§ Paralleli

1929-1987




M.C.M.



Nel 1955, in un momento di salute dell'economia americana, Wall Street fece un tuffo, se non uguale, certamente paragonabile a quello del 1987 e del 1929. Venne immediatamente nominata una "commissione" con l'incarico di stabilire, attraverso "udienze conoscitive", cause ed effetti del crollo in Borsa. In quell'occasione, J. Kenneth Galbraith scrisse un bellissimo "rapporto" su nascita, sviluppo e fine di un boom borsistico e sugli effetti che la caduta della Borsa produce sul sistema economico. La tesi Galbraith è molto semplice. Un boom in Borsa nasce e si sviluppa mantenendo sempre qualche relazione con la realtà delle imprese, ossia con le loro esigenze di finanziamenti, con i loro rendimenti e dividendi. Se questa relazione è mantenuta, il boom della Borsa si sviluppa in modo fisiologico.
Ma arriva un momento in cui la Borsa perde contatto con la realtà del sistema economico e del sistema delle imprese. Arrivano sul mercato coloro il cui unico obiettivo è di godere dei "guadagni di capitale" rappresentati dall'incremento del prezzo dei titoli. Fino a quando questo processo è alimentato da risparmio nuovo, il processo può andare avanti. Ma quando si comincia a ricorrere ai prestiti bancari e ad altre fonti per speculare in Borsa, allora il boom si trasforma in un affare puramente speculativo e la "bolla speculativa" è destinata a scoppiare sotto qualsiasi pressione: o la guerra, o l'aumento dei tassi d'interesse, o una notizia sul peggioramento dei conti con l'estero, eccetera. Da questo momento, l'emozione prende il posto della ragione e la valanga delle vendite fa precipitare la Borsa trascinando, quando la Borsa è particolarmente importante e la caduta violenta, anche Borse di altri Paesi.
Questo è lo "schema" utile per interpretare quanto è accaduto in autunno: Wall Street aveva perso contatto con lo stato dell'economia reale, con i rendimenti delle imprese; e questo lo si sapeva, tant'è che una certa caduta era attesa. Ma la violenza del tracollo del "venerdì nero" autunnale è stata fortemente accentuata dalla reazione a catena messa in moto dalle Borse degli altri Paesi sviluppati.
Come abbiamo detto, una grande "bolla speculativa" può esplodere per diversi motivi, anche non tanto importanti. La caduta di Wall Street può essere imputato ad alcuni fattori: le incertezze sulla situazione nel Golfo Persico, le notizie sull'aggravamento della bilancia commerciale americana, ma, soprattutto, può essere imputata alle attese di aumento dei tassi d'interesse che il governo americano ha attribuito, con qualche ragione, alla politica tedesca dei tassi d'interesse. Il segretario del Tesoro americano, James Baker, ha esplicitamente accusato la Germania Federale d'aver violato gli accordi internazionali attraverso l'aumento dei tassi d'interesse, e di avere quindi seminato periodi di recessione mondiale.
Quali gli effetti del terremoto borsistico? Tutti si sono affrettati a dire che il 1987 non è il 1929. Si può essere d'accordo con questa affermazione, anche se talvolta la caduta dei valori dei titoli, nelle diverse
Borse, ha raggiunto la cifra considerevole di un milione di miliardi: una cifra che equivale al prodotto interno lordo italiano! Lo stesso Galbraith, nella sua analisi, aveva sostenuto che se è vero che la perdita di ricchezza finanziaria, dovuta alla riduzione del valore dei titoli, può avere influenze negative sul consumo e sull'investimento, quindi sul livello del prodotto nazionale, è anche vero che oggi i sistemi economici hanno incorporato sistemi automatici di difesa dalle recessioni e comunque che oggi, dopo Keynes, si conoscono gli strumenti per evitare che recessioni si trasformino in depressioni profonde come nel '29.
