Il tradizionale
appuntamento con la radiografia Svimez della condizione meridionale
oltre a raccogliere un compendio di risultati ancora in negativo,
è sembrato questa volta adagiarsi su una rassegnata visione
terzomondista della realtà presa in esame. E la conseguenza
dello smottamento progressivo del sistema socio-economico meridionale
spinto sempre più ai margini dei meccanismi di sviluppo imposti
dalla logica post-industriale. Conviene quindi soffermarsi sull'analisi
e sulle valutazioni fornite dalla Svimez ma ancor più conviene
concentrarsi sulle ipotesi di strategia economica che dovrebbero dotare
il Mezzogiorno di uno schema di sviluppo non divaricante nel contesto
generale del sistema.
Se il Sud si allontana progressivamente dal resto del Paese, oltre
a riconoscere che gli obiettivi di risanamento e sviluppo dell'area
acquistano valore pregiudiziale nell'avvio di una politica generale
di riordino strutturale occorre elaborare direttrici d'intervento
in tempi brevi dal momento che l'attuale situazione di stallo non
consente programmi con caratura idonea a rendere ipotizzabile la riduzione
del divario. Ciò vale sia sul fronte dell'intervento ordinario,
sia su quello dell'intervento straordinario che stenta ad assumere
veste organica nel contesto generale degli interventi finalizzati
ad obiettivi di sviluppo. Che non si tratti di una querula richiesta
ma di una necessità concreto emerge dai numerosi indicatori
disponibili. Alcuni fotogrammi sono sufficienti a delineare il quadro
critico d'assieme. Nell'84 il prodotto interno lordo è aumentato
in termini reali del 2,6% e gli investimenti sono cresciuti del 7,7%.
Al Sud invece si registrano incrementi pari rispettivamente all'1,7%
ed al 5,7%. Al Sud ancora si è fatto più ricorso alla
cassa integrazione con una quota degli occupati che versano in questa
situazione calcolata sul totale dei dipendenti dell'industria pari
all'11,5% contro il 9% del Centro-Nord. Anche il tasso di disoccupazione
è in aumento. Mentre al Nord è pari al 10,8% nel Sud
ha raggiunto il 15,7% (+0,5% rispetto all'83). Se a ciò si
aggiunge la nota incidenza della maggiore domanda di prima occupazione
presente nel Mezzogiorno si ha il senso e l'ampiezza delle considerazioni
economiche che spostano con accresciuto interesse l'angolo di osservazione
sulle regioni meridionali.
In sede di analisi si possono indicare almeno due temi di riflessione
con cui valutare l'accresciuto aumento del divario. Anzitutto l'inflazione
che in presenza di una economia dualistica determina inevitabili fenomeni
di arricchimento per i ceti forti coi conseguente impoverimento dei
ceti deboli. Questa iniqua distribuzione della ricchezza interessa
l'intero territorio e finisce per accentrare nelle aree meglio dotate
le forme d'investimento più rilevanti causando il progressivo
trasferimento di ricchezza dalle aree a più basso reddito verso
quelle a reddito più elevato.
Attenta considerazione merita inoltre quel complesso di istituti e
norme che si vanno articolando sotto l'etichetta di riforma dello
"Stato sociale" e che trovano punto di riferimento costante
nelle leggi finanziarie di fine anno.
Infatti i provvedimenti adottati con l'intento di superare gli squilibri
del bilancio pubblico devono essere in qualche modo finalizzati non
solo a ragioni di mero riordino contabile ma a strategie puntuali
di sviluppo. E poichè l'impegno per il superamento della condizione
dualistica dell'economia italiana ha sempre rappresentato un punto
fermo della volontà politica e non si vede come possa essere
conseguito con le sole forze di mercato, occorre prendere atto dell'anomalia
di tipo strutturale che penalizza l'intero sviluppo economico nazionale
e predisporre interventi con cui apportare correttivi a beneficio
delle aree deboli contestuali ai provvedimenti che vengono adottati
per il risanamento del bilancio dello Stato. Dai fattori di disturbo
citati emergono effetti negativi che si evidenziano nelle diseconomie
di localizzazione degli investimenti. le vicende del 1984 sottolineano
ad esempio che la ripresa degli investimenti produttivi (+ 11,7% nel
Centro Nord; + 7,3% nel Mezzogiorno) ha fatto segnare la maggiore
concentrazione nel Nord ed essendo destinati principalmente all'acquisto
di macchine ed attrezzature, risultano orientati verso l'aumento di
efficienza dell'apparato produttivo esistente. Sembra dunque non esservi
spazio per investimenti in nuove unità produttive. Ma se oltre
la riconversione non si persegue l'estensione della base produttiva
ogni indirizzo di politica meridionalistica è destinato al
naufragio. Quindi l'impegno a creare condizioni di convenienza per
la localizzazione nel Mezzogiorno di nuove iniziative deve avere carattere
prioritario nel contesto della strategia di governo del sistema. Iniziative
che dovrebbero nascere non solo sotto il segno dell'imprenditoria
nazionale ma anche di quella estera. Va sottolineato infatti che a
fronte di un accresciuto interesse internazionale per il nostro Paese
si è registrato un afflusso cospicuo di capitali esteri di
cui scarse tracce sono rilevabili nel Mezzogiorno. Questa circostanza
va evidenziata poichè non è pensabile di escludere il
Sud dal processo di internazionalizzazione in atto.
