Durante la prima
metà dell'800, il Mezzogiorno resta un paese sostanzialmente
agricolo. Nulla che possa far pensare ad un concreto processo di sviluppo
industriale. In questo senso, il divario con il Nord è già
notevole. lì anche l'agricoltura è a base capitalistica,
quindi caratterizzata da moderne attrezzature e da una rapida espansione.
Il Sud, invece, continua a vivere in una fase intermedia, di passaggio
tra il regime feudale, chiuso e arretrato, e il nuovo sistema, con
le sue leggi progressiste e liberiste. Abbiamo visto che, con il "decennio
francese", la feudalità viene ufficialmente abolita. Questo
e altri provvedimenti adottati dai francesi (soppressione della manomorta
ecclesiastica e dei poteri giurisdizionali dei nobili, liberalizzazione
delle terre) hanno permesso alla nuova classe della borghesia terriera
di prendere in mano le redini del gioco. Su questo ceto emergente
sono rivolte le speranze di rinnovamento. Invece, i cosiddetti "galantuomini"
non fanno che ereditare il comportamento degli ex-aristocratici. loro
unica preoccupazione: giungere alla direzione politica del proprio
paese, in modo da assicurarsi maggiori libertà civili e costituzionali.
Essi continuano così ad ignorare lo stato di immane miseria
in cui versano i contadini, che nelle province costituiscono il 90%
della popolazione attiva, e quello un po' meno disastrato, ma sempre
al limite della sopravvivenza, in cui versa il giovane ceto operaio.
All'inizio del "decennio", mentre i prezzi aumentano, il
livello dei salari agricoli è ancora quello praticato a metà
Settecento. le uniche eccezioni riguardano la paga giornaliera del
"caporale di puta" e dello "zappatore". Solo successivamente
le retribuzioni dei "giornalieri di campagna" subiscono
lievi aumenti, tali, comunque, da compensare minimamente l'aumento
del costo della vita. Rifacendoci ai dati forniti per le province
continentali del Regno delle Due Sicilie da Domenica Demarco, nella
sua opera Il crollo del Regno delle Due Sicilie, e ai dati forniti
da Lorenzo Palumbo nei suoi studi sulla Terra di Bari, abbiamo potuto
costruire il grafico (che compare nella pagina successiva) sull'andamento
dei salari nella prima metà dell'800. L'eversione della feudalità
doveva essere il primo fondamentale passo verso una più equa
distribuzione delle terre. Questo nelle intenzioni del legislatore.
Si riteneva, infatti, che prima dell'eversione non esistesse proprietà
privata, dato che tutte le terre erano in possesso dei feudatari,
degli enti ecclesiastici e delle Università. In realtà,
a metà del'700, il numero dei "mendici" era molto
basso, in quanto la maggior, parte dei contadini possedeva un pezzo
di terra e tutti, rurali e civili, erano proprietari della casa in
cui vivevano. Certo si trattava di beni aventi un valore esiguo e
insufficienti ad assicurare alle masse i mezzi per sopravvivere. Ma
i contadini potevano contare anche sugli "usi civici", cui
erano assoggettate le proprietà dei baroni e del clero (pascolo,
legnatico, semina, spigolatura, ecc.). L'abolizione della feudalità
ha fatto sì che cambiassero i padroni, ma nessun contributo
ha dato al miglioramento dei rapporti tra proprietario e contadino.
Nella sua inchiesta sulla Sicilia del 1876, Sidney Sonnino scriverà:
"Nelle relazioni tra il contadino e il proprietario molto è
rimasto ancora dei contenuti feudali.

