§ I COSTI DELLO SBILANCIO

LO STATO-MAMMA




Maria Rosaria Pascali



L'economia italiana denuncia crescenti segni di debolezza. Non è più competitiva. Abbiamo sprecato il 1984 e, con esso, la favorevole congiuntura internazionale. Il rischio è quello di imboccare la via della recessione e vanificare anche quanto di buono è stato finora faticosamente ottenuto.
I problemi, insomma, restano quelli di sempre: inflazione, bloccata ad un livello circa doppio rispetto a quello dei nostri concorrenti; spesa pubblica, che da tempo ha sfondato i limiti fissati dalla legge finanziaria; costo del lavoro, che cresce ad un saggio addirittura superiore a quello dell'inflazione; enorme passivo della bilancia commerciale, che attesta la perdita di competitività dei nostri prodotti sia sui mercati esteri sia su quello interno. Una realtà piena di guai, dunque. E ancora non si sa da che parte cominciare per avviare un sano processo di sviluppo del nostro sistema. E come essere in un labirinto: si tenta a caso di trovarvi la strada. E finora non è stata trovata. Non è giusto. Il labirinto siamo noi ad averlo creato. Con i nostri errori. Conosciamo bene quella strada: èla più difficile a percorrersi. E preferiamo perdere tempo, fare ipotesi ottimistiche, ma mai programmi precisi, decisivi.
Le condizioni potenziali per uscire dalla crisi e avviarsi verso alti saggi di sviluppo esistono, e con esse la possibilità di affrontare seriamente il problema del l'occupazione. Tutto sta nel saper decidere e nell'evitare manovre che in partenza si sanno inutili. Sarebbe effimero, ad esempio, credere che gli squilibri esistenti possano essere sanati mediante la soia politica di restrizione creditizia: essa graverebbe quasi del tutto sulle imprese, penalizzando pericolosamente la nostra base produttiva ed occupazionale.
D'altro canto, un punto di partenza deve pur esserci. La Confindustria ce lo suggerisce: "Il denaro pubblico è la merce più scarso che esiste oggi in Italia. Deve essere quindi razionata come in tempo di guerra. In caso contrario, nessun problema potrà essere avviato a soluzione". Non è una grande scoperta. Però, a quanto pare, mai consiglio è stato così poco seguito e, comunque, casi difficile da seguire. Ma vediamo un pò come funzionano le cose all'interno dell'Azienda-Italia.

FINANZA PUBBLICA

I cittadini risparmiano e pagano. lo Stato spende e si indebita. La nostra propensione al risparmio è, invero, molto alta (23-25% del reddito nazionale), anche se il saldo fra risparmio privato e risparmio pubblico è in netta e rapida diminuzione. Inoltre, gli investimenti fissi privati, nel periodo 1980-84, sono crollati al 5,5% del Pil. Per contro, sono saliti gli investimenti pubblici (9,6% del Pil), ma senza riuscire a riequilibrare la situazione. In Italia, cioè, si investe poco nonostante si continui a risparmiare. E il motivo c'è: gli investimenti fissi sono stati sostituiti dalla spesa pubblica corrente, da quella spesa che non pensa al domani e che non crea accumulazione.
L'aumento incontrollato della spesa pubblica improduttivo e la crescita del disavanzo pubblico hanno fatto delle finanze statali la fonte principale di squilibrio e un freno allo sviluppo della nostra economia. Ma l'impellente necessità di correggere le leggi di spesa non ha certo impedito che si continuasse ad adottare la politica del giorno per giorno. La totale assenza di decisioni in politica economica, verificatasi nel primo semestre del 1985, ha reso inutili i miglioramenti di tendenza e la non facile azione di contenimento dello scorso anno. Rimangono infatti inalterati nella loro gravità i problemi di struttura della nostra spesa pubblica, dalla sanità alla previdenza, dagli enti locali alle partecipazioni statali. I buchi che ogni tanto si scoprono in questo o in quel settore sono, ciascuno, sull'ordine dei quattro mila miliardi.

