L'economia
italiana denuncia crescenti segni di debolezza. Non è più
competitiva. Abbiamo sprecato il 1984 e, con esso, la favorevole congiuntura
internazionale. Il rischio è quello di imboccare la via della
recessione e vanificare anche quanto di buono è stato finora
faticosamente ottenuto.
I problemi, insomma, restano quelli di sempre: inflazione, bloccata
ad un livello circa doppio rispetto a quello dei nostri concorrenti;
spesa pubblica, che da tempo ha sfondato i limiti fissati dalla legge
finanziaria; costo del lavoro, che cresce ad un saggio addirittura superiore
a quello dell'inflazione; enorme passivo della bilancia commerciale,
che attesta la perdita di competitività dei nostri prodotti sia
sui mercati esteri sia su quello interno. Una realtà piena di
guai, dunque. E ancora non si sa da che parte cominciare per avviare
un sano processo di sviluppo del nostro sistema. E come essere in un
labirinto: si tenta a caso di trovarvi la strada. E finora non è
stata trovata. Non è giusto. Il labirinto siamo noi ad averlo
creato. Con i nostri errori. Conosciamo bene quella strada: èla
più difficile a percorrersi. E preferiamo perdere tempo, fare
ipotesi ottimistiche, ma mai programmi precisi, decisivi.
Le condizioni potenziali per uscire dalla crisi e avviarsi verso alti
saggi di sviluppo esistono, e con esse la possibilità di affrontare
seriamente il problema del l'occupazione. Tutto sta nel saper decidere
e nell'evitare manovre che in partenza si sanno inutili. Sarebbe effimero,
ad esempio, credere che gli squilibri esistenti possano essere sanati
mediante la soia politica di restrizione creditizia: essa graverebbe
quasi del tutto sulle imprese, penalizzando pericolosamente la nostra
base produttiva ed occupazionale.
D'altro canto, un punto di partenza deve pur esserci. La Confindustria
ce lo suggerisce: "Il denaro pubblico è la merce più
scarso che esiste oggi in Italia. Deve essere quindi razionata come
in tempo di guerra. In caso contrario, nessun problema potrà
essere avviato a soluzione". Non è una grande scoperta.
Però, a quanto pare, mai consiglio è stato così
poco seguito e, comunque, casi difficile da seguire. Ma vediamo un pò
come funzionano le cose all'interno dell'Azienda-Italia.
FINANZA PUBBLICA
I cittadini risparmiano
e pagano. lo Stato spende e si indebita. La nostra propensione al
risparmio è, invero, molto alta (23-25% del reddito nazionale),
anche se il saldo fra risparmio privato e risparmio pubblico è
in netta e rapida diminuzione. Inoltre, gli investimenti fissi privati,
nel periodo 1980-84, sono crollati al 5,5% del Pil. Per contro, sono
saliti gli investimenti pubblici (9,6% del Pil), ma senza riuscire
a riequilibrare la situazione. In Italia, cioè, si investe
poco nonostante si continui a risparmiare. E il motivo c'è:
gli investimenti fissi sono stati sostituiti dalla spesa pubblica
corrente, da quella spesa che non pensa al domani e che non crea accumulazione.
L'aumento incontrollato della spesa pubblica improduttivo e la crescita
del disavanzo pubblico hanno fatto delle finanze statali la fonte
principale di squilibrio e un freno allo sviluppo della nostra economia.
Ma l'impellente necessità di correggere le leggi di spesa non
ha certo impedito che si continuasse ad adottare la politica del giorno
per giorno. La totale assenza di decisioni in politica economica,
verificatasi nel primo semestre del 1985, ha reso inutili i miglioramenti
di tendenza e la non facile azione di contenimento dello scorso anno.
Rimangono infatti inalterati nella loro gravità i problemi
di struttura della nostra spesa pubblica, dalla sanità alla
previdenza, dagli enti locali alle partecipazioni statali. I buchi
che ogni tanto si scoprono in questo o in quel settore sono, ciascuno,
sull'ordine dei quattro mila miliardi.
