LA "SIMBOLOGIA" SALENTINA NELLA POESIA DI GINO PISANO'




Pompeo Rainò



Rivive nella poesia di Gino Pisanò (1), in tutta la sua magia, il vecchio, incantato Salento; magia di colori, di suoni, di miti, di facce solcati dal duro, ed a volte ingrato, lavoro dei campi.

"offerte allo scirocco che castiga"

oppur dai venti salmastri che rovesciano le palpebre; quel Salento insomma che noi anziani abbiamo intensamente vissuto, nella religione dei padri.
Quel Salento dalla cultura spessa e composita, quale retaggio di civiltà lontane, alcune delle quali sepolte, come quella messapica, ma che l'Università di Lecce ed i Musei di Alezio e di Ugento nonchè le nobili iniziative di tanti Enti e studiosi stanno facendo rivivere, strappandola alle zone archeologiche, talchè reperti di passati e recenti scavi si possono ammirare in detti Musei ed in tutta la loro misteriosa eloquenza. Interessante a riguardo la "Necropoli" messapica di Alezio, non ancora del tutto scavato.
La vasta tematica, racchiusa nell'alma poësis del Pisanò, a volte, si estrinseca nel "simbolismo" inteso, epperò come cosa-segno (l'albero; il mare; la torre solitaria, immobile sentinella costiera sulla "grande paura") giammai come astrattezza o forma poetica fine a sè stessa.
Simbolo, insomma, come esigenza espressiva, alla stessa maniera del mondo greco, il "simbolikos" dell'Ellade antica o il "simbolicus" del mondo latino, vale a dire: realtà significativa, rapporto tra questa e l'assoluto, reso possibile dalla versatilità del poeta.
Ma perchè tutto ciò sia sentito, bisogna ritornare fanciulli, bisogna sentire il mondo circostante come l'abbiamo avvertito nella prima giovinezza, allorquando il colore ci sembrava sforzo della natura per diventare luce, secondo la visione dannunziana oppure il suono quale raccordo paradisiaco nella sinfonia del creato.

"Qui dove aprichi furono i miei giorni
un fanciullesco sbigottire mi assale:
voci sciamanti come frullo d'ale
a me intorno".

Così avvertito e concepito, il "simbolo", pur manifestandosi nei colori e nei suoni ineffabili, quali si colgono soltanto un questa incantata terra, diviene un mezzo, uno strumento d'informazione e di conoscenza; esso tende a far conoscere questo "Sallentum sapore di vita" come ha scritto Antonio Rossano; oppur "porto d'Italia" come è stato, autorevolmente, di recente affermato.
Vuole avvicinare anche genti lontane a questa antichissima aulica, terra, non ancora seriamente intaccata dalla lebbra del cemento, retaggio di tante dominazioni che si sono alternate, allettate da un cielo e da un mare ineguagliabili e dalla terra ubertosa, fremente di pampini ed ebbra di zagare.
E' la terra leucense, sulla quale approdò, secondo una inveterata tradizione, per la prima volta sul suolo italico, la civiltà cristiana (talchè l'attuale Santuario della Madonna di Finibus-Terre sorge proprio su un tempio pagano dedicato a Minerva) nella sua biblica conformazione suscitò, in una lucente giornata di Maggio, intorno all'anno 1950 (è un ricordo personale) all'allora Prefetto di Lecce dott. G. Migliore, che stava sulla tolda di una paranza, al largo nel viaggio inaugurale, una flotta di sentimenti, talchè precisò al Sindaco, Vincenzo Cantoro, eminente personaggio del luogo, che indicava, la punta più sporgente, quale luogo terminale d'Italia: "no, sig. Sindaco, Il inizia l'Italia".
E si rifaceva, quel grande Prefetto, uomo di Governo ma anche illuminato Umanista, alle civiltà del bacino Mediterraneo che, nei secoli, erano approdate allo punta Meliso (così come del resto la vede il Pisanò):

"Or tra brune e nuvole fluidanti
Ove radioso folgorava il sole
Amori e sogni, informe tu m'appari
Meliso Fosco"

Quella "punta", che secondo Donato Valli (2), nella "Introduzione al "Romanzo Salentino" di Luigi Corvaglia (3) dal titolo "Finibusterre" è "Centro e mito".
In un'epistola indirizzata a P. Antonio Chetry della Compagnia di Gesù, il Pisanò, nella profonda umiltà che lo caratterizza, dopo aver rilevato.

"Canteremo soltanto
piccole cose ….."
chiude i distici elegiaci con il verso
"a noi importa solo raccogliere vitalbe".

