§ Il Medio Evo

Ma quanta luce in quei secoli bui




Tonino Caputo, Gianfranco Langatta



Romanzi romanici e gotici, riedizioni forsennate di autori oscuri e luminosi dei "secoli bui", testi famosi, come La storia dei Franchi, biografie: siamo di fronte a tirature che nessuno avrebbe mai previsto. Si sono moltiplicate le iniziative di studio, i convegni, i congressi, gli incontri su tematiche anche inconsuete (Il ruolo del manoscritto nella cultura medioevale, a Spoleto, qualche anno fa). E il cinema ha rilanciato la storia medioevale, con la televisione in parallelo (Excalibur, Perceval, Marco Polo), sfornando prodotti patinati e in non pochi casi pedanti, raccontando mastodontiche apoteosi di eroi della leggenda, come l'intramontabile Re Artù.
Eppure - è stato scritto - se c'è un momento in cui l'idea di Medioevo è in crisi, è proprio questo. Sono almeno quindici anni, infatti, che gli storici hanno messo sotto accusa il concetto di "età media" e sono arrivati alla conclusione, per capire le storie, che non serve a niente. Che senso ha parlare di "età di mezzo" per un periodo che va dal 476 dopo Cristo (fine dell'Impero romano d'Occidente) al 1492 (scoperta dell'America)? Mille anni che stanno in mezzo: ma in mezzo a che cosa?
In realtà, al posto di un Medioevo stabile e granitico abbiamo oggi una serie di Medioevi: tante epoche storiche articolate, ognuna ben diversa dall'altra. Ma qual è il filo che le collega?
In apparenza, c'è solo disordine. Alchimia, magia, astrologia, storia della tecnica, storia della mentalità, incontri-scontri di civiltà, antifemminismo, antisemitismo, eresie, rivolte contadine, pirateria: il maxi-Medioevo contiene tutto e il contrario di tutto. E tuttavia, dietro questa esuberante incoerenza, traspare una trama segreta. Il nuovo Medioevo somiglia pericolosamente al vecchio Medioevo ottocentesco: un'età barbara, violenta, eccessiva; una sorta di adolescenza dell'Occidente, nella quale ritroviamo le radici delle nostre nevrosi.
Non a caso sono fioriti gli studi sui grandi personaggi, come nel Romanticismo. Solo che si tratta di eroi "punk", sporchi e cattivi, come quelli dei nostri tempi. Chi non ricorda Riccardo Cuor di Leone? Vengono in mente subito Ivanhoe di Scott, Robin Hood e la foresta di Sherwood, i duelli, le fughe, gli agguati, le lotte senza tregua.. Il re Riccardo, partito per le Crociate, è caduto prigioniero in Germania, vittima di una congiura. L'Inghilterra è in mano a un tiranno senza scrupoli, che opprime la popolazione: Giovanni Senza Terra. Alla fine i buoni trionfano: il re sarà liberato, e il dispotico Giovanni concederà la "Magna Charta", il primo proclama dei diritti dell'uomo dell'Occidente... Così conoscevamo le storie. Tutta una balla, invece. Secondo gli storici moderni, come Prestwich, Holt e Gillimgham, Riccardo Cuor di Leone si dovrebbe chiamare Riccardo Cuor di Ladrone: avventuriero, egocentrico, dissoluto, coinvolse la sua patria nell'impresa delle Crociate solo per sfogare i suoi istinti bellicosi e la sua sfrenata avidità. Per anni e anni si trascinò nei deserti egiziani, senza cavare un ragno dal buco, riuscendo però a distruggere altri eserciti cristiani rivali o ad espugnare città saldamente in mano ai crociati, come Cipro. Il povero Giovanni Senza Terra (reggente autorizzato o usurpatore che fosse) si ritrovò davvero senza terra e senza il becco di un quattrino per colpa dei debiti immensi di Riccardo, che stipendiava eserciti brancaleoneschi costosissimi. Giovanni, dal canto suo, si rifaceva rubacchiando, guadagnandosi la fama del bandito.
