§ Bottega delle spezierie

Un velo, uno sbuffo, forse un tuono blu




Antonio Verri



Tutto cominciò con una telefonata: Sono il farmacista di. E segui il nome di un piccolo paese del Salento. Sono un farmacista e ho scritto un poema eroicomico. Telefonava a me come editore. Oddio, pensai, un farmacista di un paesino che ha scritto un poema eroicomico. Stavo per dire no alla sua richiesta d'appuntamento, quando aggiunse: è in esperanto... ma non è l'esperanto... !
Fine della cronistoria. Il libro è qua davanti a me: I loro uomini morti per Giasone, ed ha chiuso la collana e la storia di "Pensionante de' Saraceni".A farmacisti si trasferiscono di rado. Quei loro vasi verde e oro sono troppo pesanti da rimuovere": è Joyce e sta parlando di Sweny il farmacista in una delle tantissime occasioni dell'Ulisse. La citazione non è casuale. Costantino Giannuzzi non nasconde di essere un lettore figlio di Joyce. Ma non è questo il problema. Da Joyce si parte sempre. Sono partiti in tantissimi in questo secondo Novecento. Quello che Giannuzzi ha assorbito da Joyce è presto detto: l'amore per la trascendenza, l'amore per le combinazioni di lingua e idee. E' molto congeniale a Giannuzzi scivolare sul testo, carico com'è di livore, di innocenza e di ironia. I loro uomini morti per Giasone: fughe le più disperate, in ogni senso, e lui è lì che sorveglia e spande e dilata e scivola, o solamente affida, divertito e attento, i suoi umori ad un lessico angosciante, ironico e primordiale. La sua parola neanderthaliana (non poteva essere di nessun altro tipo!) è pronta, sfottente, solitaria: in realtà ruba alla vecchia parola usata quel tanto di disperazione necessaria alla creazione, al dramma, al pathos, alla foné... Pare in definitiva indicarci il rimedio per l'abisso che vomita e l'ombra che perseguita: e bisogna far presto, occorre annotare subito prima che qualcuno ci sorprenda, prima che qualcuno ci ammazzi! Occorre anche dire. Un romanzo come questo non andrà mai al "Campiello", per esempio, e non perché è stato partorito ed edito in questa periferia infinita e nelle condizioni che tutti possiamo immaginare (si continua a mangiare polvere in provincia!). No. Non andrà mai al "Campiello" solo perché non è un libro "per l'italiano medio", o perché magari non è protetto da quella cerchia che non molto tempo fa Guido Almansi chiamava degli "Intoccabili" (Moravia, Sciascia, Ceronetti, ecc.). "Osanna e trombe angeliche" che squillano anche quando qualche loro opera è una enorme bruttura: sono questi gli "intoccabili".
Ma. Forse non solo non arriverà al "Campiello", ma addirittura non sarà manco notato, perché il critico oggi - ce lo diceva Bàrberi Squarotti nel "Tutto libri" del 26 settembre 1987 - è "perduto nel rito dei bilanci, degli auspici, delle lacrime, delle dichiarazioni morali o politiche o sociologiche" o magari è intento a "coltivarsi i fiorellini della propria setta o gruppuscolo". Niente male. Sembra un così gran carnaio, o veramente un mercato della bruschetta, la letteratura oggi in Italia: e questo discorso non lo si tira fuori solo per Giannuzzi, pensate a quante dimenticanze (per esempio Pizzuto) o a quante disattenzioni (per esempio Gennaro Lombardi: ma non si contano). Così gira.
Torniamo a Giannuzzi e ai loro uomini morti per Giasone. Ottimo narrato, ottimo respiro, ricerca e attuazione di una sonorità: e qui Gadda o Consolo o il miglior Meneghello non c'entrano, c'entra semai il solito Joyce (più del "Finnegan" che dell'"Ulisse").
Ma dire Finnegan vuoi dire opera aperta, vuoi dire tessitura incontrollabile, sviluppo incontrollabile del testo, e i loro uomini morti... va letto in questo senso.
Coscienza continua di sé, lucida disposizione dei propri pensieri, disperazione, allegria, passo, cadenza, misoginia, fallocentrismo, sconquasso, cucitura, sfiducia, disamore, eroi trasparenti, chiaramente negativi, cupi, sospesi a mezz'aria, situazioni che si accavallano come in un gioco cosmico, squarci, ferite e sussulti di questa gaia e a volte intollerabile terra. E su tutto una sua, di Giannuzzi, speciale ironia. Come un velo. Come uno sbuffo d'aria.