Ecco uno dei simboli dell'antica "animula Salentina"!
Le "Clematides" che danno il titolo all'opera poetica del Pisanò ed, in particolare, la clematidis vitalba, è una pianta oscura, trascurata, che cresce, spontanea, sui muri diruti dell'arsa compagno salentina (oh! il giallo-ocra dei campi leucensi, negli infuocati meriggi, quale si ammira nelle tele del primo Andrea Lia) o nei rari (oramai) boschi.
Essa, però, è tenace; resiste alle avversità atmosferiche o all'opera demolitrice dell'uomo; striscia, con i suoi robusti sarmenti, in cerca di sole, allo stesso offrendo il candore ed il profumo penetrante dei suoi fiori.
Sì, come l'uomo salentino; anch'esso si radica nell'avita terra; vive di poco, della sua stessa umiltà; è tenace, industre, operoso; aggredisce ogni giorno la roccia carsica, con lo "scasso" che gonfia le arterie, sullo sforzo immane e colma il vuoto con terra di riporto sulla quale coltiva primizie e, sul confine, il

"ficodindia abbarbicato al muro
......………..
segno del tempo, immobile, uguale
che a rompere la terra ci consuma,
fingendosi diverso nell'attesa".

Una siffatta geografia può essere ammirato, dall'attonito turista, percorrendo la meravigliosa litoranea adriatica, da

"Leuca la bianca. Un tempo antiche fole
ebbrezza assidue rincorrean divine
se lumeggiava fremiti estenuanti
fulva la luna"

Fino alla storica ed eroica Otranto.
Ma la vitalba si identifica anche con il poeta, secondo l'acuta intuizione e la prosa di Aldo De Bernart che ha, pur essa, barbagli di poesia.
Il Pisanò (si legge nella nota introduttiva del De Bernart) "come poeta cerca di superare l'uomo timido e schivo qual'è, vissuto, come vive, nella umiltà della sua persona, che a volte gli è d'ostacolo nella visione di più larghi orizzonti, ove la sua cultura, per dono di fortuna e d'intelligenza tutta classica e perciò stessa volta alle bellezze delle cose ed al fascino dell'antico, pur dovrebbe sospingerlo".
Ed al ficodindia,

"d'arcane latomie l'ulivo greco
contorto nello spasimo somiglia".

Qui l'identificazione fra uomo salentino e l'ulivo, albero biblico, simbolo della forza e della saggezza, è perfetta.
E questo l'albero che suscita i maggiori entusiasmi del poeta: solenne, argenteo, pacifico, nume tutelare delle contrade, domina, da secoli le valli opulenti; si arrampica, infaticabile, sugli ultimi contrafforti delle Murge, fino ad incontrarsi con lo Jonio azzurrissimo, come nelle tele del Sozzo, sul quale veleggiò la poesia di Omero e sul quale, nelle notti illune,

"vigila, (a notte) il faro che ci sfoglia";

sì, il monumentale faro di Santa Maria di Leuca.
L'ulivo greco, ma anche l'ulivo spagnolo, quello che si staglia, nella singolarità del disegno e nella chiarezza dei colori, nei quadri di Pino Danno (pur esso Salentino) oppur nelle tele del maestro Vincenzo Ciardo, riproducenti l'incomparabile, arcana, mitica campagna del "Vecchio Salento".
Ma il "simbolo" anzidetto è anche la nota dominante del mondo letterario di Luigi Corvaglia (4); anzi vi è, in questo Kosmos, la simbiosi, uomo-ulivo quasi tangibile (come nella plastica immagine delle mani del contadino salentino, contorte, dure, forti a similitudine delle radici della anzidetta pianta) ed una mitizzazione della trasfigurazione stessa.


