§ L'inedito

Giorni in ospedale




Enzo Panareo



In ospedale, già quando si sta per approssimarsi al primo mese di degenza e ci si sente del tutto incapsulati nella morbida ed inquietante atmosfera degli afrori umani d'ogni tipo e degli odori di farmaci e di disinfettanti, le cose di fuori, uomini ed interessi, pensieri e fatti, cronaca e storia, cominciano a rimpicciolire. E questo avviene secondo un processo di tipo psicologico, del quale, peraltro in ritardo, ci si accorge che non sono stati intuiti, a mano a mano che si sviluppavano, i meccanismi.
Dopo un paio di mesi di degenza, poi, quelle cose appaiono ancora più piccole, come assorbite da una incomprensibile inedia, smagrite al pari della propria faccia, delle proprie braccia - oh, i polsi che trascolorano da un giorno all'altro dal nero al violaceo cattivo a causa delle flebo che, inclementi, fuoriuscendo dalla vena hanno reso volgare l'arto! -, delle proprie malferme gambe di malato! Ad un certo momento quelle cose - cui pure un tempo s'era stati legati, alle quali ognuno aveva copiosamente attinto per dare un senso ideale alla monotonia delle giornate implacabilmente succedentisi -, divenute ormai microscopiche, atomi galleggianti in un universo stinto, cui si teme di non dover più appartenere, si dissolvono del tutto. Quelle cose, creature ed interessi pratici e morali, sono state come assorbite, anzi risucchiate, da una caligine nella cui inafferrabile dimensione - una fumosità della coscienza, come quella consegnata alla lastra radioscopica ed osservata con sincero sgomento sul monitor luminoso, che malignamente circonfonde i polmoni ogni malato è stato come vanificato, non più creatura che ama e pensa, ma automa da lubrificare perché possa continuare a funzionare! Il bello è che quando si esce - ed ognuno spera che avvenga presto, è chiaro, ed è, questa, l'unica ragione che aiuta il malato ad attraversare con una certa carica interiore l'ignavia, intollerabile, di giornate senza fine -, non importa come - questo impegno è riservato al destino personale, che non ha nulla in comune con la medicina -, quando ci si ritrova all'aperto, tra gli uomini, in mezzo al traffico, nel groviglio quasi sempre scellerato, dei sentimenti, parte di quel traffico, soggetto di quei sentimenti, quelle cose, che avevano cominciato a rimpicciolire, e s'erano poi dileguate nella foschia dell'indifferenza, non riescono a riassumere la loro dimensione originaria.
Quelle cose, perduta la loro valenza, positiva o negativa chi potrà mai dirlo?, originaria, quella che ne faceva dei dati esistenziali indispensabili, non ricompaiono più nella loro determinata mansione ed è necessario, anzi indispensabile, che, scovate da qualche parte delle alternative, ognuno ci metta, al loro posto, altre cose. Altrimenti si va avanti, giorno dopo giorno, per un bel po' purtroppo, con una sorta di opacità interiore, che quasi quasi - chi l'avrebbe detto - fa rimpiangere quelle giornate neutre e, nel loro asettico ordine, disordinate, innaturali, caliginose, intessute di vaneggiamenti ad occhi aperti, di fantasticherie prive di senso, di miserie di tipo, per così dire, fisiologico, indispensabili al recupero della salute.
E' questo, in definitiva, il senso di quell'esistenza terribilmente monotona, il cui scorrere è contrassegnato, anzi è scondito, dal colore del sangue e dall'odore, acuto e penetrante, dei disinfettanti, dal fruscio confortante delle vesti delle infermiere, dal vociare rassicurante degli infermieri.
Ci sono domande, come leziosi convenevoli in società, che i malati si scambiano: - Come ti senti oggi? Hai i dolori? Quando ti portano in sala operatoria? Non ti pare di star meglio oggi?
Le risposte sono rappresentate, molto spesso, da monosillabi appena percettibili, da sguardi assenti, annoiati, patiti, sottolineati, in qualche caso, dal regolare precipitare, acquoreo ed allucinante, dei grani liquidi della flebo. E', questo, il rosario della speranza: domani non ci saranno più i dolori, ed il raggio di sole novembrino che a fatica filtra dai rami indolenti d'un alto pino marino possa apparire come l'augurio di una giornata veramente indolore.
