Ai loro tempi,
i Cartaginesi facevano scuola. Passando dalla Cirenaica, la Libia
attuale, riuscivano a far entrare in Egitto vini e tessuti, senza
pagare dazi ai gabellieri. I Romani, invece, erano specializzati in
un particolare tipo di contrabbando: quello degli schiavi, che importavano
clandestinamente, vestiti con la tunica bianca dei "cives",
sotto il naso degli ufficiali delle imposte. Nel Medio Evo, il sistema
feudale, irto di barriere doganali, offriva un terreno di coltura
ideale. Fin dal XIV secolo, bande di "falsi esattori" si
arricchivano a spese dei signorotti locali, incassando al loro posto
le somme dovute a titolo di imposta sul sale che essi trasportavano
illegalmente. Per non parlare di "falsi lebbrosi", i quali,
agitando i campanelli regolamentari, provocavano al loro passaggio
un fuggi-fuggi generale, a cominciare ovviamente dai doganieri.
Il contrabbando, l'evasione fiscale, la frode, il lavoro nero, in
generale tutte le attività economiche irregolari o vietate
dalla legge, sono antiche quanto le leggi stesse. Non c'è paese
al mondo o epoca della storia che non ne rechi qualche testimonianza.
Agli inizi del Seicento, un gentiluomo francese, Antoine Mauchretien,
in una lettera a Luigi XIII denunciava i traffici e le frodi che si
perpetravano ai danni dell'erario, specialmente sulle merci più
pregiate e gravate dalle maggiori imposte: "Rasi, velluti, taffetà,
indumenti di seta, ricami, filati d'oro e d'argento, e poi chiodi
di garofano, noce moscata, cannella, cocciniglia, eccetera. è
facile, per questi delinquenti, trovare delle case compiacenti, dove
nascondere le casse della merce, per poi trasportarle in città".
Si era ancora, se così si può dire, in una fase anarchica,
nella quale né la frode né la repressione obbedivano
a regole precise. Poi vennero tempi più duri per i fuorilegge
dell'economia. Sotto Colbert, gli ispettori delle dogane francesi
furono autorizzati a compiere perquisizioni e sequestri, e ad arrestare
le persone sospette. Un editto del 1726 puniva il contrabbando di
stoffe con un'ammenda di 200 libbre, e, in caso di recidiva, con la
galera da sei a nove anni. Il mancato pagamento dell'ammenda comportava
la fustigazione e l'applicazione del ferro rovente sulla spalla. Se
poi il contrabbandiere faceva uso delle armi, andava incontro al supplizio
della ruota e persino alla pena di morte. Queste sanzioni terribili
provocarono qualche defezione nelle file della malavita, qualche fenomeno
di pentitismo, ma non certo una resa generalizzata. Anche perché
ogni aumento dei dazi e delle gabelle ampliava i margini di redditività
delle importazioni clandestine.
Vietare o reprimere, il più delle volte, non serve, o è
addirittura controproducente. lo imparò a sue spese Napoleone,
il quale nel 1806, dopo Jena, decretò l'embargo sulle merci
importate dal l'Inghilterra. Fu una vera e propria epopea del contrabbando,
paragonabile a quella che si sarebbe scatenata, oltre un secolo più
tardi, nell'America del proibizionismo. La febbre del business illegale
si propagò rapidamente, da una sponda all'altra della Manica,
con la complicità di doganieri corrotti e con la tolleranza
interessata dello stesso governo francese, che si procurava in tal
modo le forniture per la guerra.
Si sarebbe tentati di dare ragione a quei liberisti che considerano
il contrabbando niente più che una sacrosanta valvola di sfogo
del mercato, in presenza di leggi restrittive e di barriere protezionistiche.
Alfred Sauvy non sposa una tesi così estrema, ma è abbastanza
spregiudicato da non scartarla a priori. Il punto centrale del suo
ultimo libro, Le travail noir et l'economie de demain, recentemente
edito in Francia, è che la rigidità, comunque intesa
(rigidità dei regimi doganali, dei mercati del lavoro, dei
cartelli industriali, del sistema previdenziale, e via dicendo), ha
il solo effetto di alimentare le attività clandestine, i circuiti
"non istituzionali" o apertamente devianti, di produzione
e di ricchezza. "Lavoro nero", per Sauvy, non significa
semplicemente il telaio a domicilio, la risuolatrice di scarpe nel
basso napoletano, o il ragazzino che aiuta a portare i secchi di calce
nei cantieri abusivi della Calabria. "Lavoro nero" è
tutto ciò che si svolge al di fuori dell'economia ufficiale,
e abbraccia una gamma di attività che va dalla criminalità
pura e semplice (contrabbandieri, falsari, trafficanti di droga) fino
ai taxisti abusivi e ai professionisti che non emettono fattura. Sauvy
esplora questa costellazione sterminata con la lente dello statistico
e con l'obiettivo grandangolare dello storico. Ci accompagna attraverso
i secoli e i continenti in un lungo giro nei sotterranei dell'economia,
ne illumina i risvolti e i recessi più segreti, li popola di
personaggi e di aneddoti curiosi.