Disperazione, solitudine, dicevamo: "52 miliardi di menotti mentali che conoscono il tuo futuroprepx mentre tu solo incespichi nel buio di un'esistenza sfuggèt per il fabbisogno personale, eppure quanti ne hai macinati fino ad ora? Quanti di essi hanno cercato di fermarti, derubarti, ammazzarti ... ", ma di esempi possiamo tirarne quanti vogliamo.
E' questione d'alchimia. Le parole sono là, una segue all'altra. Appena lette, ecco, non poteva essere che casi, non potevano essere sistemate che così... E' questione anche di un modo speciale del Giannuzzi di porsi: una concezione fisico-genetico-chimica da far veicolare nel testo, in letteratura come in pittura o in musica (altri due vivi interessi del Giannuzzi).
Né presenze normali né normali trame, allora, ne I loro uomini morti.... ma identità persa, vuoto, ancora disamore, baruffe con se stesso, e il pensiero sfonda e i tracciati sono puntellati da argentate antenne della mente: senza confini, amici, con nella sporta i segreti dell'evoluzione e tutto quel micromondo che vive fuori dai nostri occhi!
" ... os è la nostra sorte in base ai diversi oggetti usati" e "os" in copto è l'essere superiore, Dio (provate a contare quante volte, comunque detta, appare la parola Dio), ma anche la Poesia, cioè bocca, segno, voce, linguaggio, guizzo infinito. C'è tanta poesia ne I loro uomini morti per Giasone", gridata, taciuta, data in prosa bassa, in dialoghi stupendi, nel volo e nella vertigine di associazioni linguistiche e mentali... "Così parlano i serpenti. Lo si fa per amore"!
I dialoghi poi. Ecco, ha ereditato dal surrealismo di Artaud, Breton, dal piacere della parola chiara brechtiana, dal parodiare giocoso di Joyce, dalle sconnessioni celestiali di Fassbinder.
Fede nella trascendenza, allora. E' un lucido percorso di un misticismo particolare. "Percorro la strada del fattibile e dell'impossibile", sue parole. Ed è facile solo al poeta questo controcanto, questo andarsene volontariamente, questo lasciar questo luogo come un eroe in ciabatte e pantaloni rotti: in fondo un viaggio, il viaggio, non importa se in alto o nel centro della terra. Lo hanno fatto in tantissimi questo viaggio, anzi tutto in letteratura riconduce al viaggio, da Alessandro Re coi grifoni all'Ulisse omerico e joyciano, dal divino Dante allo sbellicato soldato Svejk di Hasek, a tanta letteratura del Novecento.
Esaltazione dei poteri della mente ne i loro uomini morti.... un interrogarsi continuo, a volte con piglio schizoide, a volte con fare lapidario, ma anche appassionato, comunque sempre accorto e lucido. E' così che Giannuzzi insegue tecniche di respiro, tecniche... Elucubrazioni. Un "io" sempre presente, in modo totale. Una festa sontuosa dell'io. C'è una descriptio ne I loro uomini morti per Giasone, c'è un filo narrativo, un ordito, ma soprattutto c'è l'amplificatio, e si può ipotizzare, ma non soltanto ipotizzare, l'autoencomio, l'autoelogio, l'esibizionismo, forse un dialogo con se stesso, una naturale disposizione a trapassare i fatti, ecc. Festa sontuosa dell'io, dicevamo lucida, imponente. E come non riandare a Giordano Bruno, ai Seicento in prosa napoletano, come non arrivare a Vico, e da qui nuovo ritorno a Joyce?
