostiene che "la questione meridionale si ripropone quale snodo decisivo del progresso economico e civile dell'intera società italiana"; essa pareva assopita e per taluni liquidata con l'aumento del livello di benessere delle popolazioni. Prendendo come indicatore il valore del prodotto per abitante, il "benessere" del Mezzogiorno si è triplicato e il divario Sud-Nord è sceso dal 49% del 1960 al 38% del 1973, ma da allora è fermo: la crisi petrolifera pare aver congelato la crescita del prodotto meridionale e le politiche attuate si mostrano inefficienti a garantire ulteriori progressi.
Ma, come ripetutamente detto, il livello di benessere non è tutto per il Sud. Infatti il Governatore denuncia che in quest'area "le iniziative e la creazione di posti di lavoro sono scoraggiate da una produttività inferiore a quella del Centro-Nord". Su questo aspetto del problema le "Considerazioni" non sono supportate da dati, in quanto quelli disponibili non sono inequivocabilmente probanti. E' noto, tuttavia, che - mediamente - i divari di produttività NordSud sono sostanzialmente rimasti identici, forse perchè nel Nord il progresso in questo campo è stato più rapido di quello del benessere, ma anche perchè la dotazione di capitale nel Sud è ancora modesta.
Alcune stime indicano che il lavoro rende nel Sud un 20% in meno che nel, Nord per il combinato effetto di macchine meno efficienti e specializzazioni meno elevate. Ciampi afferma che "lo sgravio degli oneri sociali tende a compensare il divario; il divario non colmato si traduce in differenziali di salario o in maggiore disoccupazione". "Ma l'azione pubblica - precisa il Governatore - è chiamata soprattutto a eliminare i dislivelli di produttività, generando economie esterne, migliorando le infrastrutture, promuovendo nuove iniziative e capacità produttive nel Mezzogiorno", per cui anche nel Sud vale la prescrizione che "la via per creare occupazione è l'accumulazione di capitale, unita a rapporti di lavoro più flessibili", e questa accumulazione, a sua volta, richiede "il risanamento del bilancio pubblico".
Non è solo attraverso il risanamento del bilancio pubblico che Ciampi colloca la questione meridionale nel quadro della soluzione più generale dei problemi del paese. Egli indica che "l'obiettivo di ridurre il vincolo esterno che frena l'intera economia coincide con l'esigenza di proseguire nell'opera di ammodernamento dell'agricoltura meridionale" ed aggiunge che "l'ampliamento dei settori tecnologicamente avanzati può avvenire anche privilegiando nuovi investimenti al Sud, sia nell'industria sia nei servizi", e conclude che "le possibilità del turismo vanno pienamente valorizzate".
Ciampi è molto accorto nell'evitare lo scoglio politico di chi si deve dare cura della "questione meridionale" e rammenta che "lo sviluppo del Mezzogiorno è affidato in primo luogo alle attitudini organizzative e all'impegno della società meridionale", ma - avverte - "rimane essenziale ( ... ) l'azione penetrante di coordinamento che la legge ha affidato agli organi centrali".
In questi lucidi passaggi vi è la sintesi emergente del "nuovo meridionalismo", la cui analisi va guadagnando terreno ed ha ora ricevuto un'autorevole conferma nelle "Considerazioni finali" della Banca d'Italia. Le tesi del "nuovo meridionalismo" possono essere sintetizzate nelle seguenti proposizioni:
- preoccupiamoci meno del benessere e più della produttività;
- preoccupiamoci meno del livello di domanda e più dell'offerta;
- è illusorio colmare i divari con contributi a fondo perduto, occorre eliminare le cause che li generano; tra queste ancora pesa la carenza di infrastrutture capaci di generare economie esterne;
- lo sviluppo non coincide con la sola industrializzazione, ma deve scaturire anche dall'agricoltura e dal terziario, compreso un migliore sfruttamento del turismo.
Per completare il quadro manca però, da un lato, il richiamo ad una più intensa applicazione nel Mezzogiorno delle prescrizioni, in altra parte avanzate da Ciampi, concernenti la ricapitalizzazione delle imprese. Queste prescrizioni appaiono particolarmente rilevanti per il Mezzogiorno, dove gli elevati incentivi all'indebitamento hanno creato strutture finanziarie squilibrate, rese ancor più pesanti dal perdurare della crisi meridionale. Dall'altro, manca il riconoscimento che il Mezzogiorno è un'economia totalmente aperta al resto d'Italia e collocato nelle regole di scambio vigenti nel resto del mondo; questo riconoscimento conduce a ritenere impossibile procedere prevalentemente con politiche che compensino il deficit dei conti "con l'esterno" (il resto del paese e l'estero propriamente detto) del Mezzogiorno con soli trasferimenti pubblici; occorre aumentare le esportazioni. Data la base ridotta del proprio mercato "interno", il problema della conquista di nuovi mercati sui quali collocare le produzioni meridionali diviene centrale per beneficiare delle economie di scala di cui già gode il Nord o soltanto per ipotizzare al Sud un più esteso uso di tecnologie moderne ad alto "gettito" di prodotto.

