§ I Dodici e l'integrazione politico-finanziaria

1992: quale Europa




M.C. Milo, A. Foresi, F. Albini



Nessuno lo nega: una maggiore integrazione europea è indispensabile, anzi vitale. Perché allora continui ad essere frenata dai particolarismi nazionali è un vero e proprio mistero. la domanda, allora, è: quest'Europa ci conviene oppure no? A moltissimi, pare di sì, anche se, come afferma il ministro italiano del Tesoro, l'Europa ha un alto indice di gradimento a parole, mentre nei fatti è ostacolata da una classe politica "che teme di essere colpita dall'integrazione perché sulla scena europea conterebbe di meno". Altre preoccupazioni riecheggiano dalle banche, che dovranno giungere all'appuntamento del 1992 quasi radicalmente trasformate, più concorrenziali, meno amministrativizzate. Inoltre, fondamentale per il miglioramento del nostro sistema finanziario è la riforma del mercato secondario dei titoli di Stato, insieme con quella della Borsa. Secondo alcuni economisti, poi, sarà necessaria anche la creazione di una Banca Centrale Europea. Ha chiarito il ministro francese del Tesoro: "Senza un'istituzione centrale di controllo, i capitali saranno attratti verso la Repubblica Federale Tedesca, che ha moneta forte, provocando lo sbandamento del Sistema monetario europeo". E ancora: il rafforzamento dello Sme richiede obbligatoriamente l'entrata nel Sistema della sterlina inglese. In cambio, l'Italia sarebbe disposta a rinunciare alla banda di oscillazione più ampia (6 per cento) di cui beneficio la lira.
Un serio problema del l'integrazione finanziaria europea resta quello della coesistenza di due poli: da una parte, Londra, cuore finanziario; dall'altra, Bonn, fulcro e cuore monetario del sistema. Verso quale del due dovrà gravitare il nostro Paese? E' un dilemma di non facile soluzione, che il processo di integrazione dovrà comunque affrontare, anche perché sono previsti benefici stimoli alla finanza e sull'economia ,reale dell'Italia. D'altra parte, per evitare effetti negativi sugli equilibri finanziari internazionali, è necessario che la liberalizzazione europea non sia intesa come generica deregulation, ma sia accompagnata da una più intensa regolamentazione "prudenziale", a tutela del risparmiatori e della liquidità e solvibilità delle istituzioni creditizie. E in ogni caso, osservano alcuni economisti, riforme di questa portata non sono attuabili senza muovere verso un nuovo "sistema di governo" europeo, che sia in grado di sostituirsi ad una debole volontà politica dei singoli Paesi.
E' stato scritto che dal punto di vista finanziario l'attuale costruzione dell'Europa presenta "evidenti asimmetrie". La liberalizzazione dei movimenti di capitale potrebbe addirittura accentuarle, invece che ridurle. In termini monetari e commerciali, la Germania Federale è il "Paese-centro". E' infatti il principale mercato di esportazione di ciascun Paese europeo, ed è quindi - in termini keynesiani - il Paese che presenta a livello europeo il maggior "moltiplicatore" della sua domanda interna. Inoltre, la Bundesbank è di fatto la Banca Centrale europea, nel senso che la sua politica monetaria tende a definire il grado medio di stabilità dei prezzi in Europa. I periodici riallineamenti dello Sme non hanno impedito che tendenzialmente i Paesi europei convergessero verso il tasso di inflazione tedesco, nel corso degli ultimi otto anni, e, prevedibilmente, anche in futuro.
A questo ruolo commerciale e monetario della Germania Federale non si accompagna peraltro un equivalente ruolo finanziario. Francoforte non è il centro finanziario dell'Europa, né lo sta per diventare. In effetti, è Londra questo centro finanziario europeo, e allo stesso tempo è il punto di scambio con i mercati finanziari mondiali. Ma Londra non è parte dell'accordo di cambio dello Sme, e ritiene ciò inevitabile, data la scelta di privilegiare il suo vantaggio comparato nell'offerta di servizi finanziari.