E siamo alla lingua. Invenzione, invenzione. Magia. Alchimia. Molta (ma non sempre) attenzione al suono. Nascita di quello che lui definisce linguaggio neanderthaliano, o esperanto - naturalmente non l'esperanto politico europeo, ma una lingua primordiale, valida per tutti. Anche una lingua dell'immediatezza e dell'imposizione. Giannuzzi, ecco, cuce in modo incantevole, oltre a trapassare i fatti sa anche bene metterli in ridicolo: in lui è naturale, al pari del suo Joyce, la coltre di parodia ma anche di gioco e di lungimiranza di cui usa farcire il rigo. E il cuore? "Chi avrà il cuore?". Sottrarsi ai codici, sottrarsi ai sistemi. E' letterario il discorso (lo apprendiamo da semiologi russi, attraverso la Kristeva) "la cui probabilità di senso è elevata, non chiusa, non definita. Alla ricerca di nuove "specificità strutturali" (è ancora la Kristeva) che eliminino distinzione fra i generi e distinzione tra letterario e non letterario. Il testo è qualcosa senza frontiera. Il testo ha mille signori e mille storie (a guidarle è l'autore), e poi non ha altro. Forse ha ragione Sollers: il testo è il "luogo della totalità, la via dell'infinito". Per l'infinito?
L'amore del volo, dell'innocenza, della babele, del tracciare e del cercare continuamente. E in fondo, e qui viene bene il Grande Irlandese, la storia de I loro uomini morti per Giasone altro non è che la solita storia di ognuno attraverso la storia di Sé. "La demenzialità tocca l'uomo ... ". Oh sì, ma l'uomo è anche preda della poesia, del volo, della vertigine e di quella grossissima arma, quando si tratta di scrittori come Giannuzzi, che è la disgressione.
Giannuzzi teorizza la fine di una umanità non innocente, questo il senso anche de I loro uomini morti.... la fine di una umanità non innocente in modo direttamente proporzionale alla violenza con cui l'umanità non innocente mette a tacere chi di innocenza vive. Non è un gioco questo, e il nostro pensiero corre subito ai "dolori del mondo offeso" della Conversazione di Vittorini.
"Il mondo è grande e bello ma è molto offeso" recita quello che è da considerarsi uno dei più candidi e validi romanzi della nostra letteratura, Conversazione in Sicilia appunto. "Tutti soffrono - continua - ognuno per se stesso, ma non soffrono per il mondo che è offeso e così il mondo continua ad essere offeso". Ecco, la rivolta, anche linguistica, di Costantino viene dalla viva coscienza che il mondo continua ad essere offeso. E lui soffre per questo mondo offeso, ed è per questo che sfodera le sue armi assurde e disperate (e disperandosi ad ogni passo rasenta la poesia, la "pesca poetica"). Per questo Giannuzzi usa il romanzo, quella scrittura. La sua scrittura.
Inseguendo questo, questa innocenza, è costretto (ed è questo forse il segreto de I loro uomini morti... ) a compiere il viaggio di cui si diceva, un viaggio nelle viscere di nonsisachè, ed è qui, proprio qui, che la sua prosa si rimpolpa di ambivalenze e nuovi significati e suoni.
E l'inferno, il Labirinto, il Centro della Terra è ben visibile e leggibile: "Il ratto mi provocò un'insuperabile disperazione con perdita dell'identità. Affondai nel nulla, consapevole di non aver più l'io definito distinto dagli altri dopo la compartecipazione e varcai la porta finale della pazzia. Visioni, spaventosi concetti di spazialità mi giravano in quella sconcertante regione del lobo temporale con violenza pressoché insopprimibile adona".
Ogni mattina il sole si desta e fa le sue vittime. Dove la salvezza? Nella "proliferazione semantica" forse? Nella magia, nell'alchimia, nella irrealtà, nella dilatata realtà degli oggetti che "stavano sentendo la voce inchiodati dallo stupore sovrano" o degli oggetti - come il braccio del re Lancaster - che parlano e parlano o addirittura danno consigli?0 forse soltanto è bene tenere sempre presente che "il terreno su cui si fonda una teoria nuova va sondato duramente finché non ne sgorga la risultante definitiva concepita come strumento capace di generare la verità sufficiente a purificare la coscienza. E' una autentica autenticità"!
Salvarsi come? Col volo "nella lontana terra di nessuno con ogni mezzo di fortuna"? Con qualcosa da esprimere al di là delle parole? Con un vello non tarlato, forse? Sì. Ma forse solo entrando e uscendo dall'eccesso, anche a costo di privilegiare momenti schizoidi, anche a costo di privilegiare disperati monologhi interiori. Allora, come infine definire I loro uomini morti per Giasone? Epifania del mondo che gira (e sappiamo come gira)? Vertigine? Esaltazione della trascendenza data con prosa bassa? Alchimia? Coscienza e disperazione per il mondo che continua ad essere offeso? Forse Giannuzzi lo ritroveremo ancora nel tuono blu!

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