INPS
Il fabbisogno
statale per il 1985 era stato fissato a 96 mila miliardi. Ma la cifra
è salita a quasi 100 mila, causa il galoppante aumento del
disavanzo dell'inps, e rischia di crescere ulteriormente, se non si
pone un freno alla spesa sanitaria e a quella degli enti locali. Questo
significa che lo Stato preleva quasi il 50% della ricchezza nazionale
per finanziare enti pubblici in perenne deficit e che, puntualmente,
dissiperanno tale risorse con la loro gestione dissennata. L'inps,
soprattutto, è una grande spugna. Solo lo scorso anno erano
tutti ottimisti. Le previsioni per l'84 risultavano pienamente rispettate.
Nonostante le preoccupazioni della Banca d'Italia (i cui conti attestavano
che i soldi messi a disposizione dell'inps per l'84 non sarebbero
affatto bastati a coprire tutte le uscite), l'ente ribadiva che la
situazione era sotto controllo. Casi non è stato, evidentemente.
Le previsioni sono state improvvisamente disattese: incassati 1600
miliardi di contributi in meno, erogati 500 miliardi in più
alla Cassa Integrazione, ottenuti versamenti dalle imprese per un
ammontare inferiore a quello previsto di 800 miliardi. E la nuova
falla si è rivelata enorme: quasi 10 mila miliardi in soli
due anni di gestione. Falla che le finanze pubbliche saranno costrette
a coprire al più presto per non lasciare centinaio di italiani
senza pensione.
SANITA'
Il settore sanitario
merito un discorso un po' particolare. Sarebbe infatti un errore delinearne
il dissesto solamente sotto il profilo della spesa. Nel senso che
qui il contenimento della spesa non è l'unico obiettivo da
raggiungere. Nè il più importante.
Il problema delle cifre esiste, eccome: quest'anno la spesa sanitaria
si aggira intorno ai 36/40.000 miliardi; mentre per l'86 si prevede
raggiungerà quota 45.000. Una somma considerevole, se si pensa
al modo in cui questi miliardi vengono spesi.
Ma, come ho detto, il vero problema non riguarda tanto le dimensioni
che la spesa sanitaria ha raggiunto, quanto la sua capacità
di sfuggire ad adeguati controlli. Sprechi e degrado nelle prestazioni
non si contano più.
La crisi della Sanità ha un'origine ben precisa: alle 670 Usi
è stata negata la loro vera natura di imprese. E casi, invece
di essere affidate a managers e ad amministratori competenti, sono
state occupate dai partiti e da questi interamente lottizzate su scala
comunale e regionale. Ecco quindi spiegata la tanto "amara"
gestione. Le ricette, anziché sanare, son servite ad inasprire
le cose. Tutte guardano al contenimento (pur necessario) della spesa,
nessuna al "disservizio". Tutte cioé evitano, invece
di affrontare il problema di fondo (che è poi quello di aumentare
la funzionalità delle strutture, eliminando sprechi e corruzioni).
CASSA INTEGRAZIONE
Che dire poi di
quel meccanismo perverso che è la Cassa Integrazione? Qui la
confusione è totale: l'aiuto temporaneo si trasforma in garantismo
perenne, la previdenza divento sinonimo di assistenza. Qui lo Stato-mamma
si rivela in tutta la sua generosità e leggerezza.
La storia della Cassa Integrazione comincia nell'immediato dopoguerra.
L'istituto nasce per favorire le ristrutturazioni industriali e dare
nel contempo un'adeguata protezione ai lavoratori dipendenti. Le imprese
infatti non producono in modo costante, ma attraversano varie fasi,
caratterizzate da alti e bassi. Di conseguenza varia anche il fabbisogno
occupazionale. Ingiusto sarebbe però espellere o assumere mano
d'opera a secondo delle esigenze correnti. Ecco allora che interviene
la Cassa: un'assicurazione obbligatoria di indubbia validità.
Le imprese, in pratica, pagano all'Inps il 2,20% sulle retribuzioni
operaie. Si costituisce così, mediante apposita legge, una
gestione mutualistica che corrisponde al lavoratore temporaneamente
sospeso una quota della retribuzione. Una somma pari all'8% di queste
erogazioni grava sull'impresa. E' questa la Cassa Integrazione ordinaria:
una forma di mutuo soccorso che continua a funzionare, senza degenerazioni.
Il suo deficit non è consistente (circa 400 miliardi per l'85)
ed è comunque in progressiva diminuzione, poichè dipende
in gran parte dalla congiuntura economica.