Nel campo finanziario, ciascun Paese europeo è più integrato con il resto del mondo (di norma, via Londra), che non con i suoi partners europei. Da trent'anni, ormai, invece di un mercato finanziario europeo si è avuto infatti lo sviluppo dei cosiddetto "euromercato", che èsostanzialmente off shore per ciascun Paese europeo. La crescita di questo mercato, inizialmente favorita dall'essere meno regolato di ciascuno dei singoli mercati europei, è stata in seguito sostenuta dall'essersi trasformato in un mercato più ampio ed efficiente di ciascuno dei singoli mercati.
Come può evolvere questa situazione?
C'è, da un lato, il modello tedescofederale, che è allo stesso tempo un modello di stretta integrazione banca-industria, export-led sia sul piano commerciale che dei capitali (dato il surplus della bilancia corrente dei pagamenti), e di contenimento della domanda interna per garantire tutto ciò. C'è, dal lato opposto, il modello britannico, che al declino dell'attività industriale e all'assenza di capitali da investire all'estero (una volta venuto meno, negli ultimi anni, il surplus petrolifero) ha accompagnato una strategia imperniata sulla specializzazione nei servizi finanziari, per fare di Londra una "capitale del capitale".
I due modelli sembrano così poco armonizzabili, orchestrabili, da porre in dubbio la possibilità stessa del "mutuo riconoscimento". E c'è un evidente dilemma per l'Italia: con quale dei due modelli ha interesse ad integrarsi? Da quello tedesco ci allontana la nostra tradizione di "separatezza" tra banca e industria. Ma i legami commerciali e monetari sono più stretti con la Germania Federale che con Londra.
Ove questi dovessero prevalere, risulterebbe privilegiato un approccio più "eurocentrico" rispetto a quello tendenzialmente internazionale, che ci deriverebbe invece dall'integrazione con il Regno Unito. Ma forse è proprio questa la chiave di volta dell'integrazione finanziaria europea: per realizzarla, occorre ridurre il collegamento con i mercati mondiali.
Integrarsi con Londra, significa integrarsi con Tokio e con New York (è solo questione di fusi orari), e questo è in un certo senso alternativo a integrarsi con Parigi, Francoforte, Madrid, Bruxelles e via dicendo. la pura e semplice liberalizzazione del movimenti di capitale potrebbe accentuare le forze centrifughe, ciascun Paese aumentando la sua dipendenza extracomunitaria senza il procedere del l'integrazione finanziaria tra i Paesi europei.
Ma c'è anche un altro punto di forte contrasto tra l'orientamento finora prevalso a Bruxelles e quello, ad esempio, della Banca d'Italia. Il contrasto verte anzitutto sulla definizione di ciò che è definito "un minimo di armonizzazione" (vale a dire di regole comunitarie predeterminate per tutti i Paesi della Comunità economica europea), preliminare al successivo "mutuo riconoscimento" delle norme nazionali. L'indicazione è che ciò riguarda solo le norme direttamente rivolte a tutelare la stabilità degli intermediari, cioè la "vigilanza prudenziale". E quindi prevedibile che questo "minimo" resti comunque molto inferiore a quanto la Banca d'Italia avrebbe desiderato, e che ciò determini conseguenze radicali sul sistema bancario italiano. Basti citare in proposito quanto è scritto nel "Libro bianco": "Occorre però anche rendersi conto che vi saranno alcune parti della normativa bancaria che non verranno armonizzate, per il semplice fatto che un'armonizzazione è del tutto inutile ai fini di cui sopra. Come esempio di tale tipo di normativa va citata la separazione del tutto artificiale, per non dire artificiosa, tra il credito a breve e il credito a medio-lungo termine esistente in Italia. Detta separazione, completamente obsoleto, che non esiste in nessun altro Paese della Comunità, né in nessun altro degli altri Paesi industrializzati fuori della Comunità, non può fare oggetto di armonizzazione di sorta".
Ciò equivale a riconoscere che quella separazione - alla base della nostra distinzione tra aziende di credito e istituti speciali - non potrà più essere imposta, in futuro, ad enti creditizi dei Paesi della Comunità economica operanti in Italia.