In sostanza, l'Inghilterra era nel caos: ognuno faceva quel che gli pareva, come gli pareva, infischiandosene dei re. Niente di strano, allora, che lo stato di fatto divenisse stato di diritto: la celeberrima "Magna Charta" che proclamava l'autonomia (relativa) dei nobili rispetto alla Corona non era il frutto della liberalità dei governanti, riottosi ad ogni autorità.
Se Riccardo era così, figuriamoci la madre, Eleonora d'Aquitania, universalmente famosa e famigerata. Pensando a costei, vengono in mente i trovatori: Bernard di Ventadour, innamorato della bellissima regina, le dedicò versi teneri e struggenti, insieme con molti altri poeti del suo tempo. Alla corte di Eleonora furono scritte opere famose, come il "Tristano e Isotta" e il "Romanzo di Bruto", capostipite dei poemi che celebrano Re Artù e i cavalieri della Tavola Rotonda.
Fumo negli occhi! Spregiudicata, passionale, possessiva, plurimaritata, scatenata madre di figli degeneri, anima nera di congiure e rivolte, detestata da papi e da re, adorata da ribaldi e ribelli, Eleonora è la figlia che Abelardo ed Eloisa avrebbero potuto avere.
Come i due grandi amanti maledetti, infatti, Eleonora, irrequieta e anticonformista, non esita a degradarsi nella più sordida bassezza per realizzare i propri fini. Jean Markale, specialista di letteratura celtica, ha tracciato un profilo appassionato e appassionante di questa donna indiavolata, capace di guidare eserciti o di ispirare i sicari quanto i poeti.
Come Eleonora, anche gli altri protagonisti del Medioevo escono ridimensionati dalle nuove ricerche storiche: che si tratti di Federico Il o di Cola di Rienzo, di Boezio o di Gioacchino da Fiore, i personaggi perdono la loro aura mitica, a mano a mano che vengon meglio conosciuti, e più profondamente studiati.
E gli altri? I gregari? I cavalieri meno importanti? In una recente ricerca (Alle radici della cavalleria medioevale), Franco Cardini ribalta le concezioni tradizionali sulla cavalleria: niente più armature rilucenti, amori segreti per bellissime castellane, nobiltà d'animo o, meno che mai, povertà di vita.
I cavalieri medioevali erano diretti discendenti delle orde di cavalieri barbarici, avidi e violenti, che razziavano e distruggevano senza pietà. Invincibili, arroganti, superbi, assimilati alle crudeli divinità pagane o ai protagonisti degli incubi notturni, i cavalieri, metà Odino e metà lupi Mannari, sono il prodotto di una società selvaggia, nella quale dominano passioni brutali ed elementari, tradizioni oscure e terrori superstiziosi.
E il mito della società feudale, ordinata e armoniosa, tramandatoci dalle opere dello storico Marc Bloch? Il mito della stabilità sociale, garantita da un ordine gerarchico inviolabile? Meglio non parlarne. Gli studi di Georges Duby e di Jacques Le Goff hanno rivelato che le basi di tale società erano del tutto irrazionali: la spinta aggressiva dei figli cadetti dei nobili in cerca di terra e di avventure armava la mano a bande di giovinastri turbolenti che seminavano la distruzione dovunque passavano. Le strutture mentali e giuridiche del feudalesimo erano spacciate per assolute, ma avevano origini assai dubbie e significati assai discutibili.
Lo storico polacco Witold Kula ha mostrato che nel "sistema feudale" non vale la legge marxiana del rapporto diretto tra struttura e sovrastruttura: non è l'economia che condiziona la vita spirituale o sociale; è la vita spirituale e sociale che condiziona tutto il resto. Un signore vuole regalare una croce d'oro massiccio a una chiesa? Tutto il raccolto di un anno verrà speso per l'impresa. Non importa se, in questo modo, la società va a rotoli. Vanno a rotoli, così, anche le nostre sicurezze e la nostra possibilità di definire con chiarezza il feudalesimo.
In un convegno all'Ecole Française di Roma, un gruppo di storici, capitanati da Georges Duby, ha affermato che in molti Paesi europei non c'era un vero e proprio feudalesimo: i "castelli" dei signori erano grosso modo accampamenti militari, covi da cui sbucavano bande di esseri rozzi e sanguinari, il cui solo scopo era la rapina a mano armata.