Il rapporto Svimez costituisce l'ultimo ma non l'unico grido d'allarme
sulla condizione meridionale. Ricordiamo tra le voci più autorevoli
e preoccupate quelle del Governatore della Banca d'Italia e del Presidente
del Consiglio. Tuttavia l'impegno per eliminare nel concreto i dislivelli
di produttività e predisporre infrastrutture funzionali per
la crescita industriale delle aree deboli implica una strategia complessa
se si vuole uno schema di sviluppo globale, che passa attraverso scelte
legislative ed amministrative necessariamente interrelate. Invece
si assiste ad una palese incongruità tra obiettivi e strategie;
mezzi e fini; impegni assunti ed esercizio quotidiano di governo e
di proposte. L'ultimo evento significativo è emblematico. Mentre
il meridionale imperfetto, per l'ansia atavica di dover convivere
con un destino precario e subalterno, tira un sospiro di sollievo
per i pallidi brandelli di speranza offerti con il varo del primo
piano triennale, il meridionalista distaccato ed attento al dinamico
evolversi delle regole che governano l'economia contemporanea deve
registrare in quei brandelli di speranza un momento di sconfitta,
un'altra testimonianza della sua solitaria presenza nel panorama politico
e culturale italiano. ti documento approvato dal Cipe non si discosta
dalla logica tradizionale seguita nella gestione dell'intervento straordinario.
Alla genericità degli obiettivi e dei contenuti si aggiunge
in negativo anche l'incertezza sui centri d'imputazione degli oneri
di finanziamento. Si attendeva su questo versante snellezza di procedure
e flessibilità di manovra; si raccolgono invece nuove offerte
di amorevole impegno disseminate lungo tracciati guidati da una stagnante
e granitica burocrazia.
C'è da chiedersi se il "verbo" meridionalista che
per il dopo - Cassa sollecitava una deregolamentazione normativa come
condizione preliminare per una nuova gestione dell'intervento straordinario
non sia ormai aria fritta da consumare solo nei cenacoli di un Sud
separato. Questa esperienza poco edificante implica nuovi impegni
di lavoro per quella razza di solitari soloni che tenta di promuovere
il decollo della realtà economica meridionale. Impegni colati
tutti nella cultura dell'impresa e del "buongoverno" e quindi
dialetticamente orientati a produrre occasioni dì riflessione
e di dialogo con il management del Nord ed i laboratori di decisioni
politiche. Per rimuovere anzitutto il sistema delle secche di una
geografia di potere che a tutti i livelli ha ritenuto di gestire la
questione meridionale con l'impegno prevalente se non esclusivo dell'intervento
straordinario. Perpetuare questa linea significa sancire il continuismo
della logica nordista nelle decisioni d'impresa e di governo.