QUALE SUD

Giorgio Ruffolo

Lo scopo dell'intervento straordinario, nella cultura buona del meridionalismo, è sempre stato quello di integrare il Mezzogiorno organicamente al resto del paese. Il suo successo doveva stare proprio nella sua capacità di autodistruggersi, come certe capsule spaziali, una volta compiuta la missione. Ciò richiedeva un grande sforzo nazionale, fondato su una strategia di sviluppo coerente e su un sistema di decisioni efficace.
Nelle prime fasi dell'intervento, quando si trattava di far decollare il Mezzogiorno, che era allora una grande area prevalentemente agricola, relativamente omogenea, fortemente sottosviluppata, vi furono sia una strategia (fondata sul binomio grandi opere pubbliche-finanziamenti agevolati alla grande industria) sia un forte soggetto decisionale (la Cassa). Poi, il disegno si è gradatamente imbrogliato. La strategia, sempre fondata su quel binomio, è però scaduta nella quotidianità degli interventi a pioggia. Il sistema decisionale si è frammentato disorganicamente, e il tentativo di riassumerlo nella programmazione nazionale è fallito.
Intanto il Mezzogiorno - sotto l'impulso dell'intervento e delle tendenze spontanee - cambiava. Cambiava bene, con la crescita dell'apparato produttivo e, soprattutto, dei consumi. Cambiava male, con la crescita del disordine sociale, del quale tre aspetti sembrano oggi particolarmente preoccupanti: il primo, lo sfascio dell'ambiente, naturale, urbano e "culturale" in senso lato; il secondo, l'avvento di una pseudoborghesia di Stato e di partito, vorace e parassitaria, che vive in gran parte di rendite d'intermediazione tratte dall'intervento pubblico; il terzo, l'estendersi dell'economia e della società extralegale, nelle forme più familiari del "sommerso", o in quelle più inquietanti della malavita. Nell'insieme, oggi, il Mezzogiorno non è più propriamente una economia sottosviluppata. Ma è ancora una economia assistita: le risorse che esso consuma eccedono (del 13 per cento circa) quelle che produce.
In tali condizioni, occorrerebbe riprendere, in forme rinnovate, il grande disegno meridionalista: promuovendo, cioè, nel Sud, per renderlo autonomo, non tanto opere ed impianti, quanto capacità imprenditoriali ed amministrative, energie produttive e servizi sociali. Ciò comporterebbe (ma quante volte lo si è detto?) un grande sforzo nazionale: un riorientamento di tutta la politica economica, industriale, sociale del paese sulla scommessa nazionale dello sviluppo meridionale. Il fallimento storico di questo disegno non significa solo la condanno del Mezzogiorno a una cronica subalternità, ma il compimento, dal lato perverso, della profezia: L'Italia sarà quel che il Mezzogiorno sarà.
Ebbene, a questa domanda nazionale noi offriamo, una volta ancora, una risposta regionale. La nuova legge "organica" trasforma la Cassa in un Fondosportello, da cui trarre le risorse per finanziare progetti regionali e centrali disparati. Il piano fornisce a tali progetti un "quadro di riferimento" fatto solo di parole: non un piano, ma un discorso sul piano.
E come potrebbe essere diversamente? Il Ministro dell'Intervento Straordinario comanda una piccola parte del campo di operazioni. Come potrebbe dare ordini di battaglia a divisioni che dipendono da altri generali, impegnati in guerre diverse e lontane? Non c'è da stupirsi che egli non emetta ordini, ma formuli ipotesi, auspici, "orientamenti".
E però: un piano vero non è fatto di parole ma, soprattutto, di cifre; non di orientamenti, ma di decisioni. Non si tratta - e in ciò il Ministro del Mezzogiorno ha ragione - di elencare opere e progetti particolari. Si tratta, però, di quantificare gli obiettivi e, prima di tutti, quello fondamentale, per il Mezzogiorno, del l'occupazione: che senso ha "stanziare" (si fa per dire) 140 mila miliardi, se non sappiamo quanti posti di lavoro, presumibilmente, intendiamo creare e dove, regione per regione? Si tratta di precisare l'entità degli investimenti, necessari per realizzarli, e il quadro, flessibile sì, ma definito, della loro ripartizione, per regione e per destinazione.
Un piano del genere può essere scritto in una decina di pagine, prosciugate dalla sociologia, dense di cifre, scarne di proposizioni. Un documento, insomma, del tipo di quelli che Pasquale Saraceno definiva Rapporto alla Regina. La Regina, si sa, non ha tempo da perdere. E ha anche il diritto sovrano di essere un pò stupida: non deve scervellarsi a interpretare discorsi culti. Deve poter fare i conti sulle sue dito regali. Tuttavia, un piano così semplice richiede un lavoro politico complesso. Richiede uno sforzo nazionale di programmazione: che consenta, sulla base di obiettivi chiari e precisi, di coordinare davvero, efficacemente, progetti regionali e nazionali, interventi ordinari e straordinari. Diversamente, possiamo bene immaginarci quel che avverrà. I bei discorsi sul coordinamento resteranno nel regno del linguaggio socio-politichese, quel linguaggio in cui non appare mai il vincolo della cifra 100, e tutto è "compatibile" e "verificato". L'intervento straordinario si perpetuerà come sistema periferico. La suo gestione sarà ispirata alla logica spartitoria e assistenzialistica, non a quella programmatrice e produttivistica. Altro che rivoluzione copernicana! Il regno tolemaico del Sud godrà di una proroga di altri nove anni, e di un piccolo tesoro di 140 mila miliardi.
Temo che questo non sia buon meridionalismo moderno: ma cattivo sudismo, vecchio e subalterno.

