§ Banca d'Italia e inflazione

Stabilizzare le aspettative




F. A.



E' dal 1984 che la Banca d'Italia predetermina e annuncia un obiettivo di crescita della quantità di moneta. Volendo mantenere l'espansione della moneta in linea con la crescita del reddito a prezzi correnti, in presenza di una più rapida crescita del debito pubblico, ne è risultata la necessità di un aumento molto maggiore del portafoglio di titoli pubblici dei risparmiatori. Come Ciampi ha precisato nell'audizione al Senato, nel 1988 si richiederà un "aumento del debito pubblico tenuto dai risparmiatori a un tasso pressoché doppio di quello del reddito nazionale".Sono praticamente le stesse parole che Ciampi aveva usato nell'audizione dell'anno precedente. Non ci interessa, in questa sede, accertare come mai il mondo politico se ne sia accorto in questa occasione, più che negli anni precedenti. Meglio tardi che mai. Resta il fatto che un problema nuovo si pone per l'88, ed è costituito dalla possibilità che vi sia un aumento dell'inflazione. E quali sarebbero le conseguenze? E perché la Banca d'Italia se ne preoccupa tanto?
A prima vista, può stupire che tanto dibattito, e tante polemiche, vengano dedicati alla questione dell'inflazione nel 1988: se essa risulterà del 4,5%, come è obiettivo del governo, o del 5,5%, come in media risulta da quanto indicato dai principali istituti di previsione. In un passato non lontano, l'atteggiamento prevalente del sistema politico (e degli economisti) nei confronti dell'inflazione era stato tutto sommato di "benign neglect". L'inflazione è stata per dieci anni oltre il 15% annuo, con punte oltre il 20%, senza che ciò suscitasse dibattiti tanto accesi come in questi ultimi tempi. E' davvero possibile che anche in Italia si sia ormai determinata una situazione alla tedesca, che vede la riduzione dell'inflazione assumere priorità su ogni altro obiettivo?
In realtà, c'è un passo di quanto Ciampi ha detto al Senato che chiarisce i termini del problema: "Solo ricostituendo attese di rallentamento dell'inflazione può essere superato il conflitto tra una politica monetaria rivolta alla stabilità e le esigenze, pressanti, di finanziamento del fabbisogno e di gestione del debito pubblico". Il riferimento è alla situazione del 1988, ma ci deve far riflettere soprattutto sulla situazione degli anni scorsi.
Negli ultimi cinque anni, che cosa ha infatti consentito al settore pubblico di raddoppiare il suo debito, senza incontrare un limite stringente nella disponibilità dei risparmiatori a domandare i titoli emessi? La ragione principale è data dal fatto che nel frattempo si andava riducendo l'inflazione e prevalevano aspettative di ulteriore rallentamento dell'inflazione. L'acquisto di titoli pubblici non comportava quindi rischi di svalutazione del capitale investito, ma, al contrario, vi era la possibilità di realizzare guadagni di capitale (in proporzione alla durata dei titoli), a mano a mano che si riducevano i tassi d'interesse. L'allungamento della scadenza del debito ed il frequente presentarsi di eccesso di domanda all'emissione di titoli a lunga testimoniano l'importanza della riduzione corrente e attesa dell'inflazione nell'agevolare l'indebitamento del settore pubblico. E confermano l'effetto positivo che ciò ha avuto nel consentire la decelerazione della crescita della moneta.
Era peraltro facilmente prevedibile che questa situazione non potesse durare per sempre: prima o poi, la riduzione dell'inflazione sarebbe terminata e anche le aspettative di un'ulteriore discesa dell'inflazione si sarebbero annullate. Ciò si è già verificato, nel corso del 1987. In tutti i Paesi, l'anno scorso, l'inflazione ha cessato di ridursi e vi è già stato un qualche rimbalzo. Nel caso dell'Italia, il contraccolpo sul mercato dei titoli pubblici si è da tempo registrato: la domanda di titoli originata da attese di guadagni di capitale è scomparsa nove-dodici mesi fa, sostituita dall'opposta tendenza a vendere titoli nel timore di realizzare perdite. In effetti, si può sostenere che gli attuali rendimenti dei titoli pubblici già incorporino la previsione di un'inflazione più elevata di quella recente. E se questo è vero, ne risultano due conseguenze.