Quella che era
stata fino allora potenza legale rimase come potenza, o prepotenza,
di fatto; il contadino, dichiarato cittadino dalla legge, rimase servo
e oppresso. Il latifondista restò sempre barone, e non soltanto
di nome: e nel sentimento generale la posizione generale del proprietario
di fronte al contadino restò quella di feudatario di fronte
a vassallo. Vi è poi la classe della borghesia, non molto numerosa,
e là, come dappertutto, avida di guadagno e imitatrice della
classe aristocratica soltanto nelle sue stolte vanità e nella
sua smania di prepotenza". Il latifondo, dunque, lungi dall'essere
stato distrutto, è nelle mani degli ex-baroni e del nuovo ceto
borghese, che lo amministrano secondo le tradizionali forme di gestione.
Mentre le masse rurali, non potendo più usufruire degli "usi
civici", sono costrette a vendere la propria terra e la propria
casa a usurai senza scrupoli, e ad assoggettarsi ai nuovi padroni
in condizioni di disumano sfruttamento. Questi ultimi, infatti, continuano
a dare le terre in affitto o a colonìa, e a far gravare sui
coltivatori tutti i rischi connessi con la produzione. Attorno alla
"masseria", azienda tipica della grande e media borghesia,
vi è un proliferare di forme di piccola conduzione precaria.
lo scarso rendimento della terra, che da queste forme deriva, è
più che compensato dai canoni altissimi che i contadini sono
disposti a pagare. Grazie al lavoro di un immenso numero di piccoli
e medi coloni e di fittavoli, si assiste ad una radicale trasformazione
di migliaia di ettari di terreno, fino ad allora rimasti incolti ovvero
adibiti a pascolo o a seminativo, in vigneti, in oliveti, in mandorleti.
Con riferimento alla Puglia, e particolarmente alla Terra di Bari,
il De Cesare scriverà nel 1859: "Volgete uno sguardo alla
valle dell'Ofanto presso Canosa, alle pianure di Monte Carafa presso
Andria, alle campagne di Minervino, Spinazzola, Corato, Ruvo, Barletta,
Trani e dell'intero distretto barese, e voi vedrete milioni di viti
piantate da cinque anni in qua, migliaia di ulivi e mandorli, e infinite
altre piante da frutto" (De Cesare C., Delle condizioni economiche
e morali delle classi agricole nelle tre province di Puglia, Napoli
1859). Si tratta di terre che, dopo 10-15 anni, dovranno essere restituite
ai loro proprietari e nessun compenso sarà dato a coloro che
le hanno rese fertili in tutto questo tempo. Ma la "smania di
dissodare" e le profonde trasformazioni che ne sono seguite modificano
il rapporto esistente tra agricoltura e pastorizia. Le greggi trovano
sempre meno superfici su cui pascolare. Nascono nuovi soprusi da parte
dei ricchi proprietari. Essi hanno bisogno di altre terre per sfamare
l'accresciuto patrimonio zootecnico. E raggiungono il loro scopo appropriandosi
degli appezzamenti destinati ai meno abbienti. Così, la decretata
divisione del demanio comunale fra i contadini bisognosi non avrà
mai luogo.
Quelle terre, grazie alla corruzione di molti amministratori comunali,
saranno usurpate dai nuovi padroni e a nulla serviranno le lunghe
e costose vertenze giudiziarie, con le quali le masse cercheranno
di far valere i propri diritti. L'appropriazione illecita delle terre
viene attuata dapprima richiedendo e ottenendo in enfiteusi o in locazione
esigue parti di una data proprietà demaniale, e poi estendendo
arbitrariamente il possesso sull'intero appezzamento. E poiché
"possesso vale titolo" fino a prova contraria, queste terre
restano chiuse anche agli "usi civici". D'altra parte, di
rado il Consiglio di Intendenza, a cui spetta di decidere in proposito,
si pronuncia a favore del Comune ingannato. Inoltre, senza la sentenza
definitiva non può essere richiesta la restituzione di quanto
è stato illecitamente sottratto. E la procedura giudiziaria
è articolata in modo da protrarre senza limite la vertenza.