INPS

Il fabbisogno statale per il 1985 era stato fissato a 96 mila miliardi. Ma la cifra è salita a quasi 100 mila, causa il galoppante aumento del disavanzo dell'inps, e rischia di crescere ulteriormente, se non si pone un freno alla spesa sanitaria e a quella degli enti locali. Questo significa che lo Stato preleva quasi il 50% della ricchezza nazionale per finanziare enti pubblici in perenne deficit e che, puntualmente, dissiperanno tale risorse con la loro gestione dissennata. L'inps, soprattutto, è una grande spugna. Solo lo scorso anno erano tutti ottimisti. Le previsioni per l'84 risultavano pienamente rispettate. Nonostante le preoccupazioni della Banca d'Italia (i cui conti attestavano che i soldi messi a disposizione dell'inps per l'84 non sarebbero affatto bastati a coprire tutte le uscite), l'ente ribadiva che la situazione era sotto controllo. Casi non è stato, evidentemente. Le previsioni sono state improvvisamente disattese: incassati 1600 miliardi di contributi in meno, erogati 500 miliardi in più alla Cassa Integrazione, ottenuti versamenti dalle imprese per un ammontare inferiore a quello previsto di 800 miliardi. E la nuova falla si è rivelata enorme: quasi 10 mila miliardi in soli due anni di gestione. Falla che le finanze pubbliche saranno costrette a coprire al più presto per non lasciare centinaio di italiani senza pensione.

SANITA'

Il settore sanitario merito un discorso un po' particolare. Sarebbe infatti un errore delinearne il dissesto solamente sotto il profilo della spesa. Nel senso che qui il contenimento della spesa non è l'unico obiettivo da raggiungere. Nè il più importante.
Il problema delle cifre esiste, eccome: quest'anno la spesa sanitaria si aggira intorno ai 36/40.000 miliardi; mentre per l'86 si prevede raggiungerà quota 45.000. Una somma considerevole, se si pensa al modo in cui questi miliardi vengono spesi.
Ma, come ho detto, il vero problema non riguarda tanto le dimensioni che la spesa sanitaria ha raggiunto, quanto la sua capacità di sfuggire ad adeguati controlli. Sprechi e degrado nelle prestazioni non si contano più.
La crisi della Sanità ha un'origine ben precisa: alle 670 Usi è stata negata la loro vera natura di imprese. E casi, invece di essere affidate a managers e ad amministratori competenti, sono state occupate dai partiti e da questi interamente lottizzate su scala comunale e regionale. Ecco quindi spiegata la tanto "amara" gestione. Le ricette, anziché sanare, son servite ad inasprire le cose. Tutte guardano al contenimento (pur necessario) della spesa, nessuna al "disservizio". Tutte cioé evitano, invece di affrontare il problema di fondo (che è poi quello di aumentare la funzionalità delle strutture, eliminando sprechi e corruzioni).