Andò meglio con la fine del feudalesimo? Proprio per niente. I grandi borghesi, i mercanti avventurosi alla Marco Polo, erano peggiori delle cavallette: avidi e senza scrupoli, si arricchivano alle spalle del prossimo, incuranti delle conseguenze. Lo sviluppo forsennato dei Comuni portò, ad esempio, allo spopolamento delle campagne, all'introduzione forzata di monocolture (tanto per dire, il grano in Capitanata, che rendeva al fisco) che indebolivano il fisico (e anche da qui epidemie e carestie), alla creazione di masse di disoccupati, irrequieti, cenciosi, disposti a tutto. Piero Camporesi, storico bolognese, ricorda nel Pane selvaggio che per tenere a freno le folle si pensò di renderle folli: bastava distribuire alla plebe denutrita un poco di pane alla segale cornuta, che contiene acido lisergico (né più né meno che l'Lsd riscoperto dalla cultura psichedelica), per fare impazzire i miserabili affamati e toglierseli dai piedi.
Un Medioevo-demenziale, dunque, pieno di esseri mostruosi, di sadici, che si sbranano tra loro e si aggirano spettrali sulla scena insanguinata della storia. Dopo oltre mezzo secolo di storiografia "ottimistica", attenta ai valori civili, razionali, preumanistici, abbiamo oggi il Medioevospazzatura. Resta da chiederci se è quello vero o se è solo il più verosimile: e cioè se abbiamo realmente scoperto un "nuovo Medioevo" o piuttosto un Medioevo rimesso a nuovo, iper-reale e apocalittico quanto basta per i nostri gusti.
Docente al Collège de France, Georges Duby è il più grande esploratore di questo passato, così lontano da noi nei suoi aspetti esteriori e così vicino nella sua realtà concreta. In una delle sue ultime opere, Le chevalier, la femme et le prêtre, Duby mostra come il matrimonio moderno e tutte le pratiche coniugali derivino direttamente da quel grande trambusto che una dozzina di secoli fa ha scosso la società. Fare luce sulle nostre origini significa anche far luce sul mondo moderno e Duby, evocando il comportamento dei nostri antenati, parla anche di se stesso e di tutti noi. Il prete, oggi, ha forse minor potere, e vive in modo diverso nella società; ma noi siamo pur sempre dame e cavalieri, anche se non proprio come quelli medioevali. Ma è proprio su questo punto che Duby rimette, prima d'ogni altra cosa, tutto in discussione.
Oggi, afferma lo storico francese, più che mai si viaggia nei tempi antichi, come se si andasse al Borneo. La gente si sente prigioniera di insiemi coerenti, è sconvolta dalla rapidità dei mutamenti culturali e ha bisogno di radici per sentirsi più sicura. Ma perché proprio il Medioevo?" Perché è separato da noi da un lungo spazio-tempo di progresso, che porta fino alla nostra società tecnologica. A guardarlo in prospettiva, oggi il Medioevo sembra idilliaco.
Dal momento in cui si rifiuta l'accusa storica di oscurantismo mossa contro il Medioevo a partire dal Rinascimento, se ne scopre la realtà: ci si accorge che fu un periodo di straordinaria fertilità".Ora, sostiene Duby, se c'è una lezione da trarre dalla civiltà e dalla cultura medioevali, è proprio il frenetico cambiamento che quell'epoca ha conosciuto. Lo studio dell'epoca feudale conferma che ci sono sempre dei rinnovamenti necessari, e che bisogna prendere in considerazione lo slancio che spinge l'uomo a rifiutare le forme antiche, per costruirne di nuove.
Da queste considerazioni, l'analisi del matrimonio. Il matrimonio è un'istituzione che garantisce la riproduzione d'una società nelle sue strutture tradizionali. Dice Duby: "Io ho voluto dimostrare che l'insieme di riti e di precetti morali elaborati ben sette secoli fa può trasformarsi profondamente, senza per questo annullarsi. Paradossalmente, fino al XII secolo, il matrimonio era ancora profano e si sottraeva completamente alla mano dei preti. La lotta, dunque, si circoscrive tra i signori feudali, che vogliono conservare patti favorevoli al mantenimento della loro superiorità sociale, e la Chiesa, che cerca in tutti i modi di imporre la superiorità del potere spirituale su quello temporale. La Chiesa vede perciò nel matrimonio un mezzo per affermare la propria supremazia. Da un lato, lo proibisce ai preti, e, dall'altro, lo impone ai laici sotto il proprio controllo assoluto. Per coronare l'impresa, fa addirittura del matrimonio un sacramento. Queste strutture non corrispondono più alla nostra realtà sociale, perciò assistiamo al loro disfacimento. Non per questo, sulla nostra società, regna il disordine. Si cerca perciò un nuovo ordine, più consono alla società attuale. Una società non può vivere senza regole e ordinamenti".