Il terremoto dell'87 nelle Borse di tutto il mondo dimostra appieno la grande incertezza che regna sul capo dell'economia internazionale. A differenza del '29, il crollo di Wall Street si è propagato a tutte le Borse del mondo sviluppato e da queste è rimbalzato su Wall Street. Ciò significa che mentre i sistemi finanziari ed economici sono fortemente interdipendenti, i Paesi sviluppati non hanno ancora trovato, nonostante i rituali appuntamenti dei Sette grandi, alcuni la forza di risolvere i gravi problemi interni (come l'America) e tutti quello spirito cooperativo in grado di darci la stabilità. Perché senza cooperazione non c'è stabilità.
Due domande, comunque, si impongono ora. Una è più interessata: cadranno ancora, e quando, Wall Street e le altre Borse mondiali? l'altra è più interessante perché ci riguarda tutti: vi è una relazione tra gravità della caduta dei corsi azionari e gravità delle prospettive economiche?
Crediamo che un economista debba confessare di non saper rispondere alla prima domanda, ma debba presumere di saper rispondere almeno in parte alla seconda.
La nostra risposta è che quella relazione è tenue. Infatti:
- la situazione dell'economia americana e internazionale, pur presentando gravi squilibri in atto e in prospettiva, non consente di motivare con ragioni economiche di fondo l'entità e la concentrazione nel tempo della caduta manifestatasi a Wall Street e di lì trasmessa alle altre Borse;
- verificatasi in ogni caso la caduta, questa appare certo destinata a mietere vittime anche a medio termine, ma non a causare, di per sé, quella grave recessione che alcuni associano quasi automaticamente ad una caduta di Borsa di questo genere.
Non è credibile che questa crisi abbia nell'economia reale la sua radice. L'economia americana si trova in fase di espansione da oltre cinque anni. La durata media delle precedenti fasi di espansione, dalla metà del secolo scorso in poi, era stata di 33 mesi. Solo due espansioni erano durate più a lungo di quella attuale. E la maggior parte delle previsioni indica un inizio di recessione solo nella parte finale del 1988.
Quanto agli altri Paesi industriali, la crescita è stata continua e, anche se certo insufficiente a riassorbire la disoccupazione, si è svolta a tassi notevolmente stabili dal 1983 in poi, molto più stabili che in passato. E' vero che vi sono da anni, e non se ne intravede la rapida soluzione, alcuni profondi squilibri: il disavanzo del bilancio federale e della bilancia corrente dei pagamenti degli Stati Uniti, l'accumulo crescente di avanzi da parte del Giappone e della Germania Federale, il debito estero dei Paesi meno sviluppati. Ma sono squilibri ormai radicati e che non hanno dato luogo a peggioramenti nell'ultimo periodo. Semmai, qualche progresso si è registrato in due loro manifestazioni: il coordinamento degli interventi valutari ha reso un po' più stabili i tassi di cambio; gli effetti del deprezzamento avvenuto nel dollaro dal 1985 in poi cominciano a farsi notare favorevolmente nel saldo della bilancia commerciale americana, se esso viene espresso in quantità e non ai prezzi correnti.
L'imponente caduta di Wall Street sembra allora doversi interpretare non come la spia di prospettive economiche repentinamente aggravatesi o come segno di fuga dal dollaro, ma piuttosto come un tardivo, concentrato e moltiplicato adeguamento dei portafogli finanziari alla dinamica recente, e scontata per il prossimo futuro, dei tassi d'interesse. La storia del mercato finanziario americano mostra che per una parte del suo cammino ogni fase di espansione economica porta con sé una salita dei corsi sia delle azioni sia delle obbligazioni (cioè, una diminuzione dei tassi d'interesse su queste ultime).