L'elenco dei problemi posti dall'integrazione finanziaria in Europa è probabilmente molto più lungo di quello considerato fino a questo momento. Ma già quelli esaminati sono sufficienti per indicare due conclusioni, persino ovvie: l'obiettivo di realizzare un mercato finanziario e dei servizi finanziari unico entro il 1992 (e dunque nel brevissimo giro di quattro anni) è molto ambizioso; le conseguenze che ne deriveranno per il sistema italiano sono enormi. Certo, è sempre possibile rifugiarsi nell'esperienza del passato, per concludere che anche questa volta i ritardi ci salveranno. Dopo tutto, la prima direttiva Cee sul coordinamento bancario, del 1977, richiese tre anni per essere approvata, e poi l'Italia ottenne dodici anni di tempo (fino al 15 dicembre 1989) per applicarla. Su queste basi, anche se la seconda direttiva fosse approvata nel 1988, noi potremmo aspettare fino alla fine del secolo per renderla operativa! Ma ciò significherebbe, in questo caso, che l'integrazione finanziaria procederebbe senza di noi. Assumendo, invece, che si intenda procedere all'integrazione finanziaria secondo i tempi fissati a Bruxelles, quali sono in sintesi i costi e i benefici che possiamo attenderci?
Incominciando dagli aspetti positivi, vi è un generale consenso sul fatto che la creazione di un più ampio mercato finanziario e dei servizi finanziari porterà con sé i vantaggi dati da maggior concorrenza: economie di scala, di diversificazione, di specializzazione. Più che un aumento dei trasferimenti netti di capitali, il risultato atteso è quindi quello di un aumento di efficienza: la maggior concorrenza e innovazione dovrebbero dar benefici agli utenti dei servizi finanziari più che agli intermediari nel loro complesso.
L'Italia, che è notoriamente un Paese ad elevata propensione al risparmio e con un alto "fabbisogno di intermediazione", ha tutto da guadagnare da una intermediazione finanziaria più efficiente. Essendo, inoltre, il Paese europeo che presenta i maggiori costi operativi unitari, per quanto riguarda le maggiori banche commerciali, è anche quello che più trarrà beneficio da una loro riduzione verso la media europea. Questi benefici risulteranno maggiori con riferimento alle famiglie ed alle piccole imprese, essendo evidente che le maggiori imprese - ormai divenute multinazionali - hanno già potuto operare con notevole libertà sui mercati finanziari internazionali, utilizzando i segmenti più efficienti dei diversi sistemi bancari. Sempre che l'integrazione non si limiti ai mercati finanziari (consentendo solo un guadagno in termini di diversificazione dei portafogli), ma proceda anche a coinvolgere i servizi finanziari "al dettaglio", che più direttamente riguardano famiglie e piccole imprese.
Si può aggiungere che questi benefici saranno maggiori qualora si diffonda (anche qui dal livello delle maggiori imprese, che già vi ricorrono, ai servizi finanziari "al dettaglio") l'uso dell'Ecu come unità di conto, mezzo di pagamento, e riserva di valore. In un certo senso, l'uso di una moneta comune serve a diffondere vantaggi analoghi a quelli dati dal ricorso ad un "centro finanziario": come nel caso degli attuali rapporti bilaterali degli undici Paesi della Cee con Londra (invece dei 66 rapporti che altrimenti si avrebbero fra ciascuno dei 12 Paesi ed i restanti 11), così il progressivo ricorso all'Ecu da un iato consente economie di costi e dall'altro ripartisce fra ciascun Paese il relativo "signoraggio".
Non va inoltre dimenticato che la diffusione a livello europeo di una moneta alternativa a quelle attualmente prevalenti a livello internazionale potrebbe introdurre un elemento di "protezionismo implicito" che favorirà la stessa integrazione finanziaria. Ma il realizzarsi di questi benefici presuppone una radicale ristrutturazione degli attuali sistemi finanziari e relativi intermediari, un processo che richiede di essere "governato" se si vuole che sia ordinato, cioè proceda in condizioni di stabilità.
La situazione italiana non risulta la più forte in termini di capacità competitive dei propri intermediari, né presenta una struttura dell'intermediazione che potrà imporsi come "modello" degli altri Paesi. Ne deriva che dovrà essere la situazione italiana ad adeguarsi a quella prevalente nel resto della Comunità economica europea, e non viceversa.