La legge èdunque, di fatto, dalla parte dell'usurpatore, e
lo protegge anche nei rari casi di decisioni definitive, consentendogli,
a mezzo di cavilli, di conservare il possesso sul demanio. La reazione
dei contadini è spesso violenta. Ma le rivolte vengono subito
soppresse dalle forze dell'ordine. Scrive l'ambasciatore austriaco
al Metternich nel 1847: "In tutto il Regno di Napoli è
un profondo malcontento derivato dal fatto che le riforme promesse
sin dal 1820 non sono mai state attuate ed accresciuto dallo stato
deplorevole in cui versa l'amministrazione del paese. Ovunque, dai
ministeri agli uffici periferici, è arbitrio e corruzione.
In questo paese, in cui le masse popolari vivono nella più
nera miseria, nessun concreto tentativo per migliorarne le condizioni
è stato fatto dal potere centrale, né dai ceti più
elevati ... " (testo tratto da T. Pedìo, Classi e popolo
nel Mezzogiorno d'Italia alla vigilia del 1848, ED. LEVANTE, Bari).
Le terre invase dalle masse sono restituite agli usurpatori. I veri
motivi delle proteste popolari vengono costantemente ignorati. E celati
dietro una facciata di innocente equità. Nelle campagne si
vive bene, perché le attività agricole sono tali da
assicurare un'occupazione a quasi tutti i contadini. Se agitazioni
vi sono è perché le masse sono strumentalizzate da elementi
anti-liberali. Questa la verità ufficiale. Di fatto, fino alla
metà dell'800, le condizioni di vita del contadini sono ancora
a livello bestiale. Scrive F. Petruccelli nel 1848 su Mondo Vecchio
e Mondo Nuovo:
"Sopra giacigli di paglia, senza coverture, madre, figliuoli,
padre, tutti agglomerati, tutti ristretti pel freddo, i vincoli della
natura negligono, il pudore non curano, si abbandonano ad istinti
pervertiti e, prima di imparare a pregare, imparano a disperare ...
Non temono che i tirannelli, i quali succhiano loro fin il miserrimo
frutto della mercede che all'operaio si deve" ... Questi tirannelli
"comprano e sviano la giustizia, la cosa pubblica a loro modo
amministrano, si dividono i demani, si sgravano di balzelli e le rendite
del Comune ingoiano ... e lasciano ingoiare da funzionari più
alti" (T. Pedìo, op. cit. Classi e popolo nel Mezzogiorno).
Ripetiamo: questo quadro economico-sociale profondamente iniquo consente
il mantenimento di una società agricola di impronta patriarcale
e tradizionalista, arroccata sulle antiche posizioni feudali, restìa
ad aprirsi ad uno sviluppo di tipo capitalistico, e quindi tagliata
fuori dal processo di rinnovamento con il quale il Nord e gran parte
dell'Europa stanno cambiando pelle. Su questa situazione poco possono
influire gli insediamenti industriali avviati grazie soprattutto al
capitale svizzero-tedesco. Si tratta di impianti isolati, come i cantieri
metalmeccanici del Napoletano e le aziende tessili del Casertano e
del Salernitano, che, pur protetti da alte tariffe doganali, non riescono,
da soli, a smuovere le acque della stagnante arretratezza meridionale.
Il sistema di comunicazioni è addirittura inesistente. Le uniche
strade sono quelle che permettono al re Borbone di raggiungere dalla
capitale le varie residenze reali.