Subentra poi un'inversione di tendenza nei tassi d'interesse, la cui salita si accompagna dapprima ad una perdurante ripresa dell'attività economica e dei profitti e coesiste perciò con la salita dei corsi azionari, ma finisce per determinare successivamente uno spostamento dei portafogli dalle azioni alle obbligazioni, quando subentrano attese di ulteriore salita dei tassi d'interesse e, anche per questo, di rallentamento dei profitti. In questa occasione, la salita dei tassi d'interesse era iniziata nel febbraio 1987 e i corsi azionari avevano proseguito la loro ascesa fino ad agosto. Lo scarto temporale era stato insolitamente lungo. La correzione all'ingiù, essendo stata tardiva, è stata particolarmente intensa e concentrata nel tempo. Ad essa ha concorso l'aspettativa che una qualche ripresa dell'inflazione americana e il recente rialzo dei tassi in Germania e in Giappone potessero indurre le autorità americane ad alzare sensibilmente i tassi d'interesse.
La caduta delle azioni è stata anche moltiplicata da due circostanze ormai strutturali: il rapporto fra attività finanziarie e grandezze reali, quali il prodotto nazionale, è aumentato negli Stati Uniti come altrove e ciò tende ad ampliare gli aggiustamenti delle quote finanziarie; la crescente automazione delle procedure di decisione di portafoglio tende poi a determinare una simultaneità di reazione.