CASSA INTEGRAZIONE

Che dire poi di quel meccanismo perverso che è la Cassa Integrazione? Qui la confusione è totale: l'aiuto temporaneo si trasforma in garantismo perenne, la previdenza divento sinonimo di assistenza. Qui lo Stato-mamma si rivela in tutta la sua generosità e leggerezza.
La storia della Cassa Integrazione comincia nell'immediato dopoguerra. L'istituto nasce per favorire le ristrutturazioni industriali e dare nel contempo un'adeguata protezione ai lavoratori dipendenti. Le imprese infatti non producono in modo costante, ma attraversano varie fasi, caratterizzate da alti e bassi. Di conseguenza varia anche il fabbisogno occupazionale. Ingiusto sarebbe però espellere o assumere mano d'opera a secondo delle esigenze correnti. Ecco allora che interviene la Cassa: un'assicurazione obbligatoria di indubbia validità. Le imprese, in pratica, pagano all'Inps il 2,20% sulle retribuzioni operaie. Si costituisce così, mediante apposita legge, una gestione mutualistica che corrisponde al lavoratore temporaneamente sospeso una quota della retribuzione. Una somma pari all'8% di queste erogazioni grava sull'impresa. E' questa la Cassa Integrazione ordinaria: una forma di mutuo soccorso che continua a funzionare, senza degenerazioni. Il suo deficit non è consistente (circa 400 miliardi per l'85) ed è comunque in progressiva diminuzione, poichè dipende in gran parte dalla congiuntura economica.
Ma il discorso cambia totalmente quando si passa alla Cassa Integrazione speciale. Qui cominciano le degenerazioni. L'istituto nasce nel 1968, in seguito a radicali mutamenti sociali ed economici. Il suo fine è in teoria giusto: dare elasticità a strutture troppo rigide, facilitando così la ventata di cambiamenti in atto. All'operaio viene corrisposto l'80% della retribuzione per tutte le ore non lavorate e senza limiti di tempo (per la Cassa Integrazione ordinaria, invece, il limite di applicazione era di tre mesi). Però chi paga non è più l'impresa, ma lo Stato, tramite il bilancio di un ente previdenziale: l'Inps. Ed ecco spiegata l'affannosa rincorsa generale. Tutti possono, e quindi vogliono, avere.
L'impresa che deve espellere mano d'opera, pur sapendo di non poterla più riassumere, preferisce ricorrere alla Cassa Integrazione speciale. Tanto l'onere non è suo (non in via immediata, almeno). La Cassa viene addirittura estesa agli operai di imprese fallite o di imprese che, sorte per effettuare opere pubbliche, hanno chiuso appena finiti i lavori.
Nel '75 viene modificata la Cassa Integrazione ordinaria, al fine di riportarla in linea con i tempi: la quota da corrispondere ai lavoratori sospesi sale anche qui all'80% della retribuzione, mentre il limite di applicazione raggiunge le 52 settimane in un biennio. Ma il ritmo con cui si verificano i cambiamenti della struttura produttiva supera ogni previsione. E la Cassa Integrazione speciale resta la soluzione preferita dalle imprese in difficoltà, sia per i minori limiti operativi sia per l'assenza di costi immediati. Nel 1984 ci sono stati più di 10 mila decreti di concessione o di proroga di concessione di Cassa Integrazione speciale. Salgono di conseguenza le uscite. Il deficit dell'Inps è enorme. Nel preventivo '85 supera i 16 mila miliardi. Da stime approssimate si deduce che la Cassa mantiene circa 300 mila persone. Come ignorare che la maggior parte di questi cassintegrati svolge un doppio lavoro (in nero, naturalmente)? Eppure, a chi per un motivo e a chi per un altro, la situazione sembra vada bene così. Proprio in un momento in cui lo Stato-mamma non ha più ragione di esistere. Proprio quando necessita invece investire per creare lavoro produttivo, imprese efficienti. Non viene chiesta equità, ma privilegi particolari, mancando (è incredibile!) la consapevolezza che tutto ciò che èottenuto sotto forma di privilegi è stato precedentemente prelevato dallo Stato sotto forma di tributi.
Ma c'è poco da stare allegri. Il problema dei lavoratori dichiarati esuberanti dalle imprese sta diventando un'emergenza sociale.
Le imprese, abusando della Cassa, hanno delegittimato il sindacato e preso in mano le redini del gioco (hanno imposto liste di eccedenti, rifiutato il principio della rotazione). Ma hanno giocato male. Ed ora confidano in una leggina che porti in tutte le aree di crisi il prepensionamento a 50 anni.
Gli stessi abusi di Cassa hanno reso irreversibile il degrado della professionalità degli eccedenti che, dopo anni di sospensione, sono diventati definitivamente incollocabili. Quella tenda di ossigeno che sembra essere la Cassa Integrazione "a zero ore" altro non è che l'anticamera dell'espulsione definitiva.

SISTEMA FISCALE

I cittadini-contribuenti, quindi, continuano a pagare e ad identificarsi con gli obiettivi della spesa pubblica. la macchina mostruosa del sistema tributario italiano lascia tutti indifferenti. Nessuno sembra infatti avere interesse ad una vera riforma fiscale. Neanche i tartassarti, poiché anche a loro il sistema riserva determinati privilegi. Inutile nascondere allora che, se protesta non c'è, è soprattutto perché in realtà nessuno vuole una drastica riduzione della spesa pubblica, in quanto ciò significherebbe tagliare la spesa corrente (salari e stipendi), nonché quella spesa destinata alle imprese sotto forma di mutui, credito agevolato, fiscalizzazione di oneri sociali. E' un discorso impostato male, ma a cui nessuno vuole rinunciare.