QUALE SUD

Giovanni Russo

Pasquale Saraceno, che è stato uno dei principali ispiratori della politica di industrializzazione del Mezzogiorno, ha ammesso che, nella condizione attua e, è unanime il riconoscimento che non è più possibile fare buoni investimenti nel Sud di impianti industriali. Saraceno afferma che questo è ormai un dato di fatto incontrovertibile e consiglia di impostare il nuovo intervento straordinario dello Stato negli assetti urbanistici e nelle infrastrutture che dovrebbero preparare futuri investimenti industriali quando l'epoca, che egli stesso però considera impossibile oggi prevedere, dovesse di nuovo diventare propizia.
In un mondo in cui, com'è chiaro anche ai ciechi, la contraddizione principale dei paesi più avanzati è fra quello che viene definito l'"hardware" e quello che viene chiamato il "software", questo è un modo rovinoso di impostare il problema di un intervento di ben 140.000 miliardi di lire nei prossimi nove anni per il Sud; a meno che non si voglia, come nel passato, farlo disperdere nei rivoli di iniziative parassitarie e assistenziali che farebbero lievitare ancora forme di corruzione e di delinquenza.
E' innegabile quindi che, anche per gli errori d'impostazione della politica della Cassa per il Mezzogiorno, dopo il primo periodo positivo di programmazione, il Sud ha perduto definitivamente l'occasione di diventare sede di un organico sistema industriale. Le cattedrali nel deserto non ce le siamo inventate noi. Ma questo svantaggio potrebbe trasformarsi in un grande vantaggio per il Sud se gli uomini di governo comprendessero finalmente che, mentre il Nord rimane la sede storica principale di un grande sistema industriale che va ristrutturato, come ha giustamente osservato un economista come Talamona, guardando il futuro, il Sud èla terra vergine ideale per diventare la sede delle prospettive di sviluppo di un avvenire che batte già alle porte: quello della ricerca scientifica, del polo elettronico delle più avanzate tecnologie, insomma del "software".
Nel Sud, infatti, esistono cervelli e strumenti, checché se ne pensi, per raggiungere questi obiettivi avanzati.
Molto opportuno è l'appello di Antonio Giolitti alla Camera perché vengano indicati i criteri-guida "totalmente assenti" nella nuova legge per il Mezzogiorno e la sua denuncia delle mode, spesso d'importazione, sulla "deregulation" per evitare quel coordinamento da parte degli organi centrali, auspicato dal Governatore della Banca d'Italia, che è in sostanza l'invito a scegliere chiaramente la strada della programmazione.
C'è chi si preoccupa di non ripetere gli errori degli ultimi vent'anni, c'è chi paventa il ricorso ancora all'istituto della "concessione" come sorgente di nuovi potentati economici che possono provocare la disgregazione ulteriore dello Stato nel Sud.
Vogliamo ricordare, a questo proposito, che l'istituto della concessione fu adottato dal governo italiano, subito dopo l'unità, per la costruzione del sistema ferroviario, in quanto il giovane Stato non disponeva dei mezzi finanziari per realizzare questo progetto di modernizzazione del paese.
Oggi è vero il contrario. L'istituto dei a concessione si è trasformato in un mezzo giuridico attraverso il quale grandi forze parassitarie non solo non fanno le anticipazioni di capitale fisiologiche in tali tipi di convenzione, ma addirittura lavorano con fondi anticipati dallo Stato.
Se Silvio Spaventa volle la nazionalizzazione delle ferrovie per estirpare quelle imprese che egli chiamò nuove forze feudali, oggi il nostro Stato deve rifiutare l'istituto delle concessioni che sembra invece ancora essere considerato attuale. Se si continua per la vecchia strada, cadremo inevitabilmente nell'assistenzialismo, nel parassitismo delle grandi concessioni che, a loro volta, verrebbero applicate ai centri storici del Mezzogiorno. Ma i centri storici sono l'ultima vera risorsa, insieme a quella dell'alta cultura, del nostro Sud.
Lo credano o no i nostri falsi profeti, essi sono il più grande, inesauribile patrimonio e, come ha detto nel suo appello lo scienziato Eduardo Caianiello, potrebbero trasformare il nostro Mezzogiorno in una delle società più avanzate del mondo, se sarà scelta la strada della rivoluzione scientifica e tecnologica.


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