E altresì prevedibile che la ristrutturazione dei servizi finanziari proceda secondo una logica gerarchica che vedrà emergere pochi, grandi gruppi finanziari "europei", cioè in grado di servire tutti, o quasi, i singoli mercati nazionali (prevalentemente nel campo dell'intermediazione in titoli, e dei servizi finanziari alle imprese maggiori), accanto a gruppi finanziari "nazionali" e a banche regionali, che serviranno mercati (e clienti) più limitati. Ma a differenza di quanto sta avvenendo negli Stati Uniti con il graduale superamento dei McFadden Act, del 1927, e quindi con la creazione di un unico mercato bancario, nel caso europeo non avremo né apposite norme per regolare questo processo, né la possibilità di un livello sopranazionale, al quale regolare gli intermediari "europei". li "memorandum Colonna", del 1970, con la sua proposta di statuto di "società europea" sembra del tutto dimenticato a Bruxelles. Mancando questo strumento, è da prevedere che sarà la politica dei singoli Stati a garantire, nei prossimi anni, quella selezione (più o meno darwiniana) che dovrà porre le basi per la successiva "gerarchia europea".
E anche da questo punto di vista l'attuale situazione italiana appare inadeguata: stiamo ancora portando avanti una strategia di accorpamento delle banche locali di minori dimensioni, quando, com'è stato precisato dalle autorità monetarie, è evidente che al confronto con gli altri Paesi europei abbiamo bisogno di una concentrazione delle banche maggiori, per non essere assenti dalla scena delle grandi "banche europee".
I costi del nostro adeguamento a quanto richiesto da I l'integrazione finanziaria - se vogliamo evitare il rischio che integrazione significhi dipendenza - risultano evidenti dal lungo elenco dei temi che dovranno essere riesaminati nei prossimi anni, dal sistema della riserva obbligatoria alla specializzazione degli intermediari, dal modus operandi della politica monetaria al funzionamento dei mercati mobiliari. Da questo punto di vista, molta parte dei dibattito che in questi anni ha affrontato il tema della revisione della "legge bancaria", o quello della regolamentazione degli intermediari nonbancari, o quello della distinzione fra controlli per "finalità", per "funzioni", o per "mercato", risulta già datato, perché privo di una prospettiva europea. Ma soprattutto risulta datato l'approccio con il quale abbiamo fino a questo momento risposto agli appuntamenti europei, che è stato sostanzialmente quello di fissare delle date fino alle quali potevamo ritardare il cambiamento. E' tempo di rovesciare il nostro modo di usare il calendario, e di incominciare a stabilire le date entro le quali il cambiamento deve avvenire.

L'Europa cresce con l'impresa

Per i cultori del catastrofismo capitalistico sono giorni piuttosto duri: l'economia non si decide a ripetere i nefasti del dopo-'29, ma, soprattutto, imprese e imprenditori stanno dando prova di un fermento innovativo senza precedenti. Nuove tecnologie, nuovi prodotti, nuovi mercati, nuove società, nuove alleanze, nuove fusioni, nuove acquisizioni stanno modificando gli equilibri internazionali: quelli geoeconomici, non meno di quelli geopolitici. èuna trasformazione che i dati macroeconomici rappresentano solo in parte e che ha l'ambigua caratteristica sia di agire silenziosamente nel profondo, sia di esplodere clamorosamente in superficie.
Tanto per fare un esempio, l'annuncio dato alcuni mesi fa, a Parigi, da Carlo De Benedetti, relativo alla Societé Generale de Belgique è una di quelle notizie esplosive, la cui valutazione travalica il dato di natura finanziaria. Che, nel caso specifico, è senz'altro clamoroso, anche perché proietta la propria efficacia su altri terreni, da quello produttivo a quello manageriale. Ma che anche, al di là del caso specifico, conferma alcune verità di carattere generale sulle quali vale la pena di riflettere.