Ma il discorso cambia totalmente quando si passa alla Cassa Integrazione
speciale. Qui cominciano le degenerazioni. L'istituto nasce nel 1968,
in seguito a radicali mutamenti sociali ed economici. Il suo fine
è in teoria giusto: dare elasticità a strutture troppo
rigide, facilitando così la ventata di cambiamenti in atto.
All'operaio viene corrisposto l'80% della retribuzione per tutte le
ore non lavorate e senza limiti di tempo (per la Cassa Integrazione
ordinaria, invece, il limite di applicazione era di tre mesi). Però
chi paga non è più l'impresa, ma lo Stato, tramite il
bilancio di un ente previdenziale: l'Inps. Ed ecco spiegata l'affannosa
rincorsa generale. Tutti possono, e quindi vogliono, avere.
L'impresa che deve espellere mano d'opera, pur sapendo di non poterla
più riassumere, preferisce ricorrere alla Cassa Integrazione
speciale. Tanto l'onere non è suo (non in via immediata, almeno).
La Cassa viene addirittura estesa agli operai di imprese fallite o
di imprese che, sorte per effettuare opere pubbliche, hanno chiuso
appena finiti i lavori.
Nel '75 viene modificata la Cassa Integrazione ordinaria, al fine
di riportarla in linea con i tempi: la quota da corrispondere ai lavoratori
sospesi sale anche qui all'80% della retribuzione, mentre il limite
di applicazione raggiunge le 52 settimane in un biennio. Ma il ritmo
con cui si verificano i cambiamenti della struttura produttiva supera
ogni previsione. E la Cassa Integrazione speciale resta la soluzione
preferita dalle imprese in difficoltà, sia per i minori limiti
operativi sia per l'assenza di costi immediati. Nel 1984 ci sono stati
più di 10 mila decreti di concessione o di proroga di concessione
di Cassa Integrazione speciale. Salgono di conseguenza le uscite.
Il deficit dell'Inps è enorme. Nel preventivo '85 supera i
16 mila miliardi. Da stime approssimate si deduce che la Cassa mantiene
circa 300 mila persone. Come ignorare che la maggior parte di questi
cassintegrati svolge un doppio lavoro (in nero, naturalmente)? Eppure,
a chi per un motivo e a chi per un altro, la situazione sembra vada
bene così. Proprio in un momento in cui lo Stato-mamma non
ha più ragione di esistere. Proprio quando necessita invece
investire per creare lavoro produttivo, imprese efficienti. Non viene
chiesta equità, ma privilegi particolari, mancando (è
incredibile!) la consapevolezza che tutto ciò che èottenuto
sotto forma di privilegi è stato precedentemente prelevato
dallo Stato sotto forma di tributi.
Ma c'è poco da stare allegri. Il problema dei lavoratori dichiarati
esuberanti dalle imprese sta diventando un'emergenza sociale.
Le imprese, abusando della Cassa, hanno delegittimato il sindacato
e preso in mano le redini del gioco (hanno imposto liste di eccedenti,
rifiutato il principio della rotazione). Ma hanno giocato male. Ed
ora confidano in una leggina che porti in tutte le aree di crisi il
prepensionamento a 50 anni.
Gli stessi abusi di Cassa hanno reso irreversibile il degrado della
professionalità degli eccedenti che, dopo anni di sospensione,
sono diventati definitivamente incollocabili. Quella tenda di ossigeno
che sembra essere la Cassa Integrazione "a zero ore" altro
non è che l'anticamera dell'espulsione definitiva.
SISTEMA FISCALE
I cittadini-contribuenti,
quindi, continuano a pagare e ad identificarsi con gli obiettivi della
spesa pubblica. la macchina mostruosa del sistema tributario italiano
lascia tutti indifferenti. Nessuno sembra infatti avere interesse
ad una vera riforma fiscale. Neanche i tartassarti, poiché
anche a loro il sistema riserva determinati privilegi. Inutile nascondere
allora che, se protesta non c'è, è soprattutto perché
in realtà nessuno vuole una drastica riduzione della spesa
pubblica, in quanto ciò significherebbe tagliare la spesa corrente
(salari e stipendi), nonché quella spesa destinata alle imprese
sotto forma di mutui, credito agevolato, fiscalizzazione di oneri
sociali. E' un discorso impostato male, ma a cui nessuno vuole rinunciare.