E ci si augura, nel corso di questa, che coloro i quali sono rimasti a casa, un fascio compatto di sentimenti, moglie e figli, donne e uomini, riassumano un bel giorno aspetto umano, avendo dimesso quello larvale che qui, nella fantasia ottusa hanno assunto; ci si augura che quelle creature non appaiano più, ad un certo momento, sfilacci rosi di un mondo che si finisce col disperare di poter recuperare, definitivamente, nella sua pienezza esistenziale.
Ogni malato, in effetti, si sente tranquillo, adagiato nella propria febbrile alcova, disimpegnato, tutto abbandonato nell'inerzia malsana, sicuro che c'è chi si deve preoccupare per lui: è il medico - la figura carismatica di questo luogo - che ha in mano la cartella clinica di ogni degente - talvolta, tanto è piena, sembra il fascicolo di un processo giudiziario -, sulla quale sono meticolosamente annotate tutte le magagne di un corpo riottoso, che ha cominciato a non volerne sapere più di funzionare come si deve. Perché, in realtà, per i degenti di una certa età, quel corpo, infine, è stanco e non chiede che d'essere lasciato al suo inevitabile destino.
Ma è poi vero?
Ma loro, i medici, debbono curare i degenti: è il loro mestiere!
Ad osservarli bene, infatti, ad osservarli con sincera partecipazione, è facile capire che non solo lo fanno bene, il loro mestiere, ma lo fanno anche con grande amore.
(Un giovane medico, dal volto fresco e dall'aria sempre triste: raramente sorride e quando sorride, mestamente, esprime una grande sofferenza interiore!)
E tutto ciò accentua questo senso d'irresponsabilità di ogni degente, di disimpegno, di rinuncia al pensiero di se stesso!
Il proprio fragile corpo, l'involucro destinato a perire (è in questo luogo che una tale consapevolezza diventa cocente!) - con tutto il peso, nobile e ignobile, che l'accezione comporta - diventa, nelle spire attorcenti di sentimenti del genere, un altro da sé, che ogni malato vuoi sentire guarito ad ogni costo. E muove la rabbia - si tratta di un sentimento tutt'altro che nobile - la salute degli altri, almeno fino a quando non si considera che quelli che stanno bene, magari, celano nel loro esuberante corpo chissà quante insidiose magagne.
Ho pensato, nello scorrere delle ore tenendo gli occhi fissi alla volta alta, a cupola, ed ingrigita dalla polvere, della stanzetta nella quale sono ospitato, a quattro testi di buona letteratura: Le Malade imaginaire, più volte letto in edizione originale, visto in teatro; I morticoli (Les morticoles) di Léon Daudet, nella prima, e forse ultima, edizione italiana del 1929 - un libro orrendo, portatore di una macabra ideologia della medicina, una cinica satira del mondo della malattia e, soprattutto, della terapia, ma un libro, tuttavia, che dev'essere letto come un indispensabile vaccino (un libro che mi segue da quando ero adolescente e leggevo ogni cosa che mi capitava sotto mano) -; La montagna incantata, raffinato ed inquietante; un insinuante, folle, racconto di Buzzati dal titolo Sette piani: c'è, in questo testo, una dimensione maledettamente terrorizzante dell'immaginario della patologia, che è la dimensione, eternamente incombente, della morte, gradatamente e fascinosamente recuperata sul filo della fantasia, lucida ed esaltata nello stesso tempo, dell'indimenticabile Buzzati. Al quale, peraltro, si deve il riconoscimento di molti dei mostri che affollano la nostra giornata di uomini di questo tempo convulso.
Ma chissà quanti altri libri del genere ha la narrativa italiana e straniera, magari letti, riletti, che tuttavia in queste ore non tornano alla memoria per chissà quale incomprensibile rimozione.