Nel 1848, un nuovo evento alimenta le speranze delle masse contadine:
la promulgazione della Costituzione. Convinto che il nuovo regime
sia dalla sua parte nella revindica delle terre usurpate, e che l'azione
diretta sia il modo più efficace per ottenere ciò che
ad esso appartiene, il popolo è ora sempre più violento
nei suoi moti di protesta, che diventano magmatici movimenti di lotta
contro i ceti possidenti. Si intensificano così le invasioni
delle terre. In questa azione, ai contadini si aggregano spesso preti,
sindaci, notai, anche molte guardie nazionali, che dovrebbero, invece,
difendere gli interessi degli usurpatori, nonché numerosi elementi
democratici, desiderosi di rovesciare il regime liberale. Intanto,
dalla capitale, giovani provenienti dalla media e piccola borghesia
tornano nei paesi natali con la speranza di poter godere delle libertà
sancite dalla Costituzione. Nella provincia, però, la classe
dirigente non accenna a fare concessioni, convinta che ad essa sola
siano diretti i benefici derivanti dal nuovo Atto. Ciò provoca
una profonda rottura all'interno del movimento liberale tra moderati
neoguelfisti ed elementi radicali, di rango inferiore ai primi. A
questi ultimi la Costituzione ammette l'ingresso nelle fila del movimento
liberale; ma, di fatto, essi vengono rifiutati dalla vecchia classe
dirigente, che li vede come individui subalterni, perché, appunto,
di estrazione medio-piccolo borghese. Questo rifiuto spinge tali soggetti
ad appoggiare i loro oppositori nella lotta contro i massimi esponenti
liberali. Al contrario di questi ultimi, infatti, non avendo usurpato
terre, essi non hanno alcun interesse a porsi contro i contadini.
Anzi. Con il loro sostegno possono sperare di prendere il posto degli
attuali dirigenti. Va osservato che anche fra gli stessi moderati
non mancano motivi di contrasto. Questo perché non tutti hanno
defraudato i contadini. E, in effetti, solo questi ultimi li temono
e non intendono muovere un dito in loro favore. Gli altri comprendono
che schierarsi contro le masse vuoi dire lasciare che esse siano manovrate
dalle forze conservatrici, che aspirano a restaurare l'assolutismo
borbonico. Ma il fatto che anche elementi moderati simpatizzino per
i moti popolari suscita preoccupazioni da parte del potere costituito.
Non sono in ballo solo le sorti della ricca borghesia; è l'intero
sistema che rischia di crollare. Con l'inasprirsi delle agitazioni,
i dirigenti moderati riescono a convincere quei liberali simpatizzanti
per le lotte contadine che le richieste popolari certo avrebbero avuto
gravi ripercussioni anche sulla situazione della piccola e media borghesia.
In questo modo, i contadini restano isolati, mentre nuove promesse
vengono fatte al popolo dal potere centrale. Il 22 aprile del '48,
il ministro Conforti emana una circolare con la quale condanna la
violenza delle classi rurali, ma, al tempo stesso, sollecita la quotizzazione
delle terre del demanio. Tuttavia, il popolo non desiste dalla sua
azione. Si sente solo e defraudato. L'esperienza gli ha insegnato
che la legge non è mai dalla sua parte e che le promesse restano
tali se le acque tornano ad essere tranquille.
Il regime politico instauratosi con l'Unità d'Italia si dimostra
altamente oligarchico. A seguito della legge elettorale del 17 dicembre
1860, il numero dei deputati eleggibili scende da settecento a quattrocento.
In questo modo, il Mezzogiorno rimane poco rappresentato, in linea
con le intenzioni del Cavour, che ora può contare su una larga
maggioranza. Infatti, dei 443 deputati nominati nella prima elezione,
solo 80 sono garibaldini. Con il nuovo Stato, non muta l'atteggiamento
profondamente discriminatorio assunto dal potere centrale nei confronti
del Sud, il quale sconta pure le conseguenze derivanti dall'estensione
a tutte le regioni della legislazione piemontese. Effetti particolarmente
negativi si hanno sul piano della politica doganale e del sistema
fiscale. Il crollo dei dazi protettivi, che fino ad allora hanno sostenuto
la pur sporadica attività industriale, lascia l'industria meridionale
impotente rispetto alla concorrenza delle aree più sviluppate.