La prima è che il successivo verificarsi dell'evento atteso non dovrebbe più produrre ulteriori effetti: se i rendimenti dei titoli sono già allineati ad una previsione di inflazione del 5,5%, quando questa inflazione si manifesterò, confermando quelle previsioni, non si dovrebbe verificare un ulteriore aumento dei tassi. Anzi, se l'aumento dell'inflazione risulterà solo da un gradino una tantum, legato all'aumento delle imposte indirette, la successiva decelerazione dell'inflazione favorirà di nuovo una riduzione dei tassi.
La seconda considerazione riguarda invece la possibilità o il rischio che l'attuale dibattito serva a diffondere aspettative più pessimistiche sulla futura evoluzione dell'inflazione: in tal caso, resterebbero attese di ulteriori aumenti dei tassi d'interesse e quindi difficoltà per l'emissione di nuovi titoli pubblici. In presenza di attese di inflazione crescente, il massimo che si riesce ad emettere sono Bot a 3/6 mesi, e l'eventuale allungamento delle scadenze del debito può essere ottenuto solo con titoli che abbiano un'effettiva indicizzazione ai prezzi. Se le autorità monetarie sono convinte che il più di inflazione sarà solo una tantum, e che sbaglia chi prevede l'avvio di un nuovo ciclo di inflazione crescente, possono contrastare queste aspettative e ridurre il costo dell'indebitamento emettendo titoli indicizzati ai prezzi.
L'esigenza sottolineata dalla Banca d'Italia di garantire un'ampia e stabile domanda di titoli pubblici da parte dei risparmiatori richiede in conclusione un insieme di misure, la cui influenza sulle aspettative deve essere attentamente valutata.
L'impegno a contenere il fabbisogno, cioè l'emissione di nuovi titoli, è importante; come lo è l'impegno ad evitare una ripresa dell'inflazione. Ed è interesse congiunto del Tesoro e della Banca d'Italia garantire che la domanda di titoli del debito pubblico sia la più stabile possibile. Il Tesoro, perché altrimenti ne pagherebbe il costo in termini di maggiori interessi; la Banca d'Italia, perché rischierebbe di perdere il controllo degli aggregati monetari. Tesoro e Istituto centrale di emissione hanno fatto bene a spiegare al Parlamento i rischi che si corrono, se la manovra per il contenuto del fabbisogno viene ostacolata o messa in forse. Dopo tutto, è questo un Parlamento che può avere un orizzonte sufficiente per non dover inseguire in modo miope la popolarità di ogni decisione: se il risanamento della finanza pubblica non viene avviato ora, ben più difficile sarà fra qualche anno, all'avvicinarsi di nuove elezioni.
Ma, soprattutto, Tesoro e Banca d'Italia hanno un interesse congiunto ad evitare un'eccessiva drammatizzazione dei problemi del debito pubblico. Già nel gennaio '83 si è visto come il Parlamento, in pochi minuti e senza alcuna adeguata riflessione, abbia risolto il problema: imponendo alla Banca d'Italia un'anticipazione straordinaria al Tesoro. Poiché nessuno auspica che ciò si ripeta, è opportuno garantire la stabilità del sistema, e in primo luogo è indispensabile stabilizzare le aspettative. E valga anche una lezione del recentissimo passato. Se le polemiche sull'ora di religione non hanno messo in crisi la fede dei cattolici, le polemiche sul debito pubblico sono potenzialmente più pericolose, perché rischiano di incrinare la fiducia dei risparmiatori.

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000