Ovviamente, il confine tra lavoro "bianco" e lavoro "nero",
tra legalità e illegalità, varia a seconda dei climi
e dei momenti storici. Ci furono epoche nelle quali era fuori legge
il lavoro individuale, quando per fare l'orafo, il maniscalco o il
ciabattino occorreva iscriversi alle "gilde", alle corporazioni
di arti e mestieri, e chiunque lavorasse per conto proprio, senza
la direzione di un "maestro", al di fuori delle "botteghe"
con regolare licenza, veniva guardato con sospetto, e brutalmente
emarginato. Anche l'innovazione, a quei tempi, era considerata reato.
Agli inizi del Settecento, un tale, inventore di un laminatoio meccanico,
si trovò coalizzati contro i fabbricanti di piombo tradizionali
e perse la causa. In pieno secolo del lumi, le lobbies artigiane facevano
muro contro il progresso tecnico.
Sarà necessario attendere la rivoluzione francese, l'apoteosi
del dio Mercato, perché queste bardature vengano spazzate via.
Disgraziatamente, però, si cade nell'eccesso opposto: se prima
era "maledetto" il lavoro individuale, adesso lo diventa
quello collettivo. Per paura che le aborrite corporazioni rialzino
la testa, la legge le Chapelier del 1791 mette al bando ogni forma
di associazione: perfino le società di mutuo soccorso, unica
difesa dei disoccupati, in un'epoca nella quale non esistono indennità,
né previdenza sociale. Ma la lunga epopea del lavoro nero non
può finire certo sotto il tallone dei giacobini. Presto si
aprirà un nuovo capitolo, quello che Sauvy chiamo "l'epoca
dell'interventismo" statale nell'economia: cartelli industriali,
escalation del fisco, Welfare State e aumento del potere sindacale
ricreano condizioni favorevoli alle attività fraudolente e
clandestine.
Oggi, alle soglie del terzo millennio, il lavoro nero non conosce
frontiere. Adattabile e proteiforme, attecchisce su qualunque terreno,
a qualsiasi latitudine, si innesta negli interstizi di ogni sistema.
Nell'emisfero occidentale, la sua culla rimane l'Italia, patria dell'"economia
sommersa" (anche se, come osserva Sauvy, quello che distingue
il nostro paese è forse il fatto che qui il fenomeno è
"più visibile e più tollerato"). Ma sia pure
su scala minore, neppure la civilissima e ordinatissima Svezia fa
eccezione: un recente sondaggio ha rivelato che su 5,5 milioni di
svedesi adulti, un milione ha fatto ricorso, almeno una volta, alle
prestazioni di un lavoratore "clandestino", e 750 mila hanno
esercitato questo tipo di attività.
E che dire degli Stati Uniti, dove il volume dei traffici e della
produzione "in nero" raggiunge, secondo alcune stime, il
10 per cento del Pii, poco meno del livello italiano? Scrive George
Gilder, ideologo del reaganismo, nel suo Ricchezza e povertà:
"A dispetto di tutti gli sforzi per nasconderla, l'economia sotterranea
è oggi un effetto rilevante dell'inflazione fiscale. Essa assume
molteplici aspetti: dai taxi abusivi alle domestiche pagate in contanti,
ai trafficanti di drogo e alle prostitute; dalle doppie contabilità
e dagli inventari truccati all'impiego di lavoro minorile; dai trafficanti
di manodopera ai lavoratori in nero...". La commissione del taxi
di New York affermava, nel 1980, che i taxisti in regola con la licenza
perdevano denaro per ogni chilometro di strada. "E questo spiega
la continua lievitazione delle tariffe". Dopo aver conquistato
la Casa Bianca sull'onda della rivolta dei contribuenti americani,
Reagan non ha potuto fare a meno di promuovere guerra agli evasori,
i quali erano arrivati a sottrarre alle casse federali il 15 per cento
dei budget, e più di un terzo del gettito dell'imposta personale
sul reddito. Ma non è un'impresa facile, anche perché
gli States, soprattutto nelle grandi metropoli, sono disseminati di
"zone franche", di quartieri "selvaggi", che vivono
in pressoché completo isolamento, e dove prosperano le attività
clandestine e illegali. Più che di Harlem e di Chinatown, è
il caso di "Banana Street", nel Bronx, uno "slum"
popolato di negri e di portoricani. Sono le isole dell'economia underground,
che non conoscono bollette della luce, né cartelle delle tasse.
L'economia parallela, come si vede, non è una esclusiva italiana.
I segugi del professar De Rita, abituati a fiutare dopolavoristi e
fabbriche sommerse, troverebbero pane per i loro denti anche al di
là dell'Atlantico. Ma il vero paradiso del lavoro nero è
nell'altra metà del mondo, sotto le zampe dell'orso sovietico:
tra le ferree maglie della pianificazione burocratica, il mercato
illegale diventa il naturale polmone di un sistema economico che produce
penuria e inefficienza e non è in grado di soddisfare le esigenze
di consumo dei cittadini. Nei paesi socialisti, spiega Sauvy, sono
gli stessi funzionari pubblici ad arricchirsi con i traffici clandestini,
con il contrabbando di valuta o di merci e con l'affitto sottobanco
di immobili. E non c'è "purga" o polizia segreta
che possa sradicare questo malcostume, ormai così generalizzato
da rientrare a pieno titolo nella contabilità nazionale.