Inoltre, l'adozione del "free trade" trova nel Sud un'agricoltura
ancora incatenata nella morsa di rapporti agrari e sociali altamente
arretrati. E' un vincolo troppo saldo, che rende minimi i vantaggi
connessi con la liberalizzazione degli scambi. Nello stesso tempo,
aumenta a dismisura la pressione tributaria sulle campagne, sia perché
il nuovo Stato si accolla le spese belliche del Piemonte sia perché
servono enormi stanziamenti per finanziare la costruzione di una ricca
rete di ferrovie. è la cosiddetta "follia ferroviaria",
appoggiata vivamente dalla borghesia industriale.
Intanto, l'esasperazione delle masse, venute meno le speranze che
l'avanzata garibaldina aveva acceso in loro e sconfortate di fronte
alla miope politica del moderati, che funzionalizzano tutto alla conservazione
della proprietà, esplode nel "brigantaggio": una
forma di protesta sociale che, come abbiamo visto, ha origini antiche.
Intriso di un fanatismo religioso che affonda le sue radici nella
superstizione e strumentalizzato dai propositi restauratori del sovrano
spodestato, il brigantaggio si delinea come un fenomeno ambiguo e
pieno di ferocia folle e omicida. Ma una cosa è certa: la follia
nasce spesso dalla disperazione.
E disperate sono queste decine di migliaia di reietti, cui tutto è
stato tolto e tanto è stato promesso. A dirla con il Fortunato,
il brigantaggio rappresenta "l'ultimo atto del dramma",
l'ultimo atto, cioè, della questione agraria, "lugubre
storia, che soltanto nei suoi primi venti mesi ... numera mille fucilati,
duemila cinquecento morti in conflitto, poco meno che tremila condannati
al carcere o alle galere!". D'accordo pure Pasquale Villari quando
dice: "Il brigantaggio può dirsi la conseguenza di una
questione agraria e sociale, che travaglia quasi tutte le province
meridionali". Così anche il Racioppi, che nel 1860-61
dirige la repressione del brigantaggio lucano. Egli, pur considerando
il movimento come "un'associazione di ladri, malandrini e di
contumaci alle leve, consociati e speranzati dai partiti vinti dinastici",
allo stesso tempo vede in esso la voce di un "perturbamento profondo
nelle intime viscere della società", "gli umori guasti
del corpo sociale". Ma nonostante gli ammonimenti di pochi illuminati,
l'incomprensione storica del brigantaggio da parte del governo unitario
non accenna a diminuire. Del complesso di cause che hanno scatenato
il fenomeno, la più sottovalutata, eppure la più importante,
è proprio la crisi sociale. Al governo, infatti, fa comodo
porre l'accento sulla vasta opera di strumentalizzazione delle masse
svolta dal re borbone e dal clero, quale unico veromotivo del dilagare
violento delle guerriglie.
Non possiamo negare che, accanto al brigantaggio nostrano, spontaneo
e di portata limitata, esiste un vero e proprio movimento controrivoluzionario,
il cosiddetto "brigantaggio politico": il partito legittimista,
che dopo il crollo dei Borboni sopravvive a Roma grazie alla protezione
del Vaticano e della Francia, spera, attraverso l'azione di queste
milizie popolari, di giungere ad una restaurazione del vecchio regime
con a capo Francesco li. A questo scopo, fa giungere ai rivoltosi
aiuti in armi e in denaro e addirittura invia da Marsiglia dirigenti
militari con l'incarico di guidare i vari movimenti rivoluzionari.
Nella loro opera, le forze borboniche trovano l'appoggio di un popolo
meridionale traumatizzato dall'esperienza unitaria, il quale dimostra
di preferire di gran lunga le poche certezze che ad esso assicurava
il vecchio regime. Un ruolo primario nell'opera di persuasione delle
masse esercita la Chiesa, rimasta fedele ai Borboni, e che molta influenza
ha sugli strati più miseri della società. Nonostante
ciò, il brigantaggio non sarà mai completamente imbrigliato
nelle mire del partito restauratore, non diverrà mai il suo
"braccio armato". Il miraggio delle terre in mano al popolo
travalica ogni forma di calcolo politico. la belva umana si scatena.