Una volta verificatasi, comunque, una così imponente caduta delle quotazioni azionarie non sembra destinata a divenire, di per sé, fattore di drastica recessione. In qualche misura ciò potrebbe accadere, attraverso la diminuzione dei consumi ("sentendosi" meno ricchi i consumatoriazionisti) e quella degli investimenti (aumentando il costo del capitale azionario per la caduta dei corsi e il costo dei debiti per la salita dei tassi).
Questi sarebbero certo impulsi recessivi. Ma se, come è verosimile, l'intensità di entrambi sarà maggiore negli Stati Uniti che negli altri Paesi (Wall Street è caduta di più, le azioni "pesano" di più nella ricchezza dei consumatori americani, i tassi d'interesse negli Stati Uniti sono destinati a salire più che negli altri Paesi), vi potrà anche essere un parziale effetto di riequilibrio dei conti con l'estero americani.
Sono inoltre aperti (molto più che nel 1929, ma anche più che due o tre anni fa) i canali del coordinamento internazionale delle politiche economiche. Non hanno ancora prodotto i risultati sperati, è vero. Ma non mancava forse, per fare usare quei canali più intensamente e con maggiore spirito di collaborazione, la pressione di una crisi?

Intervista ad Antonio Pedone

Diversificare, e non cedere al panico

a cura di Aldo Bello

Comprare azioni è uno degli strumenti di cui si sono sempre serviti i risparmiatori. E' ancora valido, oppure è bene orientarsi verso altre forme di investimento?
Un parallelo fra crisi del '29 e crisi dell'87: rispetto all'economia di allora, prettamente liberista, oggi ci sono rischi minori, perché l'intervento pubblico e quello delle Banche Centrali possono salvare i mercati...
- Certamente, c'è stata un'analogia fra la situazione dell'87 e quella del '29, costituita dal crollo in Borsa. Ma niente più che questo. Esistono, fra le due date, tre differenze fondamentali, che voglio ricordare:
a) nel '29 il crollo della Borsa avvenne quando già le economie erano in recessione, mentre nell'87 la situazione era ben diversa, anche se la crescita non era entusiasmante;
b) le autorità, nel '29, accentuarono le spinte recessive che già esistevano nell'economia, mentre nell'87 le autorità, in particolare quelle monetarie, non hanno agevolato una recessione, ma l'hanno contrastata, lungo una linea di difesa, e di comportamento, analoga a quella della Federal Reserve e della Bundesbank;
c) l'ultima differenza di fondo riguarda la capacità della struttura finanziaria e creditizia di resistere all'urto. Nell'87 quelle strutture erano, fra l'altro, molto più solide, e comunque tali da assorbire situazioni di difficoltà in modo più efficace che nel '29.
I Fondi comuni d'investimento. Dopo Wall Street, è il caso di abbandonarli?
- Dipende da quali tipi di Fondi di investimento. Direi che in generale, senza fare ora distinzioni tra Fondi obbligazionari, azionari e bilanciati, anche in questo caso la struttura degli intermediari finanziari si è rivelata ben solida. Certo, il valore delle quote riflette l'andamento delle Borse, quindi quei Fondi che avevano particolari tipi di titoli hanno registrato una caduta di valore; però il rendimento di un investimento in un Fondo va valutato sul medio periodo e non su quei che accade giorno per giorno. Se, in base a quanto detto prima, riteniamo che esista la possibilità, non la certezza, che dalla situazione di crisi si sia usciti meno peggio di quanto fosse dato credere, allora non c'è motivo per abbandonare un investimento che nel medio periodo può risultare soddisfacente.
Il nemico principale, dunque, è il panico...
- Il nemico principale, come in tutte le situazioni di crisi, è certamente il panico, insieme con i contagi e con le reazioni a catena che origina.
Nel momento del crollo dell'87 sono scesi soprattutto i titoli-guida. Perché?
- In primo luogo, perché sono i titoli sui quali si concentra il maggior numero di operatori, e dunque sono quelli che più riflettono azioni di intervento; poi, anche perché sono in qualche misura titoli che rappresentano un punto di riferimento per gli investitori. Naturalmente, bisogna dire che quella che si è verificata è stata una crisi che è partita, almeno nella dimensione più ampia, dalla Borsa centrale delle economie industrializzate, cioè da quella degli Stati Uniti. Allora è chiaro che il primo riflesso si ha su quelle che sono le "stars" delle varie Borse nazionali. Con questo non voglio dire che la Borsa italiana sia periferica, ma in qualche misura non si è trattato di una crisi generata nell'ambito della nostra Borsa.
Investire altrove. Ad esempio, nel campo dell'edilizia, anche se molti si chiedono perché mai il comporta immobiliare sia penalizzato dalle leggi dello Stato...
- Non mi pare che la situazione attuale penalizzi più di tanto l'investimento nel settore immobiliare. Lo penalizza in quanto, ad esempio, i tassi d'interesse sono ancora molto elevati, e quindi è ovvio che in presenza di questi tassi gli investimenti a lungo termine sono relativamente svantaggiati. Ma questo è un fenomeno obiettivo, che dipende dal mercato, vale a dire dal fatto che il risparmio non sembra esser disposto ad impegnarsi in una prospettiva di molti anni. E quello che è accaduto anche nella Borsa americana è stato originato proprio da un aumento dei tassi d'interesse sui titoli a lungo termine, dagli elevati tassi d'interesse che il governo ha dovuto pagare per collocare titoli a lungo termine in un momento in cui le prospettive si accorciavano. È chiaro che ciò ha provocato difficoltà per il finanziamento dell'attività della Borsa, con tutti i riflessi conseguenti. il problema resta sempre quello generale, e cioè come tornare ad un livello di tassi d'interesse che sia non troppo più elevato del tasso di crescita dell'economia, perché altrimenti per definizione un'economia non può continuare a sopravvivere e a crescere con tassi d'interesse permanentemente più elevati di quelli di espansione della produzione.
Come investire, operando sui titoli di Stato e sulla Borsa?
- Il criterio basilare, intanto, è quello di diversificare, vale a dire di non puntare tutto su un unico paniere. Poi, nello scegliere quanto acquistare di un titolo o di un altro, è questione di conti a tavolino: occorre classificare qual è il rendimento reso, quale il grado di rischio, quale la liquidabilità alla scadenza. E, in base alle proprie preferenze, si deve optare per ciò che può rispondere di più alle proprie aspettative. Tenendo presenti questi tre elementi, del rendimento, del rischio e della liquidabilità, ciascuno può ottenere la combinazione che desidera. Anche qui si era forse trascurato (e in parte può spiegare la caduta dei corsi delle azioni nelle Borse, in particolare in quella di Tokyo, ma anche in quella americana e in parte in quella italiana) il fatto che i rendimenti rispetto ai prezzi ai quali si compravano le azioni sembravano particolarmente bassi, e quindi prima o poi bisognava aspettarsi un forte aumento dei rendimenti (ma le prospettive di crescita dell'economia nazionale non è che fossero particolarmente brillanti) oppure un adeguamento dei valori.