OCCUPAZIONE
Come spiegare
che gli eccessivi oneri fiscali danneggiano la vitalità della
nostra economia, impedendole una sana crescita? E come spiegare che
dall'inadeguata crescita economica dipende in gran parte il fenomeno
della disoccupazione?
Resta un'illusione l'obiettivo prefissato nel settembre scorso di
chiudere il 1985 con un crescita economica del 2,6%. E se già
in quell'ipotesi si prospettava un ulteriore aumento del tasso di
disoccupazione, con una crescita economica inferiore al previsto detto
saggio raggiungerà livelli ancora più alti. Eppure,
quando si parla di disoccupazione, tutti gridano allo scandalo. è
certo uno dei nostri mali più diffusi, ma altro non rappresenta
che l'effetto dei protrarsi di una situazione di ristagno economico
a cui tutti bene o male ci adattiamo. E i risultati si vedono. Sembrano
lontani gli entusiasmi che hanno caratterizzato il 1984. Ovunque si
colgono segnali d'allarme: la domanda interna (per consumi e investimenti)
continua a crescere a ritmi sempre più elevati, vanno male
i conti con l'estero, diminuisce la produzione industriale, l'inflazione
non si smuove dal livello raggiunto lo scorso dicembre.
Abbiamo detto che la pubblica amministrazione si è trasformata
in un luogo di sprechi e di corruzione. Altro che simbolico esempio
di efficienza ed equità: il modo in cui sono gestiti i fondi
pubblici ci porto lungi dal credere che si stia perseguendo una qualsiasi
politica a favore del l'occupazione. Insomma, esistono 2 milioni e
mezzo di disoccupati e c'è chi pensa ancora che il problema
possa essere risolto creando posti di lavoro a carico della collettività,
inutili economicamente. Per contro, si continuo ad investire solo
il 18% del reddito nazionale annuo. E si continuano a chiedere politiche
dei redditi che assegnino ai consumi individuali ed ai salari una
buona parte degli incrementi di produttività (quando sarebbe
necessario assegnare tutto la crescita della produttività al
finanziamento degli investimenti).
Ripetiamo: non è giusto. A nulla sembrano essere serviti i
miglioramenti strutturali realizzati negli ultimi anni dal nostro
apparato industriale. Tutto è reso vano dalle inefficienze
interne al nostro sistema. E l'industria italiana diventa sempre più
vulnerabile.
PROGETTO CONFINDUSTRIA
"Dietro una
politica miope si nasconde tutta la forza vitale della nazione. Una
forza che vuole e deve essere sfruttata". E' con questa convinzione
che la Confindustria ha presentato al Governo il suo documento di
politica economica. la paura degli imprenditori privati è quella
che Governo e Parlamento sciupino la fiducia ottenuta dal Paese e,
soprattutto, che perdano un'occasione propizia, forse unica, rappresentata
da una situazione politica ed economica internazionale più
stabile che in passato e da un potenziale recupero di produttività
da parte dell'industria italiana. Ecco perchè la Confindustria
si dichiara pronta a respingere qualsiasi proposta del Governo o del
Sindacato che abbia come fine "la semplice spartizione dell'esistente"
e non la crescita della base produttiva nazionale. Per gli imprenditori
privati, obiettivo prioritario resta l'elaborazione di un piano di
rientro della spesa e del disavanzo pubblico, che va necessariamente
accompagnato da un mutamento qualitativo sia delle entrate sia della
spesa pubblica. Ciò implica, sul versante delle entrate, l'impostazione
di una politica fiscale a sostegno della produzione, delle esportazioni,
del risparmio; e atta nel contempo a deprimere i consumi. L'attuale
politica favorisce nettamente l'imposizione diretta (che grava su
un numero sempre più ristretto di lavoratori e di imprese,
a scapito di ogni equità fiscale) rispetto a quella indiretta.