In quel luogo assurdo nella sua inesorabile concretezza, in quell'universo morbidamente concentrazionario dal quale si teme sempre d'essere sopraffatti, le varie descrizioni della peste - Boccaccio, Manzoni - con la loro autentica tragicità, avallata dalla qualità poetica, con la loro carica testimoniale mi facevano pena e se non temessi d'apparire volgarmente dissacrante, si potrebbe dire che provocavano un senso di nausea! Quelle descrizioni, in quel luogo, riattualizzate sul filo della memoria debilitata, mi comunicavano un senso di profondo malessere ed anziché pensare ai gemiti ed alle piaghe descritti dal Boccaccio, dal Manzoni, preferivo pensare a quella mia ferita che non sembri assurdo anche questo - mi teneva tanta compagnia.
Sarei tornato ad ammirare, ad amare anche magari, quelle descrizioni fantastiche eppur tanto reali, una volta tornato tra i... sani.
Schiuse le imposte sulla diffusa penombra del giorno che nasceva, osservavo per qualche minuto, come stupito - e, magari, indispettito - la vita della natura che fuori continuava serenamente secondo i ritmi consueti, il tranquillo svettare degli alberi sulla strada già percorsa dai primi, frettolosi, veicoli della giornata. Della retina metallica, arrugginita ed impolverata, dominava la mia stupefatta osservazione uno squarcio, in alto a destra, che dava il senso di una ferita insanabile. Un lembo di quello squarcio, piegato in basso e vibrante alla brezza del mattino, mi comunicava un malessere indescrivibile. Guardavo come affascinato quel brano di metallo, sopraffatto da una malia della quale non riuscivo a liberarmi.
Il nuovo giorno, talvolta, s'annunziava attraverso le lacerazioni prodotte sul cielo, sulla cui volta ancora qualche stella resisteva, dagli alberi alti, indolentemente ondeggianti, con irregolari striature d'un tenerissimo rosa che in qualche punto diventava cupamente violetto. Poi, a mano a mano che i minuti trascorrevano, era come se i colori, i toni del cielo andassero assumendo una loro prepotente consistenza, a ridosso della quale appariva finalmente il primo raggio di sole.
- Oggi la giornata è buona - diceva qualcuno, generalmente, a quell'ora ero io che scendevo a terra per primo -, non pioverà e forse ci entrerà il sole in camera!
Quel sole in camera, puntigliosamente atteso dalla nostra emaciata sensibilità di malati, voleva significare coraggio e speranza, voleva rappresentare auspicio fecondo di buona salute. E allora di rapido ritorno alla vita di tutti i giorni, alle lotte quotidiane, agli amori e ai contrasti. Sempre che, naturalmente, tornasse, una volta fuori, la voglia di queste cose!
Tuttavia, in quella stanzetta di non molti metri cubi, durante tutta la notte tre malati avevano respirato e l'aria, naturalmente, era pesante. Me ne rendevo conto praticamente uscendo un attimo nel corridoio, dove avvertivo un fresco pungente, e subito rientrando per rimettermi a letto: stava per sopraggiungere il carrello con la terapia. Infatti, s'avvertiva il rotolare metallico delle ruote, poi risuonavano i cognomi di coloro ai quali toccava un qualsiasi trattamento ed appariva, finalmente, nella piena luce del giorno ormai, l'infermiere o l'infermiera con la compressa, con la siringa pronta, con la flebo da innestare.
Ma ormai il sole era già alto ed un raggio, come una benedizione, facendosi strada attraverso i rami degli alberi ed attraverso la retina metallica ed i vetri, veniva a confortare con una tenue speranza la giornata, in pieno svolgimento ormai, dei malati.
Un uomo cui è cominciata a venir meno la razionalità, un uomo dalla sensibilità compromessa -miseria, alcool e chissà che altro -, probabilmente già un relitto cui la vita ha inesorabilmente assegnato un destino di vittima da tenere ai margini, ne azzanna un altro alle spalle, a pochi chilometri dall'ospedale, e gli ficca la lama di un coltello a serramanico nel petto, all'altezza della clavicola destra.
Il ferito è subito trasportato all'ospedale, dove, peraltro, gli chiedono se il fatto è accaduto allo stadio!!!
I medici ricuciono il ferito per bene: dopo alcuni giorni se ne torna a casa, del tutto restaurato.