Dopo il big crash

Chiuso un ciclo

Franco Modigliani

A dire che nessuno lo aveva previsto, si commette una grossa esagerazione. La gente più attenta, quella che si occupa dei problemi veri, aveva capito da tempo che questo di Wall Street era un mercato completamente fuori equilibrio, che la tendenza al rialzo dei tassi d'interesse e il rapporto prezzi/guadagni fornivano segnali molto precisi al riguardo. Cioè: i nodi dovevano venire al pettine, e così è stato. In questo senso, si è trattato di un riaggiustamento, di un movimento razionale. Naturalmente, l'entità precisa di un crollo è più difficile da prevedere, ma è successo più o meno ciò che io mi attendevo da qualche tempo.
Il fatto che sia un movimento nella direzione giusta non diminuisce la portata dell'accaduto, sia chiaro. E' stata una grossa scossa, che avrà inevitabilmente conseguenze sfavorevoli almeno nel breve periodo, poiché è prevedibile che si abbasseranno i consumi, la gente comprerà meno automobili, meno case, meno tutto, e questo è un fenomeno di grondi dimensioni, non certo trascurabili, significa una perdita di 20140 miliardi di dollari nel consumo per un dato reddito, con un chiaro effetto moltiplicatore: meno consumi, diminuisce la produzione, cala l'impiego, si abbassa il reddito, cresce il costo del denaro, calano gli investimenti.
Bisogna ricordare che giù prima di questo crollo il mondo appariva un po' in subbuglio. Il dissidio tra Stati Uniti e Germania Federale sull'andamento dei tassi d'interesse e sull'equilibrio valutario era una cosa molto seria, con effetti gravi sul movimento dei capitali; poi le azioni belliche degli Usa nel Golfo Persico hanno aumentato la paura di guerra, il timore di un aumento dei prezzi del petrolio, che è spesso considerato la forza trainante di un'inflazione. Date queste premesse, a mio parere è vero che nel breve periodo può esserci un non forte indebolimento dell'economia, a meno che non cambi subito la politica monetaria, compresa quella fiscale, dell'amministrazione Reagan. Per la prima, occorre giungere ad un allargamento del credito, che dovrebbe estendersi in tutto il mondo, considerato come sono intercollegati oggi i mercati: ovvero una riduzione dei tassi d'interesse, una diminuzione del costo del denaro. Per la politica fiscale, lo sviluppo più desiderabile e necessario sarebbe un'accentuata espansione di Germania Federale e degli altri Paesi del Mercato comune europeo; a livello interno, l'America non dovrebbe certo aumentare il proprio deficit pubblico, ma d'altra parte in questo momento non si possono aumentare le tasse. Io ho predicato per un pezzo un incremento fiscale, ma capisco che adesso sarebbe decisamente sconsigliabile.
Certo, è difficile fare previsioni esatte, perché siamo in condizioni di grande incertezza: diciamo che è logico, possibile che una recessione moderata si verifichi nei prossimi due anni, anche perché l'attuale espansione è ormai una delle più lunghe della storia americana, il ciclo economico fa supporre che non durerò ancora molto. Ma dissento completamente da chi parla di una imminente Grande Depressione, per innumerevoli motivi, ma soprattutto perché la politica economica Usa è profondamente cambiata rispetto al 1929. A quell'epoca, la Banca Centrale americana permise una forte caduta dei mezzi di pagamento, tagliò la liquidità alle banche, togliendo - per così dire - il tappeto da sotto i piedi dell'economia, costringendo migliaia di banche a fallire. Una simile eventualità oggi è esclusa, sia perché le autorità centrali hanno capito che è uno sbaglio fatale, sia perché esistono forme di assicurazioni formali e informali, come in Italia, che coprono i depositi bancari da ogni rischio.
Dunque, niente file davanti agli sportelli per il ritiro dei risparmi. E nemmeno negli Anni Trenta sarebbe successa una cosa del genere, se la riduzione improvvisa del credito non avesse prodotto fallimenti a catena. Abbiamo avuto un numero di fallimenti in ascesa, negli ultimi tempi, ma siamo nell'ordine delle centinaia, la situazione non mi pare preoccupante, il sistema bancario è in sostanza solido.
In questo clima, che cosa potrà accadere in Europa e in Giappone? Ecco: il fatto è che l'America fa il bello e il cattivo tempo, ciò che succede qui influenza immediatamente quel che accadrà oltreoceano. Un rallentamento dell'economia americana si ripercuote subito all'estero, come si è visto, per esempio, nell'ultima recessione, quella dell'82. Meglio quindi seguire molto attentamente questo barometro economico, anche perché là, in Europa, lo scenario è assai simile: ci sono condizioni sfavorevoli (come il deficit pubblico) che però possono essere messe sotto controllo. C'è un elemento di vulnerabilità, su entrambe le sponde dell'Atlantico, che rappresenta un'incognita, e risolverla dipenderà molto dalla qualità della collaborazione internazionale. A questo proposito, io ho sempre detto che l'Italia ha un ruolo importante da svolgere, un ruolo fondamentale per sostenere una politica espansionistica delle economie europee, poiché l'Italia ha fatto molti sacrifici per il buon funzionamento dello Sme, e adesso ha un certo credito da riscuotere nei confronti dei suoi partners. Ora deve usarlo.