In pratica: oggi molti uomini e donne rifiutano gli aspetti antichi, tradizionali del rapporto coniugale. Ma questo non significa che rifiutino il rapporto di coppia. La coniugalità medioevale "si perpetuerà inserendosi in un'altra morale, in altre disposizioni".
Un tempo, per compensare la rigidità del matrimonio, si concedeva alla nobiltà, e a questa soltanto, la valvola del cosiddetto "amor cortese". Si deve dedurre che il libertinaggio era meno pericoloso per l'élite che per la gente comune? "In base ai documenti disponibili, mi sono occupato soprattutto dello strato dominante della società del XII secolo. Parallelamente alle regole molto rigide e costrittive del matrimonio e per alleviare le frustrazioni dei giovani costretti al celibato dalla politica del lignaggio, si assiste alla creazione di giochi, di riti sociali, che gli storici chiamano l'amor cortese. In altre parole, si tratta di tutto un modo di comportarsi del giovane celibe nei confronti delle donne del proprio ceto, e solo nei loro confronti.
Per le altre donne, infatti, non c'è bisogno di nessun codice di comportamento. Le regole di questo gioco danno vita a loro volta ai riti della galanteria e del libertinaggio, vale a dire alle relazioni amorose che ancora oggi si situano fuori dall'ambito del matrimonio, della coniugalità". E' noto che la società medioevale era effettivamente prima di tutto maschile. E' difficile ancora oggi penetrare nell'universo femminile, perché le fonti d'informazione a disposizione non fanno mai parlare direttamente le donne: ci sono sempre degli uomini che parlano per loro. La visione, quindi, è in parte deformata, perché le donne vengono spesso fatte apparire perverse, ingannatrici e deboli. Hanno un valore, sono oggetto di scambio, di gioco, di piacere, un mezzo per stringere alleanze e per stabilire una politica di uomini. Le donne, in fondo, sono le grandi sconosciute della Storia.
Come si può cancellare questa immagine? Dice Duby: "In una società di possidenti e di eredi, è chiaro che il ruolo essenziale della donna era generare figli e accrescere, col suo, il patrimonio comune. Questa società di uomini controllava strettamente i matrimoni, proprio perché erano in gioco troppi interessi di lignaggio. Ai giorni nostri, anche nella società borghese, il problema dell'eredità ha perso importanza. La donna è diventata un elemento produttivo. Costituisce un valore per se stessa, non più soltanto un valore matrimoniale. La "nuova donna" è un essere che si assume molte più responsabilità. Rinuncia al potere che aveva un tempo, nella società
tradizionale, all'interno della casa, per rivendicarne un altro, ben diverso, nel mondo esterno. Il Medioevo, insomma, è, sì, sempre presente in noi; ma noi non siamo più nel Medioevo.
Perché tanto di moda quest'età? Ci sono molte spiegazioni, ma, secondo Tommaso Giglio, una non è stata mai avanzata: e forse è la più probabile. Ed è questa: nell'inconscio collettivo della nostra epoca sono affiorate "le straordinarie somiglianze esistenti tra la società feudale e la società socialista". Scavando nel passato, andando a rileggere l'evoluzione del mondo feudale, noi cerchiamo di scoprire quale sarà l'evoluzione del mondo contemporaneo. Fu Gramsci a notare che la Repubblica di Platone si era realizzata nella Cosmopoli cristiana del Medioevo, dove i filosofi al potere erano gli intellettuali del tempo, cioè i chierici, i funzionari della Chiesa. Così dicendo, Gramsci pensava probabilmente a un'altra Cosmopoli, quella sovietica, dove i filosofi al potere sono i funzionari del partito, i chierici del nostro tempo.