Si legge a pag. 226 del ricordato Romanzo del Corvaglia: "La nascita dell'ulivo: tempi remoti. Un giorno le ninfe intrecciavano danze. Sopraggiunse Méliso pastore che aveva umore ridanciano e prese a dileggiarle con versacci. Le ninfe irritate gli si fecero intorno come vespe. Lo toccò la prima: Fatato!
Le ganasce si fecero rigide, legnose. Lo toccò la seconda, poi la terza, la quarta .....
Da tocco a tocco le gambe divennero radici, penetrarono nel terreno, il tronco morto, scorza dura, le bracce rame d'oleastro, ove l'anima restò prigioniera. Figli di Meliso furono i polloni dell'albero. Passarono molti anni. Una delle ninfe, impietosita, tolse la magia. Ma Meliso era già secco. Anche nella maggior parte degli oleastri suoi figlioli, l'anima s'era fatta legnosa e non poterono rinascere in forma di uomini.
I pochi che tornarono alla vita, non riacquistarono più l'abitudine del sorriso, così intima rimase in loro la natura dell'ulivo".
Ecco perchè il Corvaglia chiama i Salentini "ulivetani"; gens magna a finibus terrae.
Come annota Donato Valli nel l'introduzione (5), al predetto "Romanzo Salentino" il Corvaglia, nella lettera al Gabrieli datata 8.1.1932 (1° volume della "Corrispondenza" a pag. 256) spiegava l'emblematico titolo "Ulivetani": "per il senso dell'ulivo collistesano che ha vigilato e vigila entro questo senso diffuso di eternità e di effimero che circola nel sangue".
Nella poesia del Pisanò, l'ulivo non ha perduto questo senso religioso, sacrole, aleggiante verità mediterranee; così come non ha perduto l'emblematica essenza del mito propria dei Corvaglia; se mai vi è una riaffermazione del principio, proprio nella similitudine del "ficodindia" con l'ulivo greco allorquando si fa riferimento alle "arcane latomie" cioè le cave di pietra in cui gli antichi abitatori delle contrade facevano lavorare gli schiavi.
Ed il verso, nelle immagini parnassiane, si stempera nella leggiadria del sonetto "Incantesimo"

"Ove gli effluvi di campestre timo
salgono al cielo vivido ed alle stelle
dorme fra l'onde spumeggianti ed i lidi
forse un poeta"

E' l'epifania; finalmente il Pisanò, svestendosi di quell'umiltà che lo fascia, tanto da dargli una seconda natura, si riconosce poeta, anche se non disdegna il "forse" (che è la cosa più vera della vita).
Naturalmente poeta salentino; e nella salentinità letteraria, l'incontro tra il poeta ed il filosofo storico e narratore Corvaglia è possibile per "rappresentare... lo sfondo storico... (così B. Croce nella lettera del 30.10.1936 diretta al Corvaglia) di questa magica terra. In un'Ode dal titolo "Presso una torre costiera del XVI Secolo" il Pisanò dopo aver colto in quel rudere "Saraceno"

"Un presagio
a me d'assenze e solitaria fine"
ricorda quale fu nel tempo la funzione

"vedetta di vascelli dalle vele
nere di morte alla mia terra spoglia"
e più oltre
"nelle notti di luna presso i fuochi
............……….
Vociante fu la veglia di Soldati
in armi sopra il sonno dei pastori".

Ecco un "simbolo" eloquente e pregnante di questa tormentata terra salentina.
La "grande paura"; questo Salento, in particolare il Basso Salento, appetito e conteso nei secoli, è stato sempre oggetto di offese che hanno profondamente ferito lo stesso tessuto sociale.
La "grande paura" risale ai tempi lontanissimi, come si evince dai reperti custoditi nel Museo Comunale di Maglie (6).
Di poi, lungo il corso della storia, si sono avvicendate civiltà diverse e si sono avuti, anche in queste contrade, scontri armati fra i diversi popoli; [le guerre fra i Messapi, che hanno dato il nome a questa terra (Messapia = terra di mezzo, fra due mari) ed i popoli confinanti, specie la guerra con Taranto; le guerre fra Roma e Cartagine che hanno comportato, in queste contrade, il grande terrore di Annibale; le ritorsioni di Roma sulle città alleate del generale punico; Veretum (oggi Patù da pator); Ozan (la moderna Ugento ecc. ecc.); la travagliata storia della provincia di Lecce tra la caduta dell'Impero Romano nel 746 d.c. e l'avvento dei Normanni (primi decenni del XI sec.)].
Nel corso dei detti millenni, questa terra visse la paura della guerra grecogotica (535-553); di poi l'arrivo dei Longobardi (565) ed ancora la dominazione dei Carolingi.
Teatro di scontri frontali di eserciti in lotta, esso Salento fu devastato, impoverito, fiaccato in tutta la suo struttura; in epoche più recenti fu terrorizzato dalle incursioni soracene, turche, particolarmente feroce quella del 1480 che comportò l'assedio ed il saccheggio di Otranto, con il conseguente eccidio di ottocento cittadini, decapitati sul colle della Minerva. Nella Commemorazione dell'Episodio, da me fatta nel 1978, definii detta sublime città: le Termopili della Cristianità; del resto non si comprende Lepanto, senza il sacrificio dei Martiri d'Otranto.
E la "grande paura" vive nella poesia del Pisanò in un'Ode "Alla città di Gallipoli, nel V Centenario della sua espugnazione".
E nella guerra fra detta Città e la Serenissima, pochi anni dopo il Sacco di Otranto,

"le donne proruppero in gridi
assorte in pensieri di morte
e l'onde si fece di pietra,
Marcello ti era alle porte".