Ma ciò conduce a tenere la crescita al passo di chi vuole occuparsi
dell'esistente, scrollandosi di dosso impegni di lavoro e strategie
dì risanamento di lungo periodo. Ai meridionalisti incombe
l'onere di un solido impegno in quest'ultima direzione al fine di
promuovere strumenti concreti per l'organizzazione di un possibile
mercato nazionale unitario. La provocazione va quindi indirizzata
lungo precise direttrici connesse alla gestione dell'intervento straordinario
che, al di là dei fattori dì efficienza e semplificazione
che pure reclama, deve comunque risultare interrelata con gli obiettivi
di una non più procrastinabile politica generale di risanamento
e di crescita nel cui contesto vanno situate le linee d'azione del
riequilibrio Nord-Sud. Ne consegue che l'analisi delle aree d'intervento
diventa più complessa rispetto al passato imponendo indagini
comparate e modelli econometrici non più circoscritti ad ipotesi
di "studio stanziale" che implicano di fatto l'isolamento
del sistema economico meridionale. Alla luce dei dati forniti dal
rapporto Svimez un quadro di sintesi delle direttrici lungo le quali
muovere con carattere prioritario il procedimento di riordino delle
strutture interne merita comunque di essere delineato in vista della
individuazione delle aree che si vogliono attrezzare con obiettivi
di sviluppo reale. Naturalmente occorre riconoscere che per una parte
estesa del territorio meridionale e per un periodo certo non breve
l'industrializzazione non potrà più fare affidamento
sui grandi impianti. Ciò non significa negare l'esigenza di
un'industrializzazione diffusa ma semplicemente riconoscere che questa
non si identifica solo con la localizzazione di impianti ma richiede
la nascita e la diffusione dì imprese. Impegno più difficile
da assolvere in un contesto ambientale non sviluppato secondo logiche
d'insediamento industriale. Di queste difficoltà sia il sistema
di incentivi finora praticato, sia quello disegnato per il futuro
non sembra tenere conto. Non è alla dimensione dei fattori
impegnati nella produzione o al loro rapporto dì combinazione
che possono imputarsi le difficoltà di sviluppo dell'impresa
nel Mezzogiorno. Esse attengono più direttamente alla natura
ed alla dimensione del suo mercato ed al ritmo con cui si esplica
il processo di riconversione e d'innovazione produttiva. Certo è
difficile immaginare come un sistema di incentivi, pur perfezionato
e snellito, possa compensare la carenza di condizioni ambientali idonee
che solo le regioni industrializzate possono offrire. Perciò
tra le opzioni possibili sembra opportuno avviare nell'immediato azioni
dirette allo sviluppo di servizi di supporto all'attività d'impresa
nelle principali città meridionali predisponendo metodiche
d'integrazione tra queste città e le grandi aree-mercato nazionali
ed europee e progetti di diffusione sul territorio circostante di
adeguate economie di urbanizzazione. Uno schema globale all'interno
del quale svolgere azioni coordinate dunque s'impone. la questione
urbana assume, più che nel passato, rilievo essenziale nell'assetto
dell'economia meridionale poichè l'auspicato sviluppo delle
imprese è condizionato dalla presenza nell'area di servizi
e funzioni ad esso complementari. Esigenza questa che nelle regioni
a forte industrializzazione è stata già spontaneamente
soddisfatta in parallelo con la crescita graduale dello spazio-mercato.
Sarebbe fondamentale sotto questo profilo lo sviluppo di programmi
triangolari (Regione - Università - Imprese) che in un primo
approccio potessero affidarsi ad una domanda di ricerca e di formazione
proveniente dal settore pubblico. Questa domanda potrebbe anche avere
dimensioni cospicue qualora si decidesse di realizzare programmi di
riorganizzazione delle strutture pubbliche in vista di un'efficiente
offerta dì servizi e più in generale di costituire strutture
atte ad utilizzare capacità tecnico-scientifiche e manageriali
necessarie per assolvere responsabilità di programmazione,
gestione e controllo che i processi di decentramento amministrativo
costantemente sollecitano. Questa ipotesi di lavoro, cara tra l'altro
a Saraceno, a Cafiero ed ai principali collaboratori della Svimez,
nel sollecitare la richiesta di coordinamento dei propositi di riforma
nei settori della casa, della sanità, della scuola, della ricerca
e dei trasporti con l'obiettivo programmatico dell'organizzazione
e dell'ampliamento del mercato meridionale giustamente propone stimoli
per l'unificazione economica del Paese più concreti rispetto
al modello di welfare state finora praticato. Se la logica assistenziale
che contraddistingue questo modello viene usata ancora nel futuro
non si potrà che consolidare il dualismo e dare risposte effimere
solo alle esigenze immediate di controllo della congiuntura.
