§ Il grande crack

20 ottobre '29: fine di un mito




M. C. Milo



Gli Stati Uniti d'America erano l'America tout court. E l'America scoppiava di salute. Herbert Hoover ebbe persino l'imprudenza di dire: "La prosperità è all'angolo della strada". Era diventato presidente nel 1929, a cinquantaquattro anni, aggiudicandosi quaranta States. Sprizzava ottimismo da tutti i pori. I suoi connazionali lo ricordavano quando aveva diretto con un'efficienza impareggiabile l'approvvigionamento del Paese durante il primo conflitto mondiale. Si presentò alla cerimonia di insediamento alla presidenza in marzo con baldanza: "Non ho paura per il futuro del nostro Paese. E' luminoso di speranza".
Gli americani notarono subito che aveva portato l'efficienza alla Casa Bianca. Nella prima settimana fece rimuovere le vecchie lampade a olio e la carta da parati. Nella seconda fece piazzare un telefono sulla sua scrivania: gli altri presidenti erano sempre andati a telefonare nella stanza accanto. "Con me", disse Hoover, "l'american way of life non corre pericoli". Promise ai connazionali inebriati: "Vi farò tutti ricchi". Negli anni precedenti, ogni americano si era fatto l'automobile; ora il magnate del motore, Chrysler, proclamava che era giunta l'ora di procurare a ciascuno un'auto di lusso.
Diceva John Raskob, miliardario e presidente della Generai Motors: "Ognuno dovrebbe essere ricco. Non arrivarci oggi è colpevole. la fortuna è alla portata di tutti. Basta investire quindici dollari ogni mese in Borsa ed essi in vent'anni, per il gioco dei dividendi, portano un capitale di ottantamila dollari". Infatti, i titolari di redditi modesti erano guardati con sospetto. Chi non aveva un buon lavoro per elevarsi, poteva pur sempre ricorrere alla lotteria nazionale: la Borsa. Questa era diventata un pozzo di San Patrizio. Nel maggio 1929, un'inchiesta ordinata da Hoover permise di appurare che diciassette milioni di cittadini americani giocavano in Borsa. La maggior parte erano, diceva l'inchiesta, "investitori nuovi, piccoli ignoranti". Compravano azioni non per risparmiare, ma per arricchirsi. La stampa era la loro droga: dava enorme risalto a storie di gente che aveva investito quattromila dollari e se ne era ritrovati in tasca centocinquantamila. Proclamavano i fogli finanziari: "E' il 1929, e tutto va bene". La grande immoralità di fondo fu che tutti potevano giocare in Borsa.
La ruota della fortuna aveva girato con opulenza e aveva permesso di collaudare i ben oliati congegni della prosperità americana. Lo Stock Exchange, la Borsa, si rivelava veramente la versione novecentesca e capitalistica della celeberrima corsa all'oro della metà dell'Ottocento. Il numero delle azioni scambiate alla Borsa di New York saltò da 449 milioni nel 1926 a 576 nel 1927, a 920 nel 1928, a un miliardo e 124 milioni nel 1929. Ogni impiegato poteva giocare a fare il finanziere, cimentandosi in una specie di gioco dei Monopoli per nulla rischioso. Tutto quello che aveva da fare, era sollevare la cornetta del telefono e chiamare l'agente di cambio. Questi Dulcamara del dollaro nel 1920 prestarono un miliardo; nel 1927, tre miliardi e mezzo; nel 1929 superarono i sei miliardi.
Qualche pessimista osò dire che sarebbe bastato un granello di sabbia nell'ingranaggio e l'intera macchina surriscaldata sarebbe andata a pezzi. Ma perché sarebbe dovuto accadere? Crepasse l'astrologo! America la Magnifica, come l'aveva battezzata F. Scott Fitzgerald, alzò le spalle. Il 18 marzo arrivò un ammonimento. Lo dette un banchiere, Paul Warburg, presidente dell'International Acceptance Bank, l'uomo che molti nel mondo della finanza consideravano il più competente in fatto di titoli e di monete.
La Borsa, disse Warburg, è sospesa a precipizio su una roccia che strapiomba su un mare in tempesta. Perché gli agenti di cambio non cercano di puntellarla? Fu chiesto. Semplice, rispose Warburg: perché gli agenti sono eccellenti clienti delle banche, e le banche hanno interesse a chiudere un occhio sulla situazione. La risposta degli agenti fu irosa: perché Warburg cerca di romperci le uova nel paniere? E' un ottobre ventoso e carico di paure. L'allarme all'America lo da, come accade da anni, Chicago. Un gangster ha gettato una bomba nell'ufficio di un agente di cambio. Se i rackets si sono accorti che la Borsa non è più l'eldorado, significa che la situazione è grave. Da parecchi giorni proliferano le vendite in un clima di nervosismo. E' arrivata l'ora del mercato dell'Orso, il ribasso. Si chiama così, dice la leggenda, perché al tempo dei pionieri uno speculatore cercò di vendere la pelle di un orso prima di averlo ucciso, e i creditori vennero a vedere il suo bluff, rovinandolo.