Gallipoli, Otranto, come Veretum, Ozan e tante altre città e tanti episodi di gloria e di morte; questo Sallentum che fa spuntare fiori vermigli e che ha visto

"l'onda si fece di pietra".

La donna salentina: è essa la protagonista della storia e della civiltà di questo nostro popolo antichissimo.
Costituzionalmente elevata ad una funzione di governo della famiglia nel periodo messapico, caratterizzato dal matriarcato, nel corso dei secoli, pur nelle sostanziali modifiche dell'Ordinamento Giuridico, che le hanno tolto siffatti diritti-doveri, relegandola ad una forma di soggezione al marito, la donna salentina, dalla bellezza incomparabile, dall'intelligenza viva e penetrante, dalla mitezza del carattere, ha sempre esercitato il suo duplice ruolo di sposa e di madre con grande senso di responsabilità ed amore.
E nei momenti critici per la vita della famiglia o consorzio sociale, ha lasciato la normale occupazione per dividere con il marito le fatiche, i rischi del particolare momento storico.
La poesia del Pisanò la coglie sui merli delle turrite difese di Gallipoli; ma pochi anni prima, nel 1480, le donne idruntine erano a fianco del marito nella difesa tanto eroica quanto disperata di Otranto.
Su detto esaltante episodio, vibranti sono le pagine di "Maria Corti" (7). E di poi il brigantaggio, che a volte si vestiva di ideologie politiche (8).
Così la "simbologia" salentina espressa dalla poesia del Pisanò; c'è da chiedersi se siffatti lirici contenuti hanno, in una società come questa, negatrice del mito e del simbolo, una ragion d'essere; un messaggio da offrire, una giustificazione della loro presenza.
La risposta non mi sembra incoraggiante; la società vive, come dice acutamente Ugo Spirito, una crisi di "valori" ed una crisi di "metodo".
Siffatta crisi trova, a mio giudizio, la sua profonda radice nel fatto che ci siamo allontanati da "valori" della nostra tradizione sotto la spinta di nuove ideologie; abbiamo rotto ogni legame con il passato, nel miraggio di nuove forme di vita.
All'antico "simbolo" abbiamo sostituito simboli ed immagini del tutto estranei alla nostra cultura; abbiamo perduto il contatto con la società dei padri.
Crisi di "valori" adunque; ma anche crisi di "metodo" e sotto questo aspetto il "simbolo" e del tutto bandito.
Se così è, non per questo la poesia del Pisanò perde di suggestione o di fascino; per quanti, come me, hanno creduto e credono ai "valori" tradizionali, essa rappresenta, oltre il richiamo a quel mondo nostalgico, il mondo della prima giovinezza, un patrimonio culturale inalienabile da consegnare alla storia dell'Uomo.
Ma rappresenta anche una speranza: che la società riapprodi a siffatte sicure sponde, dopo le esperienze che stiamo vivendo, esperienze non del tutto felici.


NOTE
1) GINO PISANO' è nato e Casarano (prov. di Lecce) il 26 giugno 1947. laureato in lettere classiche, è docente presso l'Istituto Magistrale di Casarano. Autore fra l'altro della raccolta di versi "Clematides" stampata da Congedo Editore Galatina 1984.
2) DONATO VALLI, Magnifico Rettore dell'Università di Lecce.
3) LUIGI CORVAGLIA, "Finibus terre", Congedo Editore, Galatina 1981.
4) LUIGI CORVAGLIA, op. cit.
5) Introduzione ut supra ricordata
6) In detto Museo di fama internazionale, si conservano fossili da circa 8 milioni di anni (Pliocene) sino all'età dei metalli (Oloceni). I reperti rappresentano fossili di carnivori e di erbivori sia di tipo caldo che di tipo freddo. L'uomo è sopravvissuto agli eventi climatici (glaciazioni ed interglaciazioni che hanno comportato ovviamente, ad uno scambio di fauna e flora) ed agli attacchi delle belve, particolarmente feroce di Machairodus, fornito da potentissime zanne; perchè maggiormente intelligente.
Per la paleontologia, i reperti rappresentano tutte le culture, del paleolitico inferiore (pleistocene) sino all'età dei metalli (olocene). I reperti olitici provengono, per la maggior parte, da stazioni del Basso Salento. Sono presenti anche reperti provenienti dall'Africa e dalla Francia.
7) MARIA CORTI, l'Ora di tutti.
8) Per una maggiore conoscenza di siffatto triste fenomeno vedi Luigi Tuccari, "Il Brigantaggio nelle Provincie Meridionali dopo l'Unità d'Italia (1861-1870)". Edizione promossa dal Centro Socio-Culturale "S. Ammirato" del Comune di Lecce, 1982.


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