Ma, ove la lama fosse andata un tantino più giù o più in là, poteva finire drammaticamente.
Valeva la pena? Dunque, tutto consisterà nel chiarire le ragioni, più o meno misteriose, di quel gesto incontrollato - non è nemmeno possibile definirlo folle! - e inutile. E' chiaro, infatti, che il feritore, mescolando dissennatezza e paura, non poteva uccidere: se avesse voluto uccidere, d'altro canto, avrebbe saputo dove colpire.
Tutto si concluderà, tra alcuni mesi, se non di più, con uno scialbo, monotono, procedimento giudiziario, tutto sommato privo di molte conseguenze per il feritore. Chissà se sta ancora nel carcere. Lo trovarono i carabinieri, la mattina dopo, infreddolito e stranito, con addosso indumenti non suoi, in un quadrivio che incanala il traffico automobilistico fuori città.
Qualche nota di cronaca su due quotidiani ha permesso versioni differenti dell'accaduto e banali illazioni. Entrambi i giornali sono stati concordi sullo stato di confusione mentale nel quale versava il feritore: un volto - così lo riproducono i giornali - truce, un "colpevole" vero e proprio. Ma è chiaro che si tratta di persona fuori di senno.
Unica nota sinceramente viva in tanto squallore, un irsuto maresciallo della polizia, sciattamente vestito con blue jeans e camiciola svolazzante sulla pistola d'ordinanza fermata alla cintura dei calzoni, ancora baffi spioventi e inizio di una folta barba. Sembrava - non fosse stato per l'arma che fuoriusciva quando l'uomo si muoveva sollevando, per esempio, il braccio destro - un collaudato scaricatore dei mercati generali. Costui, un paio di giorni dopo il fatto, interrogò, forse senza molto approfondire - tanto, già sapeva come andrà a finire: ma la legge, si dice, deve fare il suo corso -, il ferito. Appoggiando il foglio sull'ampio davanzale della finestra, un agente, in abito civile anche questo, trascriveva il verbale, cioè la versione del ferito. Ma si capiva subito che tutti e tre stavano costruendo la colpevolezza del feritore! Il ferito, dal canto suo peraltro, non chiedeva che d'essere lasciato in pace o, quanto meno, di poter dire il minimo possibile di parole. A lui importava, innanzi tutto, d'essere uscito dalla disavventura con pochissimo o nessun danno e poi d'avere a che fare poco o niente con polizia e magistratura...
Sulla notte attraversata con un esasperante dormiveglia, gravava nell'ora antelucana l'angoscia per i lamenti laceranti che ininterrottamente s'erano levati dalla stanza accanto. Più che lamenti, talvolta, a mano a mano che le ore trascorrevano minacciosamente ricolme di tragedia ed il male s'accingeva a portare a compimento la sua nefasta opera, urla rabbiose, strappi velenosi e indicibili delle visceri martoriate, espressioni di un dolore fisico di chissà quale disumana intensità.
Quella pena aveva invaso, come un tossico, tutto il reparto!
L'avevo visto qualche giorno prima: un uomo macilento, dallo sguardo già quasi del tutto spento, cinereo nel volto dai tratti già affilati nell'attesa del transito, rassegnatamente in silenzio mentre intorno s'indagava per un letto nel quale sistemarlo. Proveniva da Roma - almeno così fu detto da qualcuno dei familiari - dove probabilmente il suo destino era stato segnato. Dal corridoio, nel quale quell'uomo aspettava, e, con lui, i parenti, fu portato in un altro reparto. Non c'era un letto libero. Tornò nel nostro, dove gli toccava vivere gli ultimi suoi giorni, dopo meno di una settimana.
Dopo due o tre notti, sempre segnate da sofferenze inenarrabili, quella fu l'estrema. Si spense sull'eco prolungata ed agghiacciante di una feroce bestemmia scagliata contro un universo sordo a qualsiasi sentimento di pietà. Dio, in quel momento, fu per quell'uomo il male che non si può accettare: Dio fu, in effetti, la prima, sanguinosa colpa dell'Adamo primigenio nato per il dolore...
Quando, poco dopo, apparsa la prima luce del giorno, m'affacciai sul corridoio, m'accorsi che il letto di quell'uomo era stato isolato da un separé di stoffa verde.