Resta il rischio di una recessione

Carlo De Benedetti

Nessuno sa dire perché il fatto sia accaduto in ottobre, ma le cause erano chiare da tempo a tutte le persone responsabili. C'era un eccesso di debiti che creava un eccesso di liquidità. In sostanza, i Paesi industriali in genere, e gli Stati Uniti in particolare, vivevano al di sopra delle risorse disponibili. Una montagna di debiti. Si comprava finanziandosi col debito. Lo facevano i governi, creando liquidità che immettevano nel sistema; lo facevano gli Stati nei loro rapporti reciproci, accrescendo la liquidità internazionale; e lo facevano le famiglie..
I debiti privati erano garantiti da cespiti, azioni, immobili. Si comprava una casa e la si dava in pegno alla banca per poterla pagare. Si comprava un'automobile e la stessa auto rappresentava la garanzia a copertura del debito. Si compravano azioni e le si dava a riporto. Nei rapporti internazionali, in modi più sofisticati, il meccanismo era analogo.
L'eccesso di liquidità incoraggiava gli acquisti. I maggiori acquisti facevano rincarare i prezzi. Perciò, i valori crescevano, e cresceva di conseguenza l'ammontare delle garanzie disponibili per indebitarsi.
Si parla molto del cattivo comportamento della Germania Federale, perché non ha seguito analoghi comportamenti, e ha fatto resistenza a creare liquidità sul proprio mercato interno. Certo, l'atteggiamento tedesco è stato una grossa pietra d'inciampo, forse la cartina di tornasole che alla fine ha messo a nudo il vizio del sistema; ma possiamo veramente rimproverarla per essere stata il solo Paese saggio in un mondo in preda ad un'immotivata euforia?
E' difficile predire oggi come si stabilizzerà il mercato. Ma i danni sono stati enormi. A Wall Street il ribasso ha bruciato in poche ore, nel lunedì nero, mille miliardi di dollari, una cifra pari all'intero debito pubblico dell'Italia. Poi c'è stata alternanza: salite e discese, come nelle montagne russe. Sono stati penalizzati soprattutto i fondi pensione e gli investitori istituzionali. Ma è in modo particolare nelle decisioni dei consumatori che si avrò un riflesso di questo ciclone. Ci sarà, inevitabilmente, un rallentamento negli investimenti.
La conclusione che traggo da quanto ho visto e dall'analisi di quanto è accaduto purtroppo non è molto allegra. Credo che un'epoca sia finita. Credo che una fase di recessione sia incominciata. Credo che i valori si sgonfieranno. Il mercato è un luogo che registra le attese del pubblico, e il pubblico, dopo quel lunedì nero, si attende il ristagno dell'economia. Non mi fa affatto piacere arrivare a queste conclusioni, anche se penso che prima o poi questi nodi dovevano venire al pettine. Oggi dobbiamo soprattutto evitare di commettere errori ed eccessi di segno opposto a quelli commessi nella fase dell'euforia. Perché a tutto c'è rimedio, tranne che alla stupidità.


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