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Saghe meridionali
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Tra "I fuochi del Basento" |
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Gino
Pisaṇ
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Indubbiamente
a Macondo e ai casi dei Buendía, attraverso la cui generazione
Gabriel García Màrquez ha narrato cento anni di solitudine
della gente latinoamericana, hanno pensato quei venticinque lettori
che per primi si sono imbattuti nell'intreccio de I fuochi del Basento,
il romanzo (1) con cui Raffaele Nigro ha vinto il Campiello 1987. A
me sembra, invece, che quest'opera rimandi più lontano, che si
collochi lungo il solco, tutto nostro avrebbe detto Quintiliano, del
romanzo sociale e che abbia i suoi referenti più remoti nel manzoniano
impasto di storia e invenzione (una storia riletta dalla prospettiva
dei vinti) e nella partitura nieviana di ottant'anni di vita sociale
recuperati dalla memoria di un ottuagenario.
Da circa ottant'anni (1784-1861), infatti, è costituito l'inserto temporale entro il quale sono messi a dimora società, fatti e personaggi de I fuochi del Basento. Ma, a differenza delle Confessioni, qui il procedimento diacronico non è assicurato dalla narrazione resa da un protagonista, qual è Carlo Altoviti, (a proposito: non sembra al lettore, presso il quale faccio ammenda di questa digressione, che anche Ettore Scola abbia assunto il tracciato nieviano per il suo film La famiglia, il cui protagonista, anche egli ottuagenario, di nome Carlo, innamorato di una donna umbratile e sfuggente che ricorda la Pisana, ci offre uno spaccato degli ultimi ottant'anni della società italiana?) ma da un nugolo di protagonisti che, alla pari, disegnano un'epopea di primitivi, proponendosi come un coro di parlanti attraverso il cui linguaggio, scarnificato e gestuale, acquista figura un mondo di umili che ti aggrediscono coralmente fin dalla prima pagina, irrompendo e sciamando sulla scena, avendo fretta di parlare, evasi, come sono, dagli archivi, a guisa di animali fuggiti dai recinti di uno zoo, per occupare le pagine dei giornali e per ritornare, attraverso la letteratura, alla vita. E le polverose atmosfere degli archivi sono l'anticamera di questo romanzo. Raffaele Nigro (2) lo confessa ma non occorre: lo percepisce tout court chi, fedele alla consegna di Marc Bloch ("cercare l'uomo vivo sotto la polvere degli archivi") ha consuetudine con questo tipo di indagini volte a compulsare un microcosmo sommerso ed esangue che fa capolino alla specola del ricercatore e lo pressa e "gli si reca a mente" come le anime del Purgatorio dantesco. Ritengo che l'archetipo del Nigro (Francesco e Carlantonio, padre e figlio, entrambi briganti per elezione e protagonisti del romanzo) non sia italiano ma francese: Jacques Bonhomme, Giacomo povero diavolo, nella cui storia Augustin Thierry ipostatizzò quella del "quarto" stato francese, delle rivolte contadine, appunto le jacqueries, nella Francia del Quattrocento, insomma la storia dei vinti da sempre, i quali, nella Rivoluzione dell''89, risultarono, a suo avviso, finalmente vincitori. Jacques come Francesco Nigro: vite parallele di personaggi paradossalmente plutarchiani! Il brigantaggio meridionale da Mammone e Fra Diavolo a Crocco e Ninco Nanco costituisce il contesto delle vicende narrate, ma l'autore solleva sul piano epico le gesta dei briganti del Sud, evocandone la tipologia, peraltro assai ricca, dal verghiano Gramigna allo ioviniano Pietro Veleno protagonista della Signora Ava. Così nella letteratura ritorna la storia, una storia non più monocorde (ricordiamo il giudizio di Croce sul brigantaggio liquidato come squallido revival dei moti vandeani), neutra, asettica, ma meditata, riguadagnata viva e palpitante. Una storia, per così dire, underground, in quanto storia sociale, non evenemenziale e diplomatica, rivisitata, per intenderci, sulla scorta delle tesi annalistiche di Febvre e Braudel, di Bloch e Le Goff. Ne vien fuori la chanson des gestes di una