L'oscura grandezza della morte circondava ormai quella spoglia che i vivi cercavano, invano, di esorcizzare!
Senza dubbio, il Signore clemente avrà chiamato a sé, nel suo regno vastissimo e senza dolore quell'uomo le cui ultime parole erano state una feroce bestemmia.
Un pallido sole mattutino - s'era appena levato - indorava le cime degli alberi e si sfilacciava attraversando i rami che anche d'inverno conservano folte le chiome. Qualche nube viaggiando prestamente verso levante liberava il cielo da ogni impurità. S'udiva insistente, come un monito infausto, il gracchiare di una gazza. Questione di qualche minuto ancora ed un azzurro tersissimo sarebbe riuscito a rendere meno opprimente l'angoscia dei degenti.
Nel reparto di chirurgia era già avviata la vita di tutti i giorni. Passato il carrello della prima terapia della giornata, era la volta di quello del latte e dell'orzo caldo che, in questo caso, in questo luogo, riesce ad avere, fortemente zuccherato, un sapore gradevole. Infine, prima del passaggio dei medici, la pulizia del gabinetto e della stanza: odore di detersivi e umidità dal pavimento bagnato.
Intanto, sulla sedia a rotelle, accuratamente avvolto in una coperta - ho l'apparato respiratorio piuttosto compromesso - mi portano in radiologia. Preoccupazione per il lungo corridoio, con porte e finestre spalancate, da attraversare. Dal giardino intorno veniva un'aria fredda che metteva i brividi. Meno male per la coperta nella quale, al caldo, mi sento come in un guscio. Un giovane, dello stesso reparto nel quale ero ricoverato io, seguiva pazientemente l'infermiere - volto dai tratti marcati di chi lavora sulla terra, sguardo intelligentemente mobile, eloquio abbondante e gradevole -che spingeva la mia sedia a rotelle. Aveva gli occhi lucidi del febbricitante e si riparava il collo con il bavero di una stinta giacca da camera. Era manovale nei cantieri edilizi. In chirurgia era venuto per lo stesso male per il quale ero venuto io. Aspirava ad una pronta guarigione per poter tornare a lavorare...
Nel corridoio passava frettolosamente qualche medico, un infermiere scambiava un saluto o una battuta di spirito con questo al quale eravamo affidati. Costui stringeva nella sinistra - la destra gli serviva per spingere la sedia - le nostre cartelle cliniche. Due o tre visitatori, diretti in chissà quale reparto, gettarono uno sguardo impietosito al nostro gruppetto.
Incrociammo una ragazza dall'aria procace: seno ben sostenuto, fianchi sodi, gambe forti. Il volto, senza ombra di trucco, di donna decisa che sa quali sono le armi migliori per combattere la battaglia della vita. Dalla busta di plastica, ferma al petto della ragazza, traspariva un thermos, qualche scatolo di biscotti, forse della biancheria pulita, un fascicolo di fumetti. Magari, andava a dare il cambio, da qualche parte, a qualcuno che aveva trascorso la notte accanto a qualche malato. Un bambino? Un ragazzo?
Sulle forme fisiche di questa ragazza, tutto sommato abbastanza provocanti, il nostro angelo custode con sorriso bonario fece scivolare l'ombra di un discreto apprezzamento che lasciò intravedere, molto alla lontano, la suggestione di un'ora d'intimità con quella ragazza...
Ma eravamo già arrivati in radiologia.
Si tratta di attimi e riesco a dare un'occhiata alla piazza, a forma di esedra, nella quale sorge il fronte dell'ospedale con la sua architettura antica, d'altra epoca: c'è tutt'intorno la luce liquida di una splendida mattina di tardo autunno. Sole copiosamente diffuso sulle case. Qualche veicolo nel viale che dalla città porta all'ospedale. La giornata ha assunto la sua dimensione vitale.
Ma quello era il mondo di fuori: non m'apparteneva!