Quale organizzazione in questa follia omicida, in questa voglia di
distruzione fine a se stessa? Poco può la Guardia Nazionale
di fronte a tanta ferocia. Solo l'Esercito riesce a fronteggiare il
brigantaggio, attraverso un duro sistema di repressione che arriva
a colpire tutti coloro che sono sospettati di proteggere le bande.
Viene dichiarato lo stato d'assedio e vengono sospese le libertà
civili e politiche. All'inizio i risultati sono scarsi. Nelle guerriglie
i briganti riescono a tener testa all'Esercito. Ma, purtroppo essi
cominciano a colpire indiscriminatamente chiunque abbia la sventura
di capitare sul loro cammino. I contadini sono terrorizzati sia dalle
persecuzioni delle forze armate, che spesso fanno strage di innocenti
sia dalla cieca azione di questi rivoltosi, che certo non agiscono
più nell'interesse della povera gente, trasformati ormai come
sono in criminali senza meta, dediti solo al furto e al saccheggio.
Anche i borbonici li abbandonano, non potendo trarre da essi più
alcun vantaggio. Nel 1870, il brigantaggio viene definitivamente soppresso.
Una guerra che allo Stato unitario è venuta a costare più
di tutte le guerre del Risorgimento messe insieme. Sulle ceneri delle
rivolte migliaia di voci gridano giustizia. Sono le voci di un popolo
per il quale nulla è cambiato, e che nella fame e nella miseria
ritrova il suo eterno tormento.
Il nuovo Stato si rivela impotente nella sua opera di egemonizzazione
del Mezzogiorno. le forze oligarchiche delle Luogotenenze rendono
questa terra impenetrabile. Si succedono le inchieste. Illuminate
appaiono quelle di Leopoldo Franchetti e di Sidney Sonnino. Nell'Inchiesta
in Sicilia del 1876, Sonnino scrive: "L'abolizione di diritto
del sistema feudale non produsse nessuna rivoluzione sociale, appunto
perché i feudi furono lasciati in libera proprietà agli
antichi baroni: onde al legame tra il coltivatore e il suolo che prima
era costituito dalla stessa servitù feudale, non si sostituì
come altrove l'altro vincolo della proprietà, ma invece quel
legame fu semplicemente rotto, e il contadino si trovò libero
in diritto, senza doveri ma anche senza diritti, e quindi ridotto
di fatto a maggiore schiavitù di prima, per effetto della propria
miseria". Sonnino conclude il suo pensiero ritenendo che solo
con una modifica dei rapporti agrari si può giungere ad una
soluzione della questione contadina e meridionale. Purtroppo, la linea
d'azione concreta proposta dall'intellettuale, ponendo attenzione
solo sulle clausole più inique che legano i contadini ai proprietari,
appare incompleta, non bastevole a creare un nuovo modello di vita.
Né il Sonnino nella sua azione parlamentare si impegnerà
mai per giungere ad una concreta incriminazione del regime vessatorio
meridionale. Di lui ci resta una viva denuncia contro l'arbitrio che
si perpetua nel Sud, e un aperto rimprovero verso l'impotenza dell'autorità
statale. Egli scrive infatti: "Colle nostre istituzioni modellate
spesso sopra un formalismo liberale anziché informate a un
vero spirito di libertà, noi abbiamo fornito un mezzo alla
classe opprimente per meglio rivestire di forme legali l'oppressione
di fatto che già prima esisteva, col l'accaparrarsi tutti i
poteri mediante l'uso e l'abuso della forza che tutta era ed è
in mano sua; ed ora le prestiamo man forte per assicurarla che a qualunque
eccesso spinga la sua oppressione, noi non permetteremo alcuna specie
di reazione illegale, mentre di reazione legale non ve ne può
essere, poiché la legalità l'ha in mano la classe che
domina". lo stesso Villari, guardando alle esperienze che in
quegli anni le grandi potenze europee stanno vivendo, lancia un ammonimento,
ritenendo "necessaria una cosa: che la classe la quale ha adesso
in mano la forza si persuada che essa deve governare a vantaggio non
solo proprio, ma anche degli altri, assai più che non ha fatto
finora. Se vuole conservarsi i mezzi di dirigere e moderare il movimento,
cui non potrà opporsi alla lunga, è necessario che si
preoccupi degli interessi diversi dai suoi ... ". Pur con le
sue limitazioni, l'inchiesta di Sonnino viene fortemente contrastata
dai grandi proprietari, e l'ammonimento di Villari viene ignorato.