A quali libri ricorrere per conoscere più a fondo questa società ideologica, che mandava al rogo chi si allontanava dalla verità, le cui basi furono poste da Carlo Magno, l'uomo che in nome dell'ideologia e dell'impero cristiano commise stragi e crudeltà non inferiori a quelle di Stalin? Citeremo i più accessibili, e quelli che è facile trovare oggi in libreria.
Incominciamo con lo storico più affascinante, di facile lettura, Henri Pirenne, che praticamente ha aperto tutta la discussione moderna sul Medioevo. Di Pirenne è bene leggere la Storia economica e sociale del Medioevo e Maometto e Carlomagno. I migliori sguardi d'assieme sul Medioevo, divenuti ormai dei classici, sono La società feudale di Marc Bloch e La nascita dell'Europa di Roberto S. Lopez.
La società feudale fu dominata dall'economia pubblica: la terra era quasi tutta dello Stato o della Chiesa. L'azienda agricola fondata sulla "curtis" (straordinariamente simile al kolkos sovietico) dette un grande slancio all'economia: rappresentò una vera e propria pianificazione dell'agricoltura. In proposito, è da leggere Terra e società nell'Italia padana, di Vito Fumagalli, oltre a L'economia rurale nell'Europa medioevale di Georges Duby e La Breve storia economica dell'Italia medioevale di Gino Luzzatto. Un vecchio classico sullo stesso argomento è il libro di Emilio Sereni, Storia del paesaggio agricola italiano. Delle nuove tecniche adottate per dare impulso all'agricoltura parla Marc Bloch in Lavoro e tecnica nel Medioevo.
Dopo aver dato slancio all'agricoltura, l'economia pianificata della "curtis" entra in crisi: non riesce più a controllare le forze produttive che ha messo in moto. E' l'economia pubblica che non regge più: ha inizio la lotta per trasformare i feudi dei valvassori in proprietà privata (è lo stesso destino che Trotsky ha previsto per la società sovietica futura). Milano è al centro della grande trasformazione, sarà teatro di una sanguinosa guerra civile alla fine della quale, nel 1037, si compirà la straordinaria conquista: i piccoli feudi diventano ereditari. Su questo tema è da leggere La società milanese nell'età precomunale, di Cinzio Violante.
Sarà proprio in quegli anni che a Milano si svilupperà il primo grande movimento eretico popolare, quello dei patarini. C'è un sommovimento sociale, il sistema viene messo in discussione e, insieme con esso la dittatura ideologica dei chierici. Nascono le eresie, ciò che oggi chiameremmo il dissenso intellettuale e la contestazione. Si vedano il bellissimo libro di Gioacchino Volpe, Movimenti religiosi e sette ereticali e Medioevo cristiano di Raffaello Morghen.
Protagonista del dissenso è un nuovo intellettuale, non più chierico o, spesso, chierico contestatore, in dissenso con la Chiesa, che pone il problema della scienza. Nasce il contrasto tra scienza e fede, tra ideologia ufficiale e libertà di ricerca. Gli intellettuali incominciano a demolire l'ortodossia: si veda il magnifico libretto di Jacques Le Goff, Gli intellettuali nel Medioevo.
Nasce la questione femminile: a livello popolare, come racconta Gioacchino Volpe, le donne, in modo particolare le tessitrici, scendono in piazza ad agitare le folle in nome dell'eresia. A livello più alto, le donne diventano protagoniste della vita del castello e impongono una nuova concezione dell'amore: una rivoluzione sentimentale che durerà fino ai nostri giorni. A questo tema ha dedicato uno dei suoi libri Georges Duby, Il cavaliere, la donna, il prete, oltre al Matrimonio medioevale. E' in quest'epoca che nasce il culto della Vergine, a sottolineare il nuovo ruolo della donna. Prima d'ora, la Madonna era rimasta del tutto ignorata.