Una mattina, all'alba, morì Centonze. Novantunenne, antico tronco nodoso uscito indenne da chissà quante bufere familiari e di lavoro, esprimeva, nelle sue ultime tre o quattro settimane di vita, una sua tragica ilarità che lasciava amaramente esterrefatti coloro i quali ascoltavano il vecchio parlare - si fa per dire -, naturalmente, rievocare. Che, d'altronde, ad una certa età ormai, non si parla che per rievocare, quando se ne ha voglia - e se ne ha sempre meno -, o per lamentarsi.
Le sue braccia - per un paio di notti dormì in un letto accanto al mio, che fu poi occupato da un bambino di appena sette anni - sembravano rami contorti ed anneriti d'uno di quegli ulivi secolari che il libeccio insidioso o lo scirocco dolciastro o la tramontana violenta squassano e mostruosamente plasmano nel corso dei secoli.
Sul faccione cotto da tante e tante giornate di sole, irrigato da altrettante giornate di umidità e di pioggia, percorso da fittissime trame di rughe, Centonze aveva conservato una sua inalterabile e pacata dignità, sottolineata, all'ombra del naso grosso e pronunziato, dall'arguzia, quasi metafisica, di un unico dente al centro della bocca. Da questa ormai uscivano soltanto suoni rauchi, imploranti, appena percettibili e certi grotteschi e malinconici frammenti di canzoni di guerra - la cadenza musicale bisognava intuirla - che richiamavano alla memoria l'impresa libica, l'Isonzo, il Piave e così via.
La patria, infatti, due o tre volte nello scorrere impietoso degli anonimi decenni e dei sobbalzi micidiali della storia, aveva avuto bisogno di quest'uomo oscuro e senza storia ed ogni volta, essendo riuscito lui a tirar fuori la pelle dalla tempesta, lo aveva restituito senza un cenno di ringraziamento al suo lavoro di muratore. Adesso era Cavaliere di Vittorio Veneto e lui, giustamente, ne andava fiero.
Ma alla fine di ogni rievocazione, Centonze sosteneva di non sapere perché aveva combattutto. Ignaro di politica militante o di ragioni storiche o, peggio, di ragioni di Stato, Centonze confessava, con sbalordita ingenuità fanciullesca, di non ricordare d'aver avuto nemici in guerra. Non erano, quelli, nemmeno nemici di chi aveva mandato Centonze a combattere. Diceva Centonze: - Chissà di chi erano nemici i caduti, nostri e loro, che incontravo lungo le strade, al fronte. Io, continuava Centonze, non c'entravo per niente...
Poche volte, quasi mai, o mai addirittura, Centonze avrà tirato contro gli uomini con i quali una sola cosa non aveva in comune: l'uniforme. Con quegli uomini Centonze aveva in comune i disagi della vita dell'operaio. Quella dell'operaio è una uniforme valida sotto tutte le bandiere. Per questo quell'uomo massiccio e saggio, in guerra, non aveva avuto nemici contro i quali tirare con il fucile o con la mitragliatrice. Per questo, forse, era morto in un letto d'ospedale, dimenticato dalla patria...
Nel vigore delle sue energie produttive, Centonze aveva costruito interi quartieri di palazzi, case e case, in città. Ancora adesso, dopo non molti anni d'inattività - aveva continuato a lavorare con sulla groppa un bel carico di anni -, si compiaceva d'essere un esperto di volte. Ne citava, parlando, lucidamente, alcuni tipi, dei quali descriveva, con abbondanza di particolari, le caratteristiche strutturali e le opportunità abitative.
Indelebile era, in Centonze, l'orgoglio per il lavoro onestamente compiuto.
Le due figlie che venivano a trovarlo a ore fisse, per la colazione, il pranzo, la cena ma ormai il vecchio, un giorno dopo l'altro, prendeva sempre meno, non avendone forse né la voglia né le forze -, una delle quali suora e medico in un ospedale di una cittadina nei pressi di Roma, ed era stata costei a chiedere alla natura, fidando peraltro nella grazia divina, più di quanto la natura, e la grazia divina potevano dare, ogni mattina gli creavano, nella misera area del letto, parlando - la suora specialmente - con toni mielati, leziosi, la malsana atmosfera sudaticcia di sporco rozzamente camuffato dai tovagliolini profumati che elegantemente si estraggono da piccoli contenitori di plastica.