l'attuale struttura sociale nelle campagne deve rimanere un punto
fermo. I problemi dell'agricoltura meridionale sono da ricercarsi
altrove, e soprattutto nello scarso afflusso di capitali nel Sud.
Gli anni '80 sono scossi da una profonda crisi agraria, che si manifesta
a livello europeo in corrispondenza della "grande depressione"
del periodo 1873-96. In Italia, dal '77 all'87, l'indice dei prezzi
agricoli cade da 122 a 98. Lo sviluppo del sistema ferroviario e della
navigazione ha aperto il mercato nazionale alla concorrenza straniera.
Il grano nostrano viene sostituito da quello prodotto in America a
costi bassissimi. La crisi provoca una deviazione dei capitali prima
investiti in agricoltura verso operazioni speculative e verso l'industria.
Lo spostamento della centralità su quest'ultimo settore porta
l'Italia ad allinearsi al modello di sviluppo delle altre potenze
mondiali. Favorisce questo processo l'adozione di una politica altamente
protezionistica. Naturalmente, la crescente industrializzazione si
concentra nelle aree settentrionali che hanno seguito già da
tempo una politica di sviluppo in senso capitalistico e che maggiori
contatti hanno con i mercati esteri. Mentre l'adozione del dazio sul
grano è volta a risollevare dalla crisi solo un certo settore
del l'agricoltura: quello cerealicolo, molto diffuso al Nord e fonte
primaria di reddito dei grandi proprietari meridionali; scontano gli
effetti negativi del protezionismo le colture di esportazione, in
particolare la viticoltura, estesa soprattutto nelle Puglie. Ma non
meno gravi sono le condizioni dell'olivicoltura. Scriverà Francesco
Barbagaglio in Mezzogiorno e Questione Meridionale (1860-1980): "La
tariffa protezionistica si definiva ... come stimolo a I l'industrializzazione
settentrionale e come estrema difesa dell'ordinamento prevalentemente
latifondistico e della conduzione prevalentemente assenteista dell'agricoltura
meridionale. Così lo sviluppo industriale del Nord si fondava
sulla persistente arretratezza del Sud ... Il rafforzamento della
proprietà terriera e la stasi del tradizionale assetto nelle
campagne era dunque il corrispettivo nel Sud dell'accelerata espansione
capitalistica nell'industria e nell'agricoltura settentrionale".
E ancora, alle "forze del capitalismo agrario e industriale del
Nord ... andava la direzione politica dello Stato e la guida economica
dello sviluppo capitalistico; ... alle rappresentanze meridionali
della proprietà terriera rimaneva la garanzia della sopravvivenza
negli arretrati equilibri di una società... congelata nelle
precise regole del dominio, sociale e politico". Questa sorta
di alleanza tra Nord e Sud, attuata dai rispettivi detentori del potere,
e che si fonda sull'interdipendenza tra i due differenti tipi di economia,
allontana definitivamente la possibilità di uno sviluppo uniforme
del paese e rende il dualismo in atto una condizione essenziale per
la sopravvivenza delle forze in gioco.
(fine seconda
parte)