gente contumace e diversa, una moltitudine subalterna per la quale Apollo tese sempre l'arco e non suonò mai la cetra, insomma il romanzo di Nigro è un grande affresco della società meridionale nelle sue coordinate essenziali: folklorico-popolare, religiosa, intellettuale. Di esse le prime due interagiscono e vivono, nell'opera, in stretta connessione fra loro. Prevale una sorta di arcaismo religioso e il mondo soprannaturale è complementare a quello della storia: entrambi si incontrano sul terreno delle tradizioni popolari, delle superstizioni, Sant'Alfonso dal collo storto: alla rocca miracolò una cavallo dei baroni Sangermano di Monteverde. (3) Del sincretismo fra spiritualità pura e pratiche esoteriche Padre Ferdinando Paolino Tortorelli (...) veniva in Ofanto con un corredo di strumenti stranissimi, fili di rame e di stagno, mazzetti di legni e piccole pentole, recipienti di vetro dalle forme inconsuete, sottilissimi, delicatissimi, che affidava a due giovani discepoli. Li sgridava se rovesciavano l'acqua colorata dai vetri o se si lasciavano distrarre da insetti, uccelli, rane. [ ... ] Padre Paolino attingeva, versava, mescolava polverine, soffiava con cannucce di vetro l'acqua [ ... ]. Stupiva tutti con una ruota che, azionata da una manovella, lanciava un filo sottile di fuoco, bianco, scoppiettante. Padre Paolino era un mago: avrebbe potuto, volendo, incendiare la terra e il cielo, frenare i temporali. Una volta Sofronia Maria ebbe le febbri alte [ ... ]. Masticò delle foglie indicate da Padre Paolino e si salvò. (4)
Le paglie e le tofe del Candelaro segnavano una ferita stretta, lunga e sinuosa tra le sterpaglie del demanio regio. Si camminava a piedi o a cavallo per settimane e non si incontrava anima viva. A volte c'era il fruscìo di un serpente variopinto e velenoso, a volte c'erano lepri o volpi che annusavano gli escrementi secchi di ovini. Al Candelaro venivano i pastori abruzzesi spingendo le mandrie dei massari, pecore e vacche. Butteri e pastoricchi, armati di bastoni, come briganti in attesa di briganti, ma difesi dai cani. (5) Delle apparizioni di elfi, umili, certo; ma fabulosi quanto i Mani di Orazio. A quest'ultima schiera appartiene PietroPaolo: I figli, Concetto Libera Palomba (6) li faceva con difficoltà, qualche volta nei solchi di grano o tra le patate. Qualcuno era nato morto, qualcuno era vivo. Quelli nati in casa Mariacarmela Difico (7) glieli aveva presentati per i piedi [ ... ] guadagnava una miseria per parto: un piede di cicoria, una minestra di rucola [ ... ]. Un altro figlio [Concetto Libera] se l'era portato morto nella pancia per giorni: quando Mariacarmela glielo aveva tirato fuori con un ferricello da calza lo avevano chiuso in una cestella di ginestre. Era già tutto bello formato, un angelo. Francesco Nigro aveva allora oltre trent'anni, aveva portato Pietropaolo verso l'Ofanto, sul fianco di una duna che ospitava Bartolomeo, Francesco Saverio e Canio Nigro. (8) Il fianco della duna è l'umile larario della famiglia. Da qui Pietropaolo si allontana per le sue incursioni nel mondo dei vivi, per apparire al padre, ai fratelli e consigliare, vaticinare, dialogare. Egli è uno spiritello, una specie di collodiano grillo parlante, in lui si materializza la voce della coscienza Mentre mangiava e rifletteva, dai rami nevati e bassi dei roveri e delle robinie, dagli intrichi dei roveti, si materializzò Pietropaolo. Era così leggero che non lasciava orme. Ma non per questo Carlantonio Nigro si stupì. "Pietropaolo, ti sei fatto un bel giovane" [ ... ] Pietropaolo gli girò le spalle [ ... ]. Carlantonio stese il suo mantello a ruota su una ceppaia, perché il fratello non si sporcasse il vestito bianco, e si sedettero uno di fronte all'altro. Pietropaolo accettò pane e giungata e il cacioricotta: mangiò in silenzio, in modo signorile, senza pulirsi con l'unghia i denti, senza sporcarsi le labbra, un vero civile. Quando finirono di mangiare Pietropaolo disse: "Questa è l'ultima volta che ti assisto. Mettiti a cavallo e prega strada