Accettare l'obiettivo meridionalistico significa inoltre accettare
le conseguenze che ne derivano sul fronte di una politica industriale
necessariamente condizionata dalla questione occupazionale. Su questo
tema circolano due documenti autorevoli e di sicuro interesse: il
Rapporto Rebecchini, conclusivo dell'indagine conoscitiva condotta
dalla Commissione Industria del Senato, con cui si traccia una strategia
industriale per allentare il vincolo estero che condiziona lo sviluppo
economico italiano ed il Piano decennale per l'occupazione predisposto
dal Ministero del lavoro. Ognuno di questi documenti segue una logica
diversa ed in ciò è ravvisabile un primo limite del
poderoso lavoro svolto. Il Rapporto Rebecchini sottolinea in particolare
l'intreccio tra squilibri strutturali e sviluppo industriale e formula
proposte di transizione verso scenari in rapido mutamento che pur
apprezzabili in sè, lasciano tuttavia in ombra gli aspetti
sociali di una crescita industriale coordinata con le tematiche del
l'occupazione. Prospettare uno scenario di politica industriale in
senso meridionalista vuoi dire anzitutto bloccare gli effetti devastanti
della degenerazione delle università concepite come fabbriche
di titoli che creano aspettative di "status" proprie di
società stratificate e stagnanti. Per questa via viene immesso
sul mercato del lavoro un crescente numero di persone che per cultura
acquisita non sono disponibili al lavoro salariato e per istruzione
inidonea non sono utilizzabili per le carriere direttive. Si viene
così a creare un esercito di candidati al lavoro esecutivo
che finisce per premere sulle burocrazie pubbliche e parapubbliche
dando luogo a fenomeni di ampliamento di organi che accentuano proprio
quelle caratteristiche di pletoricità ed inefficienza che si
ritiene di dover superare in sede di riordino delle strutture amministrative.
Sarebbe invece di importanza decisiva, molto più che nel Nord
industrializzato, l'affermarsi di una istituzione universitaria concepita
come struttura di ricerca ed assistenza tecnica, sostanzialmente aperta
al collegamento con organismi ed operatori economici. Sotto questo
profilo torna in evidenza la problematica sulla questione urbana per
le connessioni che inevitabilmente si presentano con le esigenze di
un moderno sviluppo industriale. In quest'ottica vanno anche considerati
i problemi posti dalle condizioni di insediamento e di mobilità
territoriale in rapporto alle capacità di attrazione esercitato
dai maggiori bacini di manodopera.
In ordine alle proposte di politica industriale in senso proprio occorre
approfondire in sede preliminare le indagini sul livello e sulle potenzialità
d'industrializzazione presenti nelle diverse aree del Mezzogiorno,
tenendo conto che la localizzazione di imprese va sempre integrata
con interventi coordinati sul territorio.
Altro problema è poi quello di individuare i settori in cui
orientare la maggiore diffusione di attività imprenditoriali
e predisporre gli incentivi idonei per il loro insediamento operativo.
è difficile proporre un solo obiettivo come è difficile
ignorare la presenza di gruppi strategici e di aziende già
impegnate nei settori tradizionali (meccanico, tessile, manifatturiero).
Certo occorre guardare al di là dei fenomeni di ristrutturazione
in atto che interessano tanto il settore pubblico quanto quello privato,
partendo da un'analisi che tenga conto della competitività
complessiva dei sistema industriale. Proprio sulla base dell'evoluzione
più recente si può affermare che l'apparato industriale
risulta meno impegnato nei settori a tecnologia innovativo (microelettronica,
robotica, farmaceutica, chimica specialistica, biotecnologie) e sottodimensionato
per grado e qualità di internazionalizzazione. Inoltre la nascita
di nuove imprese avviene in prevalenza nei settori tradizionali a
differenza di esperienze estere (ad esempio negli USA) dove la componente
innovativa pone le imprese minori in prima fila nel promuovere il
mercato delle nuove tecnologie. Gli spazi che si aprono all'attività
d'impresa nel Mezzogiorno vanno quindi coniugati con queste esigenze
di generale potenziamento dell'apparato industriale.
Ma una politica di stimolo all'innovazione in aree non sviluppate
implica decisioni macroeconomiche che investono la sfera dell'impegno
finanziario, dell'organizzazione e localizzazione delle attività
di ricerca, delle relazioni industriali, nei rapporti Università-Industria,
della dimensione internazionale del mercato interessato ai prodotti
e servizi offerti.
Tuttavia se l'impegno nelle nuove tecnologie non diviene fattore aggregante
di una politica industriale per il Mezzogiorno sarà difficile
evitare la dispersione degli obiettivi e degli interventi. Sotto questo
profilo l'azione pubblica, sia con l'impegno ordinario, sia con l'impegno
straordinario, denuncia ritardi e forme d'intervento episodico e casuale
in netto contrasto con la gravità dei problemi che si vanno
accumulando. Emerge perciò la necessità di introdurre
nell'esercizio quotidiano della funzione decisionale, a qualunque
livello svolta, una forte aliquota di presenza meridionalista orientato
ad elaborare strategie di sviluppo di sicuro interesse generale. è
difficile in fondo immaginare per il Paese un destino diverso da quello
che si riuscirà a costruire per il Mezzogiorno.