OCCUPAZIONE

Come spiegare che gli eccessivi oneri fiscali danneggiano la vitalità della nostra economia, impedendole una sana crescita? E come spiegare che dall'inadeguata crescita economica dipende in gran parte il fenomeno della disoccupazione?
Resta un'illusione l'obiettivo prefissato nel settembre scorso di chiudere il 1985 con un crescita economica del 2,6%. E se già in quell'ipotesi si prospettava un ulteriore aumento del tasso di disoccupazione, con una crescita economica inferiore al previsto detto saggio raggiungerà livelli ancora più alti. Eppure, quando si parla di disoccupazione, tutti gridano allo scandalo. è certo uno dei nostri mali più diffusi, ma altro non rappresenta che l'effetto dei protrarsi di una situazione di ristagno economico a cui tutti bene o male ci adattiamo. E i risultati si vedono. Sembrano lontani gli entusiasmi che hanno caratterizzato il 1984. Ovunque si colgono segnali d'allarme: la domanda interna (per consumi e investimenti) continua a crescere a ritmi sempre più elevati, vanno male i conti con l'estero, diminuisce la produzione industriale, l'inflazione non si smuove dal livello raggiunto lo scorso dicembre.
Abbiamo detto che la pubblica amministrazione si è trasformata in un luogo di sprechi e di corruzione. Altro che simbolico esempio di efficienza ed equità: il modo in cui sono gestiti i fondi pubblici ci porto lungi dal credere che si stia perseguendo una qualsiasi politica a favore del l'occupazione. Insomma, esistono 2 milioni e mezzo di disoccupati e c'è chi pensa ancora che il problema possa essere risolto creando posti di lavoro a carico della collettività, inutili economicamente. Per contro, si continuo ad investire solo il 18% del reddito nazionale annuo. E si continuano a chiedere politiche dei redditi che assegnino ai consumi individuali ed ai salari una buona parte degli incrementi di produttività (quando sarebbe necessario assegnare tutto la crescita della produttività al finanziamento degli investimenti).
Ripetiamo: non è giusto. A nulla sembrano essere serviti i miglioramenti strutturali realizzati negli ultimi anni dal nostro apparato industriale. Tutto è reso vano dalle inefficienze interne al nostro sistema. E l'industria italiana diventa sempre più vulnerabile.