strada". (9) Pietropaolo fa da cerniera fra la sfera naturale e quella soprannaturale, compare all'improvviso, richiama soluzioni già sperimentate nella letteratura, da Tolstoj, in Anna Karenina (10) (dove però il muzik che appare ad Anna è presagio ominoso) a Luigi Corvaglia, in Finibusterre (11). Ma l'escamotage del Nigro trova riscontro anche in una pagina del Cristo di Carlo Levi: I monachicchi sono gli spiriti dei bambini morti senza battesimo: ce ne sono moltissimi qui, [nell'area del Basento], dove i contadini tardano spesso molti anni a battezzare i propri figli I monachicchi sono essere piccolissimi, allegri, aerei [ ... ] sotto i loro estri e la loro giocondità infantile, nascondono una grande sapienza [ ... ]. Questa specie di gnomi o di folletti si vedono frequentemente. (12) In quest'universo ove regna il multanime, dai livelli più elementari (lo zio Luigi, fratello di Francesco, ingenuo, evangelicamente povero di spirito, perpetuo fanciullo, tanto inerme che non gli basta l'animo di prendere nemmeno un rasoio perché gli prendevano tremori al braccio e al corpo e finiva col non saper governare la lama (13), a quelli più
complessi (Tommaso Bindi figura storica di liberale, intellettuale
ilIuminista, con lui don Metello, il latifondista illuminato incapace,
però, di tradurre in atto l'elaborazione delle teorie progressiste)
coesistono i caratteri del razionale e dell'irrazionale, sicché
senza l'uno non si intende l'altro, e bene e male, colpa e innocenza,
violenza e amore non sono separati ma si ritrovano nella stessa società
(quella meridionale), nella stessa famiglia (i Nigro), negli stessi
uomini (Francesco, Carlantonio). Al centro di questa dialettica la
figura celestiale di Raffaele Arcangelo, quant'altri mai vaso di terracotta,
agnello sacrificale, vittima di una violenza e di una forza ottuse
(sarà ucciso dai Piemontesi ignari della sua santità),
Santo nato in una famiglia di briganti, aspirante alla santità
fin dalla fanciullezza, figura omologa a quella di un santo leccese
del Seicento, Giuseppe da Copertino, il santo dei voli e delle estasi,
caro all'anima popolare, anch'egli figlio della terra del rimorso.
Alle agiografie giuseppine (esclusa quella del Fremantius) vien fatto
di pensare leggendo la sua storia. Per il resto il riferimento a Ernesto
De Martino è fatto esplicito dallo stesso autore nella breve
premessa. Egli, inoltre, afferma d'aver "ricavato notizie e suggestioni"
da La città del sole di Tommaso Campanella. Ed è vero.
Infatti Francesco Nigro, Perceval degli umili, cavalca l'ippogrifo
di un'utopica repubblica contadina e il suo sogno, sia pure nei limiti
di una dimensione diseroica e dimessa, richiama quello eugenetico
della città eliaca del filosofo calabrese. Di questi sogni
è intessuta la storia del Sud, essi sono alla base tanto della
ribellione organizzata da fra Dioniso Ponzio (alla quale non fu estraneo
lo stesso Campanella) quanto di quella libertina, individuale del
Vanini, di questi sogni è fatta la linea che collega Fra Diavolo,
i moti Salentini del 1848, l'eccidio di Bronte, Crocco, Pizzichicchio,
Francesco e Carlantonio Nigro nella loro dimensione storica. Ti sei sciupato, un'alice ti sei fatto. Ma tu devi sparire da qua. Questo non è posto per uno scrivano cacacarte. Vitodonato si oppone debolmente, vuole arruolarsi fra i briganti con il padre che combatte contro i Piemontesi, piovuti sulla sua terra senza sapere nulla di essa, ma del brigante non ha il carattere e allora non può averne il destino:
Alla sua vita la funzione di bisettrice tra la vecchia generazione che scompare, quella dei padri, e la nuova che sta per nascere, quella dei figli che emigrando nelle Americhe scriveranno un'altra storia, vivranno un'altra vita. In questa duplice anima la causa della sua "malattia", cioè della sua estraneità (categoria tutta novecentesca), della sua irresolutezza. Carlantonio ha capito tutto e sotto le sue parole si legge, in filigrana, la valutazione critica propria dell'autore circa fatti e comportamenti che sono talvolta universali. Ecco, infatti, cosa dice il brigante per convincere senza fatica il figlio ad andarsene: Ho fatto i miei calcoli. Di qui a pochi giorni il paese avvamperà nella guerra. Sarà guerra dura [contro i Piemontesi] (15), non la passeggiata di Garibaldi. Qui si combatterà casa per casa. Non sappiamo chi la spunta. Se vincete voi la casa sarà salva, perché tu sei dei loro (16) e se vinciamo noi nessuno si azzarderà a toccare la mia famiglia, perché io sto dall'altra parte. (17) E qui parla l'autore,