Le nuove forze economiche che hanno distrutto l'economia pubblica e disfatto la "curtis" sono ora in grado di realizzare la loro rivoluzione. Si veda La rivoluzione commerciale nel Medioevo, di Roberto Lopez. Nascono i Comuni, l'Italia conquista la supremazia economica in Occidente, il fiorino diventa il "dollaro del Medioevo". Si leggano su questo tema Il Medioevo italiano di Gioacchino Volpe, Le città del Medioevo di Henri Pirenne, Le città italiane dal X al XIV secolo di Yves Renouard, Le città-repubblica dell'Italia medioevale di Daniel Waley e Tempo della Chiesa e tempo del mercante di Jacques Le Goff.
Sarà in quest'epoca di fermenti che sorgerà un vero e proprio gigante del pensiero, Gioacchino da Fiore, che predicherà una società di uguali e porrà le basi di un'utopia che arriverà fino ai nostri giorni e intorno alla quale ci stiamo interrogando, andando a rileggere la storia di un passato che ci assomiglia, per tanti versi, sempre i più.
Fra le numerosissime storie e testimonianze sul Medioevo, una ci sembra particolarmente nuova e illuminante. E' una storia economica dell'Occidente di indiscutibile interesse, e dunque avvincente, che già in Francia ha suscitato un notevole interesse, anche nell'ambito accademico: è la Storia economica dell'Occidente medioevale, scritta da Guy Fourquin, e di recente edita anche nel nostro Paese.
E' un'opera redatta con grande erudizione, ma allo stesso tempo con molta intelligenza. Infatti, essa interpone all'esposizione sistematica di una vasta messe d'informazioni, osservazioni critiche su ipotesi e su teorie sinora avvalorate. La scrittura, chiara, simmetrica e rigorosa, accattivante la lettura dell'opera, intessuta dall'inizio alla fine di date e di dati, di nomi di personaggi storici e di luoghi geografici, oltre che di terminologie giuridiche, contribuisce originalmente a gettare un fascio di luce su un mondo poco conosciuto. Il volume si suddivide in tre parti. Nella prima, dedicata all'"economia dei "secoli bui" (dal V al X secolo)", molto interessante sono i tre ultimi capitoli sui "fattori della produzione nel primo Medioevo", su "la terra e l'economia rurale" e sull'"economia di scambio". Nella seconda parte, intitolata "L'età dell'espansione (dal XII al XIII secolo)", le due peculiarità sono il capitolo dedicato all'espansione economica e ai fattori della produzione e quello nel quale l'autore si interroga intorno al fatto se quell'espansione non riveli in qualche modo già un carattere "pre-capitalistico". Nella terza parte, "L'età delle trasformazioni (XIV e XV secolo)", molto interessanti sono le due ricerche sulle trasformazioni nei settori "secondario" e "terziario". La conclusione dell'opera ha per titolo "Dal Medioevo al Rinascimento: continuità o rottura economica?", ma è un argomento intorno al quale ci soffermeremo fra poco.
Intanto, vogliamo tornare sulla metodologia seguita da Guy Fourquin, che si avvale dei sistemi dell'analisi economica contemporanea. Valga, a questo proposito, il seguente esempio. Siamo al capitolo sui fattori della produzione del primo Medioevo, e più precisamente al sottotitolo "La moneta". Fourquin dapprima ricorda come gli economisti anteriori a Keynes affidassero alla moneta "un triplice ruolo". Subito, però, aggiunge che "assai presto, la Chiesa vide nel denaro essenzialmente la misura del valore dei beni: il denaro sarebbe stato inventato per misurare il valore delle cose utili alla vita, e già a questo titolo sarebbe strumento degli scambi". Si tratta di una posizione che sarà mantenuta dagli scolastici e, "nel XIII secolo, San Tommaso d'Aquino scriverà ancora che il denaro è regula et mensura rerum venalium".
Ma è quando, poco più avanti, l'autore parla della fioritura di zecche locali del primo Medioevo, una fioritura dovuta alla "scarsità di monete esistente nella zona", che il fenomeno della monetarizzazione viene analizzato attraverso la ben nota formula del monetarista-statistico del secolo contemporaneo Irving Fischer, vale a dire MV = PT (dove M = massa monetaria in circolazione; V = velocità di circolazione monetaria; P = livello dei prezzi; T = quantità dei beni e dei servizi disponibili sul mercato).Se V, cioè velocità della moneta, è lenta, allora si ha il fenomeno opposto dell'inflazione, vale a dire la deflazione. Fourquin, appoggiandosi a uno studio di C. Cipolla, rileva che nel corso del primo Medioevo "l'economia europea fu soggetta a una formidabile depressione monetaria", e la spiega, secondo la formula del Fischer, attraverso la debole velocità di circolazione (V) della stessa moneta.