PROGETTO CONFINDUSTRIA

"Dietro una politica miope si nasconde tutta la forza vitale della nazione. Una forza che vuole e deve essere sfruttata". E' con questa convinzione che la Confindustria ha presentato al Governo il suo documento di politica economica. la paura degli imprenditori privati è quella che Governo e Parlamento sciupino la fiducia ottenuta dal Paese e, soprattutto, che perdano un'occasione propizia, forse unica, rappresentata da una situazione politica ed economica internazionale più stabile che in passato e da un potenziale recupero di produttività da parte dell'industria italiana. Ecco perchè la Confindustria si dichiara pronta a respingere qualsiasi proposta del Governo o del Sindacato che abbia come fine "la semplice spartizione dell'esistente" e non la crescita della base produttiva nazionale. Per gli imprenditori privati, obiettivo prioritario resta l'elaborazione di un piano di rientro della spesa e del disavanzo pubblico, che va necessariamente accompagnato da un mutamento qualitativo sia delle entrate sia della spesa pubblica. Ciò implica, sul versante delle entrate, l'impostazione di una politica fiscale a sostegno della produzione, delle esportazioni, del risparmio; e atta nel contempo a deprimere i consumi. L'attuale politica favorisce nettamente l'imposizione diretta (che grava su un numero sempre più ristretto di lavoratori e di imprese, a scapito di ogni equità fiscale) rispetto a quella indiretta. Un'inversione di tendenza (e dunque un graduale riequilibrio fra questi due tipi di tassazione) avrebbe come effetto un rilevante alleggerimento del peso fiscale sulle categorie a reddito fisso, restando sostanzialmente invariato il livello della pressione fiscale. Contestualmente, è necessario porre riparo agli effetti devastanti delle aliquote progressive dell'irpef: una tassa implicito sul lavoro, direttamente proporzionale alla crescita della produttività e professionalità.
Sul fronte della spesa, i mutamenti qualitativi si devono tradurre in un drastico contenimento della spesa pubblica redistributiva, a tutto vantaggio degli investimenti.
Principale area di investimento dev'essere il costo del lavoro, che oggi rappresenta il 60% della spesa pubblica. Nel primo semestre '85 esso ha scontato gli effetti negativi della riduzione dell'orario, nonché degli aumenti contrattuali e dell'operare dei vari automatismi; ed ora cresce a ritmi anche superiori a quelli del costo della vita. Diventa allora doveroso da parte dello Stato considerare la riduzione dei fattori automatici di crescita del costo del lavoro (scala mobile, anzianità, ... ); un'operazione indispensabile e improrogabile.
In contraddizione con le esigenze di rientro della spesa pubblica, risultano essere gli aumenti indiscriminati delle assunzioni statali nonché le proposte per l'introduzione di contratti di lavoro part-time per i dipendenti già in servizio. Altra area di intervento è il servizio del debito pubblico, il cui onere penalizza tutto il sistema economico, tenendo alti la spesa corrente e il costo del denaro, aumentando il potere d'acquisto nell'economia senza corrispettivi di produzione. Progetti e programmi sono poi avanzati sulle tre grandi aree di spesa: pensioni, sanità e finanze locali.
E questo un documento che affida al Governo precise responsabilità. Inutile infatti tappare i buchi esistenti nel nostro sistema: sono falle destinate inevitabilmente a riaprirsi e a dilatarsi. Di fronte alla possibilità di avviare una manovra di risanamento tale che consenta, nel breve termine, l'arresto del degrado economico e, nel medio (allacciandosi a tempestivi provvedimenti strutturali), la nascita delle condizioni ideali per lo sviluppo del sistema, le paure (ipocrite) vanno superate. Poichè la posta in gioco è troppo alta. Ma, è onesto ricordare, quello degli imprenditori è anche un documento che ha scatenato aspre polemiche da parte del sindacato sulla questione "costo del lavoro". Decenni di lotte non hanno cancellato differenze e contrasti di interesse tra padroni e operai. Dai sindacati la riduzione del salario viene intesa come l'ennesima prepotenza di chi è, ormai da tempo, il più forte. Una prepotenza che certo non sistemerà le cose, poiché "non è il lavoro che costa troppo, ma é il sistema di produzione e distribuzione della ricchezza che è distorto... Solo negli USA il costo del lavoro per unità di prodotto è più basso che da noi; mentre da noi è alto il costo del fisco, dell'energia, del trasporti, della tecnologia importata. Insomma, è lo Stato che non va ... ". In altre parole, inutile prendersela con i più deboli.
Situazione complessa, in cui ogni giudizio può essere, a ragione, facilmente contestato. Infatti, è vero che il costo del lavoro è troppo alto per le imprese, ma è altrettanto vero che il salario nella busta-paga è troppo basso per i lavoratori. E questo paradosso sembra rendere inconciliabili le contrapposte esigenze fra le due parti sociali. A nostro avviso, spetta al fiscal drag fare il primo grande passo. Che non significa però scaricare sul fisco colpe che sono di tutti. Ognuno ammetta i propri errori. Ad ognuno servano di lezione. Occorrono compromessi, non prese di posizione.
Gli imprenditori sembra vogliano assumersi la loro parte di responsabilità. Ora tocca al Governo assumersi le proprie. E al Paese il compito più difficile: accettare la sfida che lo sviluppo impone, perdendo quei privilegi a tutti tanto "cari". Particolarismi destinati a cadere comunque, con la differenza che sarebbe troppo tardi per poter ottenere un qualunque corrispettivo in cambio. Questo non vuoi dire parteggiare per gli imprenditori contro i lavoratori, o per lo Stato contro i suoi assistiti. Chi vuoi intendere intenda. E' tutta questione di maturità.


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