Un'inversione di tendenza (e dunque un graduale riequilibrio fra questi
due tipi di tassazione) avrebbe come effetto un rilevante alleggerimento
del peso fiscale sulle categorie a reddito fisso, restando sostanzialmente
invariato il livello della pressione fiscale. Contestualmente, è
necessario porre riparo agli effetti devastanti delle aliquote progressive
dell'irpef: una tassa implicito sul lavoro, direttamente proporzionale
alla crescita della produttività e professionalità.
Sul fronte della spesa, i mutamenti qualitativi si devono tradurre
in un drastico contenimento della spesa pubblica redistributiva, a
tutto vantaggio degli investimenti.
Principale area di investimento dev'essere il costo del lavoro, che
oggi rappresenta il 60% della spesa pubblica. Nel primo semestre '85
esso ha scontato gli effetti negativi della riduzione dell'orario,
nonché degli aumenti contrattuali e dell'operare dei vari automatismi;
ed ora cresce a ritmi anche superiori a quelli del costo della vita.
Diventa allora doveroso da parte dello Stato considerare la riduzione
dei fattori automatici di crescita del costo del lavoro (scala mobile,
anzianità, ... ); un'operazione indispensabile e improrogabile.
In contraddizione con le esigenze di rientro della spesa pubblica,
risultano essere gli aumenti indiscriminati delle assunzioni statali
nonché le proposte per l'introduzione di contratti di lavoro
part-time per i dipendenti già in servizio. Altra area di intervento
è il servizio del debito pubblico, il cui onere penalizza tutto
il sistema economico, tenendo alti la spesa corrente e il costo del
denaro, aumentando il potere d'acquisto nell'economia senza corrispettivi
di produzione. Progetti e programmi sono poi avanzati sulle tre grandi
aree di spesa: pensioni, sanità e finanze locali.
E questo un documento che affida al Governo precise responsabilità.
Inutile infatti tappare i buchi esistenti nel nostro sistema: sono
falle destinate inevitabilmente a riaprirsi e a dilatarsi. Di fronte
alla possibilità di avviare una manovra di risanamento tale
che consenta, nel breve termine, l'arresto del degrado economico e,
nel medio (allacciandosi a tempestivi provvedimenti strutturali),
la nascita delle condizioni ideali per lo sviluppo del sistema, le
paure (ipocrite) vanno superate. Poichè la posta in gioco è
troppo alta. Ma, è onesto ricordare, quello degli imprenditori
è anche un documento che ha scatenato aspre polemiche da parte
del sindacato sulla questione "costo del lavoro". Decenni
di lotte non hanno cancellato differenze e contrasti di interesse
tra padroni e operai. Dai sindacati la riduzione del salario viene
intesa come l'ennesima prepotenza di chi è, ormai da tempo,
il più forte. Una prepotenza che certo non sistemerà
le cose, poiché "non è il lavoro che costa troppo,
ma é il sistema di produzione e distribuzione della ricchezza
che è distorto... Solo negli USA il costo del lavoro per unità
di prodotto è più basso che da noi; mentre da noi è
alto il costo del fisco, dell'energia, del trasporti, della tecnologia
importata. Insomma, è lo Stato che non va ... ". In altre
parole, inutile prendersela con i più deboli.
Situazione complessa, in cui ogni giudizio può essere, a ragione,
facilmente contestato. Infatti, è vero che il costo del lavoro
è troppo alto per le imprese, ma è altrettanto vero
che il salario nella busta-paga è troppo basso per i lavoratori.
E questo paradosso sembra rendere inconciliabili le contrapposte esigenze
fra le due parti sociali. A nostro avviso, spetta al fiscal drag fare
il primo grande passo. Che non significa però scaricare sul
fisco colpe che sono di tutti. Ognuno ammetta i propri errori. Ad
ognuno servano di lezione. Occorrono compromessi, non prese di posizione.
Gli imprenditori sembra vogliano assumersi la loro parte di responsabilità.
Ora tocca al Governo assumersi le proprie. E al Paese il compito più
difficile: accettare la sfida che lo sviluppo impone, perdendo quei
privilegi a tutti tanto "cari". Particolarismi destinati
a cadere comunque, con la differenza che sarebbe troppo tardi per
poter ottenere un qualunque corrispettivo in cambio. Questo non vuoi
dire parteggiare per gli imprenditori contro i lavoratori, o per lo
Stato contro i suoi assistiti. Chi vuoi intendere intenda. E' tutta
questione di maturità.