Ci fu, in quell'alba sciroccale, quando il destino del vecchio, ormai allo stremo, stava per compiersi, un affrettato andirivieni, di infermieri e di infermiere. Un medico assonnato premurosamente sopraggiunto da un altro reparto scosse il capo, sconfortato, poi ne venne un altro e venne qualche paziente, insonne e curioso. Ci furono parole sussurrate concitatamente, qualche suggerimento fu convulsamente pronunziato.
Ma non ci fu nulla da fare: il vecchio tronco era stato inesorabilmente abbattuto da una natura equanime che ormai non aveva più linfa da dargli.
Poi venne la volta della lunga cassa metallica nella quale il povero Centonze iniziava, forse con ancora sulle labbra esangui i frammenti residui di vecchie canzoni di guerra, il suo viaggio nelle profondità impervie dell'ignoto.
E' confortante pensare che, per una sorta di mitica fatalità, di oscura volontà, del destino, il vetusto e incrollabile tronco, ancora in vita, sia andato ad affrontare radici altrove! Magari, in uno di quei viali cittadini di estrema periferia, silenziosi e ricchi di aria pulita, allietati, quando la primavera avanzata incoraggia con i primi colori dell'anno, dal cinguettio insistente degli uccelli e dalle parole d'amore pronunziate di sera sottovoce, mentre brezze fresche provengono dalla parte del mare, dai ragazzi che si amano.
Uomini come quello non muoiono tanto facilmente!
Come sono grotteschi, infantili, coloro che stanno per tornarsene a casa.
Emaciati, pallidi, malfermi sulle gambe, con gli abiti che sventolano addosso tanto sono diventati larghi per quei corpi diventati invece magri, impacciati nel camminare per colpa della debolezza, ma anche delle scarpe che, dopo tanti giorni di pantofole, pesano ai piedi. Sorridono increduli, agitando nervosamente con la destra il cartellino sembra il foglio di congedo militare - e accingendosi, non senza sgomento, a ricominciare tutto daccapo. Aspettano come fanciulli all'uscita dalla scuola i familiari che stanno venendo a rilevarli.
Una volta a casa, con le loro ridottissime energie, si sentiranno, dopo tanto assenza, come degli estranei - e sì che non vedevano l'ora d'uscire dall'ospedale, aspirando ardentemente al momento in cui avrebbero recuperata la loro compromessa personalità - temendo, con un sussulto della coscienza, che qualcuno dei familiari - la moglie, qualche figlio - chieda che cosa son venuti a fare in questi ambienti dai quali s'erano allontanati, con la sirena o con la valigia, uno o due mesi fa.
In quegli ambienti consueti, quelli di casa, sorridono con volto dal quale sono stati cancellati i sentimenti più comuni, facendo sforzi psicologici enormi per riacciuffare un possesso nel cui calore prima si sentivano sicuri.
Adesso si tratta di riconsiderare i termini umani e sociali di una convivenza che l'atmosfera, ovattata e insicura, dell'ospedale è riuscita a dissipare brutalmente.
La casa è la mamma, non c'è dubbio! Ed ogni convalescente, appena tornato a casa, almeno per i primi giorni, si sente ancora orfano dal momento che s'è lasciato alle spalle un'altra mamma che amorevolmente lo ha curato ed allora l'ha lasciato andare quando è stata sicura che il figlio, almeno clinicamente, era guarito.
Anche la mamma naturale sa quando il figlio malato è guarito. Non lo sa, però, scientificamente: ecco tutto!
Allora è tutto assurdo. Ed in quest'assurdo rientrano anche i repentini silenzi che sopraggiungono dopo un convulso ricordare, raccontare - lo sguardo è fisso nel vuoto di una realtà con la quale ognuno si augura di non doversi più scontrare -, i vuoti dell'anima che colpiscono a tradimento, i ricordi amari che si fa di tutto per esorcizzare. Forse soltanto il dolore fisico è in grado di dare un po' di sapienza, di quella sapienza accumulata, nello scorrere convulso dei millenni, dal pianto con il quale l'uomo inesorabilmente viene alla luce.
Oh, la sapienza!

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