In una sola pagina, dalla quale abbiamo tratto questi dati e formule, compaiono, accanto al nome dell'italiano Cipolla, quello dell'inglese Keynes e quello dell'americano Fischer; tutto ciò, per dire non solo della modernità della ricerca di Fourquin, ma anche del suo spaziare in autori fuori dell'alveo francese. Beninteso, la cotè francese del Medioevo, nonché i più celebri autori medioevalisti, a partire da Duby, restano le strutture e i riferimenti più importanti dell'opera. Ma non per questo la visione del Medioevo come storia europea viene meno. L'autore, infatti, non fa che rincorrere e ricercare, tanto nel vecchio continente che nella parte "isolata" di esso, cioè in Inghilterra, tutte le piste storiche che lo portano ora a rilevare un fenomeno economico, ora a darne la dovuta illustrazione, senza limiti di frontiera.
E veniamo alla conclusione dello studio, sulla continuità o discontinuità economica fra Medioevo e Rinascimento. In una prosa abbastanza convincente, Fourquin scrive: "L'idea che sia esistito uno iato fra i due periodi della storia, in particolare per quanto riguarda le vicende economiche, fu dovuta non tanto all'orgoglio un poco ingenuo degli uomini del XVI secolo, i quali credettero di aver tutto inventato e tutto cambiato, quanto alla eccessiva specializzazione degli storici. Ma questa idea diventa insostenibile non appena siano state comprese la "modernità" del XV secolo e la natura "medioevale" del XVI secolo. L'età moderna, e la stessa epoca contemporanea, hanno beneficiato e continuano a beneficiare -dal punto di vista della pratica e sotto il profilo del pensiero economico - di una quantità di invenzioni che risalgono agli ultimi quattro secoli del Medioevo. Il contratto di affittanza e quello di mezzadria? Creazioni medioevali! Le principali forme e tecniche del credito e dell'attività bancaria, le società commerciali articolate in succursali e filiali e società per azioni? Creazioni medioevali! La lettera di cambio e l'assegno bancario? Creazioni medioevali! E si potrebbe continuare l'elenco, senza difficoltà".
La creazione del concetto di Medioevo come "terra di nessuno" o come "tempo senza qualità" è dovuta innanzitutto agli umanisti, poi agli illuministi. E contro questo concetto si sviluppano l'analisi e le ricerche appassionate di Le Goff, il quale si pone alcune domande fondamentali: esiste un uomo che si possa definire "medioevale"? Che rapporto ha costui con gli uomini, che noi siamo oggi? Non si tratta di giochi di parole, ma piuttosto di vedere se, quanto meno dal Mille al Millequattrocento, è possibile rintracciare nel mutamento storico (che c'è stato, anche se lento, paragonato -ovviamente - a quello del nostro secolo) una costante comune alle generazioni vissute in quei secoli, agli uomini che occupavano nelle società posizioni (i cavalieri e i monaci, ad esempio) e svolgevano diverse funzioni (i mercanti e i professori delle università). All'interno di dieci "tipi" (alcuni viventi ancora oggi, come i cittadini e gli artisti; altri quasi scomparsi, come i contadini e, forse, i santi) sono più lampanti, e veritiere, le diversità o le somiglianze?
Messe le domande su questo piano, ogni storico può giocare su due piani: scava, da un lato, all'interno del concetto (di povero o di cavaliere) per trovare le ragioni di una persistenza del significato e quindi di una realtà; dall'altro, insegue le tracce, alcune volte anche vistose, altre più sottili, di un cambiamento che porta, proprio dal Mille al quindicesimo secolo, la categoria - prendiamo ad esempio l'intellettuale - dal monastero alla scuola di città e poi alla corte...