Si deve combattere il lavoro nero? Merita la pena tentare di farlo
diventare "bianco"? Tanto vale chiudere un occhio e lasciar
correre? Gli svantaggi del fenomeno sono noti, anche se a sentire
Sauvy e altri autori di storia economica si tende spesso a esagerarne
la portata: meno entrate fiscali, aggravamento del deficit pubblico,
meno fondi per le pensioni e per l'assistenza ai malati e ai poveri
... Ma non mancano neppure i vantaggi: più flessibilità,
costi più bassi, e quindi maggiore competitività nei
confronti dei concorrenti stranieri, dei coreani o dei giapponesi.
E comunque, dovendo scegliere tra nessun lavoro e un lavoro con meno
carichi fiscali, anche il più avido dei governi non può
avere dubbi. Il pieno impiego, ammoniscono gli osservatori più
attenti, non si ottiene con gli investimenti-miracolo, ma con interventi
più minuti, e più efficaci, di "bricolage"
sociale. I giovani disoccupati, ad esempio, respinti dalla grande
industria ormai robotizzata, potrebbero trovare sbocchi nell'artigianato,
nelle attività di riparazione e di manutenzione, a condizione
che il fisco rinunci alle fatture e alle ricevute fiscali: dopotutto,
qualche posto di lavoro in più vai bene qualche decina di miliardi
di Iva in meno. Sauvy, per esempio, ha in mente la situazione francese,
dove l'incidenza dell'evasione in questi settori è certamente
minore che in Italia. Il problema, però, è anche di
ordine morale: il maggior carico fiscale finisce sulle spalle di coloro
che hanno un reddito fisso, veri e propri cirenei dei nostri giorni.
Molti sono problemi superabili. Nei paesi occidentali, il lavoro nero
eseguito da manodopera nazionale rimane un fenomeno secondario, di
cui il potere riuscirà prima o poi a ridurre l'estensione,
a prezzo di qualche ammorbidimento della legislazione fiscale. Il
vero dramma del nostro tempo, il lavoro nero che deve farci veramente
paura, è quello degli altri, degli immigrati clandestini. Negli
Stati Uniti, da tre a sei milioni di persone (messicani, portoricani,
cubani) vivono in situazione illegale. Nella Germania Federale ci
sono un milione e mezzo di turchi da "integrare". le "banlieues"
parigine e gli stabilimenti della Citroën e della Talbot rigurgitano
di algerini destinati a pagare per primi il prezzo delle ristrutturazioni.
Perfino in Italia, da Reggio Emilia a Mazara dei Vallo, passando per
Roma e per Napoli, gli immigrati del Terzo e del Quarto Mondo entrano
nelle fonderie, si imbarcano sui pescherecci, coprono le mansioni
più pesanti e sgradite, sono disponibili a svolgere i lavori
e i compiti più umili.

L'ondata è appena agli inizi. La forbice della natalità,
tra paesi ricchi e paesi poveri, è destinata ad allargarsi
nei prossimi anni. Il Maghreb, dove già ora scarseggiano cibo
e acqua, avrà alla fine del secolo venturo 180 milioni di abitanti.
L'Algeria, che nel 1973 metteva al mondo 780 mila neonati, nel 1983
ne ha sfornati un milione, contro i 750 mila francesi che nello stesso
anno hanno emesso il primo vagito. I Turchi, che hanno un reddito
pro capite pari a un settimo di quello del tedescofederali, si moltiplicano
a un ritmo tre volte superiore. La "bomba demografica" ticchetta
sinistramente sotto i piedi della vecchia Europa, pronto per esplodere,
e i governi non sembrano darsene pensiero.
"L'Europa pensa a tutto, tranne che alla vita", dice Sauvy.
Ma il risveglio potrebbe essere traumatico. "Incapace di assicurare
la propria difesa, anche se il suo Pii è superiore a quello
dei suoi avversari, incapace di dare lavoro ai giovani, anche se i
bisogni insoddisfatti sono immensi, esso subisce di anno in anno l'effetto,
sottovalutato se non ignorato, dell'invecchiamento ( ... ) Bisognerà
pure, un giorno o l'altro, tornare a pensare alla gioventù,
non foss'altro che per essere in grado di pagare le folli pensioni
promesse a un popolo stanco. Per questo, ci sono solo due vie: i nostri
figli, o quelli degli altri". Il più trascurato, e il
più rischioso dei "lavori neri" è proprio
la riproduzione. "Gli europei continuano a pensare che si troveranno
sempre, in qualche parte del mondo, dei poveri diavoli ben felici
di accettare i lavori più vili, compreso il concepimento di
figli". Ma fino a quando potrà durare "questo nuovo
sistema di sfruttamento coloniale"? Fino a quando questi clandestini
subiranno senza ribellarsi? è tempo di rifletter su. E seriamente.