Alle dieci in punto di giovedì 24 ottobre 1929 suona il gong che annuncia l'apertura delle contrattazioni alla Borsa di New York. La prima transazione vede cedere 6.000 azioni della Montgomery Ward a ottantatre dollari l'una: il loro prezzo per tutto il 1929 si era aggirato sui centocinquanta dollari. Un fremito di terrore passa nel recinto.
Alcuni uomini cercano di scongiurare il giorno del giudizio. Al ventesimo piano del grattacielo di Wall Street 23, di fronte alla Borsa, nell'ufficio della direzione della Banca J.P. Morgan, sei titani della finanza americana si sono dati convegno in extremis per prendere misure d'emergenza. Presiede Thomas W. Lamont, il cervello della Banca Morgan. Parla a scatti, con la lingua che gli si inceppa. E a tratti abbandona la scrivania di mogano, per incollarsi al vetro della finestra e gettare lo sguardo in basso, sulla folla che sembra impazzita. Lamont è conosciuto per la sua fredda energia di generale del dollaro: "L'obiettivo essenziale del momento è ristabilire la fiducia. Faremo fronte tutti insieme. Acquisteremo per tenere alto il mercato. Per il dollaro costruiremo l'equivalente di ciò che fu per i francesi, durante la guerra, la linea della Marna. Gli speculatori e gli affamatori non dovranno passare".
Gli altri lo ascoltano con l'occhio spento. Sono vecchie volpi che dalle assi sconnesse di un bastimento per emigranti si sono innalzate a un Walhalla di dei dell'oro. Adesso hanno paura: guardano con orrore da quel ventesimo piano, come se temessero che stia per diventare la loro Rupe Tarpea. Il povero nell'ora del disastro sfodera le sue naturali difese; il ricco è patetico. Con un tremito che scuote le rughine della bocca, i titani urlano e discutono per novanta minuti. Poi decidono di varare l'Operazione Cuscino: manderanno un loro uomo a comprare azioni, per sostenere il mercato.
E' l'una e trenta dell'interminabile giornata. Richard F. Whitney, chiamato "il cavaliere bianco di Wall Street", agente di cambio e vicepresidente della Borsa, esce dall'edificio della Banca Morgan. Si fa largo tra la folla ed entra nello Stock Exchange, dove l'atmosfera è veramente quella delle trincee della Marna.


