Negli anni Cinquanta,
gli uomini politici più intelligenti e sensibili potevano pensare
all'Europa unita come metodo per affrettare, e soprattutto completare,
il processo di ricostruzione delle macerie fisiche e morali della
guerra. L'industria, le imprese, dovevano pensare all'unità
europea: guardare, cioè, a mercati più vasti di quelli
nazionali, per realizzare economie di scala. Il rinnovamento e il
potenziamento delle maggiori unità produttive furono, così,
il motore di quel grande movimento di statisti illuminati, di uomini
di cultura, e di opinioni pubbliche che fecero crescere la Comunità
economica europea. L'Europa divenne uno dei cuori dello sviluppo mondiale.
Lo scenario è cambiato. Negli anni Settanta, mentre altri paesi
affrontavano con decisione e compattezza le contraddizioni della crisi,
l'Europa subiva la "terza rivoluzione industriale". L'onda
dell'innovazione tecnologica veniva accolta tra troppe diffidenze
e sospetti, divisioni e chiusure in un orgoglio più provinciale
che aristocratico. Al di là dei dati drammatici sulla disoccupazione,
sulle difficoltà della ripresa economica, sulla pressione di
un condizionamento pubblico che altrove ha imparato ad essere, invece,
ricerca e collaborazione per lo sviluppo, basterà rilevare
come negli anni Ottanta "l'indice di competitività tecnologica"
sia sceso allo 0,88 nei paesi europei, attestandosi negli Stati Uniti
sull'1,20 e salendo in Giappone all'1,41. L'Europa si guarda nelle
carte geografiche e si vede ancora al centro del mondo. In realtà,
la geografia dello sviluppo è cambiata, si è centrata
sul Pacifico e annuncia una "pacific Age" che, in certi
osservatori del nostro continente, non si capisce se generi più
allarme o più sufficienza annoiata.
Comunque, il commercio estero degli Stati Uniti con i paesi del Pacifico
ha superato, per la prima volta nel 1983, quello con l'Europa. America
e Giappone producono il 90% dell'elettronica mondiale, l'Europa non
arriva al 10%.
Sono un industriale europeo per convinzione e per mestiere. Penso
che le questioni dell'innovazione tecnologica debbano essere affrontate
in modo strettamente unito a quelle dell'Europa. Non vi è possibilità
di sviluppo senza un'Europa rinnovata. D'altronde, ritengo che l'Europa
non avrà futuro, politico ed economico, se non pone al centro
del suoi programmi l'innovazione.
L'industria europea ha ancora lo slancio che le ha consentito di espandersi
per due secoli: ha una forte e consolidata capacità di esportazione;
un alto livello culturale complessivo del capitale umano; un talento
nel recepire, trasformare e migliorare l'innovazione da dovunque essa
provenga. l'Europa potrebbe contare sull'alto risparmio delle famiglie,
che supera quello statunitense: se ci fossero strutture effettivamente
capaci di dirigerlo verso gli investimenti. Ma le potenzialità,
la voglia di cambiare, urtano contro la rigidità degli apparati
politico-istituzionali. Si ingrana la marcia indietro dei sussidi
alle industrie in crisi, mentre diminuiscono, almeno in percentuale,
gli incentivi alle industrie in espansione. Invertire questa tendenza
è, ovviamente, urgente e ora, forse, si incominciano a intravvedere
i sintomi di cambiamento. Mitterrand e Kohl, con l'iniziativa di abolire
le frontiere tra Francia e Germania Federale, avevano rimesso in movimento
una situazione stagnante e posto sulla bilancia il peso del foro avallo
politico al progetto che era stato di Altiero Spinelli, che, al di
là di alcune riserve, mirava a fare dell'Europa un corpo finalmente
capace di crescere. Il nuovo trattato d'Unione Europea ha previsto
un Parlamento con un potere legislativo reale, almeno in quelle questioni
che non riguardano la politica estera e la difesa comune. Esso può
permettere di superare le trattative fra governi, quando la lentezza
e la miopia di burocrazie e diplomazie tendono a fermare i disegni
più coraggiosi.
Per arrivare all'Europa che auspichiamo e di cui abbiamo bisogno,
servono molte "Europe". Si tratta di porre le basi per cose
durature; smettendo di esaurirsi nella ricerca di un minimo comun
denominatore. Dovrebbero essere rapidamente realizzate, dunque, almeno
quattro "Europe". La prima è quella della moneta.
La vitalità imprenditoriale ha fatto sorgere un vigoroso mercato
privato dell'Ecu, di fronte all'incapacità di governi e anche
di banche centrali di arrivare a un accordo. Occorre un minimo di
regolamentazione, perché questo mercato possa essere efficacemente
utilizzato. l'armonizzazione delle politiche economiche nazionali,
che deve fare da necessario supporto, rappresenterà il segno
evidente dell'unità. Un'altra Europa da costruire è
quella degli "standars": unificando le normative tecniche
sparse e differenziate che ciascun governo impone sulle merci in entrata;
che ricordano, grottescamente, antichi pedaggi medioevali. la terza
Europa è quella dell'istruzione: con l'unificazione dei programmi
e degli esami, il riconoscimento reciproco dei titoli di studio. Questo
anche per fermare la diaspora di talenti costretti a cercare valorizzazione
oltre Atlantico. Infine, una quarta Europa: quella delle procedure.
Ancora una volta, ci sono da superare differenziazioni vecchie, sedimentate
e assurde, che impongono per gli stessi atti amministrativi, nei diversi
paesi, procedure diverse.