non solo Carlantonio. Il sugo è tutto qui. Qui il realismo,
l'analisi, la denuncia di certo camaleontismo e gattopardismo, dei
ricchi come dei poveri, fiorito sul terreno del cinismo (Carlantonio)
subentrato al crollo delle illusioni (Francesco), fra cui anche quella
di imparare a leggere e a scrivere (18). Qui il paradigma di tante
storie di famiglia, tutte italiane, del Sud come del Nord, dalla lotta
partigiana contro i Piemontesi - tale fu, in sostanza, il brigantaggio
e a questa valutazione ci inducono Carlo Alianello (19) e soprattutto
Carlo Levi, "la quarta guerra nazionale dei contadini è
il brigantaggio. Anche qui l'umile Italia storicamente aveva torto
e doveva perdere. Non aveva armi forgiate da Vulcano né cannoni"
(20) - a quella più recente e più tragica contro il
nazismo. Ma quella logica della "separazione" propria di
Carlantonio vive ancora Ci congiungeremo, scendendo per il Basento, agli insorti delle Calabrie [ ... ] Tempo due mesi e dei re e della servitù ci sarà solo un ricordo. Allora, sia che resti il governo provvisorio [del 1799] sia che venga Napoleone, si dirà che Francesco Nigro ha combattuto per la libertà [ ... ]. Ho raccolto delle sostanze. I libri (21) li ho sistemati in un posto, al sicuro, che nessuno li tocca [ ... ] una casa grande con due tre piani, che uno lo voglio per i miei figli, uno per noi due e uno [...] con tanti bei mobili e vetrate che riempirò di libri. (22) Pensa di scrivere le memorie di casa Palomba e di casa Nigro. (23) e non basta la voce della moglie "Sei ridicolo" fece Concetta Libera, accostandosi all'acqua, "con tutti questi tuoi sogni" (24) a richiamarlo alla realtà né quella di Sciarpa prima della battaglia decisiva e della morte. Vale la pena di rileggere questa pagina nella quale i due briganti, eguali ma nemici, altercano. Nelle parole del Nigro una sintesi in chiave naïf, ma lucida, della storia del Sud che è poi la sintesi dell'autore, ancora una volta in sintonia con Levi ("Si può dunque capire perché gli Svevi siano ancora oggi così popolari presso i contadini, che parlano di Corradino come di un loro eroe nazionale e ne piangono la morte. Certo, dopo la sua caduta, questa terra, che allora fioriva, entrò nella più triste rovina") (25). Ma Sciarpa non cambiava atteggiamento. "Una volta" proseguì Nigro, "qui c'era un popolo che aveva leggi proprie ed era svincolato dal regno di Borbone [ ... ]. Poi vennero re e baroni, portarono la guerra e sottomisero questo popolo, lo fecero servo. Imposero tasse e taglioni con i razionali e i fiscali. I contadini non sapevano alzare la testa. Un giorno arrivano degli scienziati, gente di studio che sanno più di me e di te e ci danno la sveglia [ ... ]. Allora che succede? Succede che ci dividiamo, alcuni addrizzano la spina dorsale e scelgono la repubblica, e altri restano piegati e sono per la schiavitù [ ... ] comunque tutti contadini, braccianti, pezzenti e artieri [ ... ] perché dobbiamo scannarci come capretti?" [ ... ] "E tu per chi combatti?" urlò Sciarpa, offeso. "Per questi scervellati collettini o per i francesi? E che speri di avere, la terra? A chi l'avete data finora? A nessuno. I giacobini sono più ingordi dei vecchi aristocratici". (26) Avevano ragione
entrambi, nella loro valutazione i due mali: il legittimismo borbonico
non peggiore del liberalismo moderato sulle cui basi si sarebbe poi
fatta l'unità d'Italia sicché avrebbe avuto ragion d'essere
il cinismo di Carlantonio e dei briganti della sua generazione.
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