Magnifica l'immagine di Le Goff della vita come "patto sociale, di compromesso" per sopravvivere: questi uomini, dotati di funzioni molteplici, capaci di lavori così diversi, di preoccupazioni e di attitudini differenti, si incontrano, si urtano e finiscono per concludere un patto tacito di convivenza, non sempre pacifica. Una immagine che troviamo efficace, perché ci piace sottolineare di quest'epoca medioevale (presentata un tempo banalmente come età dell'ordine e dell'organicità) le tensioni, soprattutto quelle dell'immaginario, combattute a colpi di definizioni nelle scuole.
Il tema della polivalenza dell'età medioevale, e quindi della sua complessità che resiste, fortunatamente, alle definizioni spicce e alle formule, è rinforzato da una varietà di casi ormai ampiamente studiati. Prendiamo ad esempio il monaco: quest'uomo che vive, o aspira a vivere, solo, un uomo che nella definizione di allora "è colui che piange per tutti", mortifica i suoi desideri, censura i suoi segni, tenta di sradicare all'inizio le sue passioni. Leggiamo le lettere di Bernardo di Clairvaux, di Noberto di Xanten, di Pietro il Venerabile, e troviamo una pienezza emotiva, una esuberanza di sentimenti, e spesso una vera felicità di comunicare con gli altri. E non si tratta di qualcosa che, represso, sfugge al controllo, ma al contrario, è proprio il frutto di quella disciplina che sarebbe meglio chiamare "educazione sentimentale" avant-lettre.
E ancora: ecco il cavaliere che vive, secondo Cardini, "tra la violenza e la pace, il sangue e Dio, la rapina e la protezione dei poveri": egli ha una parte essenziale nella "scoperta dell'amore moderno", e il suo atteggiamento oscilla tra la violenza oscena, la raffinatezza della gioia d'amore e la melanconia dell'"amore lontano". Un altro caso umano polivalente: la maggior parte degli uomini medioevali vive in campagna stabilmente oppure, come i signori e i mercanti, non può pensare di non avere casa anche in campagna, dal momento che l'agricoltura è la maggior fonte di ricchezza (e lo sarà ancora per alcuni secoli, in Occidente; fino all'Ottocento):
ma la città è una immaginazione prevalentemente felice, persino tra i religiosi, eccetto che per alcuni inguaribili asceti. Nella vicinanza con altri esseri umani si può trovare modo di comunicare le proprie idee, nota un francescano spagnolo del 1200; non si è mai soli con le proprie melanconie, e la melanconia, si sa, "dissecca le ossa e toglie forza alla vita". Questo è forse un tema sorprendente per alcuni: viene dal Medioevo la più energica battaglia contro la melanconia, che è vista come "disperazione colpevole".
Ma c'è un altro tema che ci sta particolarmente a cuore: quello della donna. La donna non è una funzione, è noto, ma nel Medioevo è uno "stato", una categoria forte."Prima di essere contadina, castellana o santa, la donna è caratterizzata in base al suo sesso, al suo corpo, alle sue relazioni con i gruppi familiari. Che si tratti di spose, di vedove o di vergini, la personalità giuridica e l'etica quotidiana sono state tratteggiate nel rapporto con un uomo o con un gruppo di uomini". Posizione che non mancherà di sollevare critiche, perché sembra che ricacci la donna nella soffocante atmosfera domestica, in una sfera di attività priva di rilievo, rinforzando una visione riduttrice della condizione femminile, prospettiva rischiosa, certamente, ma ineccepibile, che oltre tutto ci libera dal pericolo (lo storico lo teme più del diavolo) dell'anacronismo. A questo esame, tuttavia, bisognerebbe aggiungere un'analisi sui rapporti tra donna e cultura, che nel Medioevo furono tutt'altro che inesistenti. La donna nel monastero, badessa o semplice monaca, ebbe fino all'entrata dei nuovi ordini francescano e domenicano (nel secolo XIII) una possibilità per quei tempi eccezionale di far cultura in proprio, di scrivere e di organizzare l'insegnamento alle consorelle, di accedere alla modesta biblioteca (dove, però, accanto alla Bibbia c'era l'Ars amandi di Ovidio, insieme con Virgilio, con Lucano, con Terenzio): le belle pagine di Ildegarda di Bingen sono lì a dimostrarlo. Governare il piccolo cosmo del monastero spingeva inoltre i migliori talenti a mettere per iscritto la loro esperienza nel chiostro, ed esigeva una mente vigile e una cultura sempre attiva.

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000