Il macello è continuato per tutta la mattina. Il terrore è corso lungo gli stucchi dorati della hall di marmo grigio. Faccia a faccia, lungo i diciannove sportelli della Borsa, è mancato poco che agenti di cambio e clienti si prendessero a pugni. Il quadro elettrico all'altezza del primo piano, sul quale sono scritte le quotazioni, sembra la mappa di una battaglia. I continui ribassi equivalgono a postazioni perdute. Ogni volta che un valore precipita, dalla folla si alzano voci di disorientamento, grida di rabbia. Si sbriciolano fortune, si polverizzano vite: molti non troveranno la forza di andare a casa, la sera, a raccontare ai familiari che i risparmi di un'esistenza sono stati ingoiati dal vento. I loro cadaveri finiranno per coprire l'antica pista dei bisonti.
Quattro lampadine sul muro lampeggiano senza interruzione. Vi appaiono dei numeri. Corrispondono agli agenti di cambio abilitati a contrattare in quella Borsa. Ogni strizzata d'occhio della lampadina vuoi dire che c'è la telefonata di un cliente. Agli agenti di cambio le orecchie dolgono per il rimbombo. Ma l'atto di ascoltare è soltanto meccanico. Conoscono a memoria il ritornello iroso che trapana l'apparecchio e i timpani: "Venda! For Heaven's sake, per amor del cielo, venda!!!".
Ora Whitney, estintore vivente, procede a malapena nel caos della hall. Una baraonda. Stanno sopraggiungendo migliaia di piccoli risparmiatori, dal Bronx, da Brooklyn, dal New Jersey, sulle loro auto comprate a rate, e contemplano con i loro occhi la propria disgrazia. Tra poco faranno a pezzi le telescriventi che ticchettano i prezzi disastrosi. Whitney si ferma davanti allo sportello 2: qui viene trattato l'acciaio, l'azione U.S. Steel, titolo-perno della Borsa. Domanda la quotazione. E' calata a 193 dollari. Urla a tutto spiano, in modo che tutti lo sentano: "Compro 25.000 azioni U.S. Steel a 205 dollari!".
La folla tiene il respiro: questo è Sigfrido che arriva a riequilibrare le fortune dei Nibelunghi. Da quella platea di neodiseredati sale l'accenno di un timido applauso. Whitney si aggira come un'ape a suggere il miele di ogni sportello: 10.000 azioni per ciascuno, alla miglior quotazione. In cinque minuti rastrella titoli per trenta milioni di dollari. Quando il cavaliere generoso esce dalla hall, le telescriventi cantano la sua gloria. Il bluff psicologico ha funzionato. L'emorragia di azioni sembra arrestata. Il risparmiatore riprende fiducia. Questa camera di rianimazione funziona meno di due ore. Poi è il collasso. Alle tre, quando l'implacabile gong argenteo scandisce la chiusura, la Borsa è nell'abisso. Molti non si abituano all'idea che il giorno seguente dovranno ricominciare un'altra vita. A mezzogiorno i suicidi si contano ancora sulle dita di due mani: le informazioni più pessimistiche parlano di dodici. Entro sera saranno migliaia.
A mezzanotte si verifica l'episodio che fermerò per sempre l'immagine di quel fatale giovedì. Un signore elegantemente vestito, dall'aria di banchiere, si presenta al Waldorf Astoria, il più sfarzoso albergo di New York, e chiede una camera all'ultimo piano. Il portiere gli porge la chiave e inquisisce, fra cinico e preoccupato: "E' per dormire o per saltare?". Su questa battuta si archivio definitivamente nella storia il Black Thursday, il giovedì nero 24 ottobre 1929 del crollo di Wall Street.
Dopo la chiusura della Borsa, il presidente Hoover ha interpellato il suo grande ministro del Tesoro e gli esperti. Ai giornalisti mostra un volto disteso a metà: "Gli interessi del Paese riposano su basi solide. E' stata l'isteria a determinare il panico. Domani il mercato ritroverà la calma". Appena l'ultimo giornalista ha voltato i tacchi, Hoover si precipita alla telescrivente. Vi resta incollato fino alle sette e mezza di sera, a seguire le quotazioni sprofondanti, come milioni di americani. Le sue parole di mesi prima gli risuonano ironiche nell'orecchio: "Noi stiamo indefessamente costruendo una nuova civiltà".
L'era Hoover, inaugurata nel segno della speranza, finiva senza speranza, travolta dalla paura.


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