La prima riguarda la vitalità dell'imprenditoria italiana nel momento in cui all'impresa si chiede di essere vitale non soltanto tra le pareti domestiche (magari protette), ma anche sul mercato internazionale, aperto ai fortissimi venti della concorrenza. Né si tratta di una vitalità per pochi e magnifici condottieri: questi, certamente, dominano la scena, fanno notizia, vanno sulle copertine più prestigiose e illustrano, con la propria immagine, l'immagine dell'Italia. Dietro di loro si muove, infatti, una schiera di nomi, meno famosi, ma non per questo meno ricchi di vitalità, che contribuiscono in maniera determinante alla internazionalizzazione del nostro sistema produttivo e finanziario. Per valutare appieno tutto ciò, basta scorrere l'elenco delle principali acquisizioni estere che negli ultimi tempi hanno avuto come protagoniste imprese italiane. Olivetti, Banca nazionale del lavoro, Italimpianti, Ifil, Fidenza V., Fininvest, Montedison, Gft, Sirti, Piaggio, Magneti Marelli, Iveco, Generali, Candy, Ferruzzi, Nikols, Miroglio, San Paolo, e altre, hanno acquisito società dei settori software, engineering, alimentare, del vetro, della Tv, delle telecomunicazioni, bancario, chimico, elettrico, delle auto e biciclette, assicurativo, della moda e dell'abbigliamento, ampliando la penetrazione In Germania Federale, in Francia, in Gran Bretagna, in Belgio, in Canada, negli Stati Uniti e persino in India.
La seconda verità è che nei comportamenti delle imprese ha fatto irruzione l'Europa. Nel senso che, pur non rinunciando alla loro identità nazionale, e spesso, anzi, facendo perno su questa identità, un numero crescente di imprenditori e di manager europei non considerano più l'Europa come un'idea alla quale adattarsi faticosamente, ma come un ambiente ideale nel quale èpossibile muoversi più agevolmente per crescere e per competere.
Il mito del partner americano come condizione di successo è ormai tramontato, e ha lasciato il posto al pragmatismo delle alleanze su progetti concreti. Che negli ultimi due anni si siano costituite decine e decine di aggregazioni imprenditoriali europee, produttive o finanziarie, su base sovranazionale, costituisce un fatto nuovo e di incalcolabile rilievo per il futuro assetto del capitalismo, sia in Europa sia nelle altre aree avanzate, quella americano e quella giapponese. Non è detto che tutto questo basti all'Europa per vincere la sfida; ma certamente rende la sfida più aperta e dall'esito meno segnato. E nel momento in cui De Benedetti dichiara: "Il mio obiettivo è la holding europea", riassume pienamente tanto la realtà nuova, quanto la nuova sfida.
Una terza verità merita allora di farci riflettere: nel processo di riallocazione degli assetti imprenditoriali europei ci sono protagonisti e comprimari, ci sono Paesi dinamici e ci sono Paesi (e aree territoriali) immobili. Contrariamente a tante previsioni, anche nostrane, l'Italia si è mosso finora tra i primi, meritando addirittura, per profondità e velocità del mutamento, lo scudetto del dinamismo europeo. Nuovi assetti proprietari, nuovi raggruppamenti imprenditoriali, espansione all'estero, sono i tre volti di questo dinamismo che colloca l'Italia tra le aree portanti del nuovo assetto continentale. Il che non si può dire, ad esempio, del Belgio. Dove tensioni etniche, debito pubblico, ma soprattutto intorpidimento economico, agiscono da freno ad ogni rinnovamento: tanto da far apparire più patetico che tardivo l'improvviso soprassalto di patriottismo economico che in gennaio venne suscitato dalla mosso di De Benedetti.
Restano, infine, altre due verità, questa volta amore per il nostro Paese. La prima, è quella di una classe politica nazionale irrimediabilmente abituato a vivere, a ragionare e a dibattersi in un ambito tutto domestico e bottegaio, mentre economia e finanza vivono, ragionano e competono in un ambito transnazionale. Quanto potrà ancora durare? E la seconda, quella di un Mezzogiorno ancora lontano dallo sviluppo dell'Europa. Che sarà del Sud, varcata la soglia del 1992?

Nord-Sud-Cee Ultime notizie sul divario
La Calabria al quintultimo posto tra le regioni dei Paesi della Comunità economica europea: il dato conferma da una parte il relativo progresso della regione italiana anche per l'entrata nella Cee di nazioni che, con i loro parametri socio-economici, hanno strappato alla Catabria il poco invidiabile ruolo di fanalino di coda nella classifica europea. Spetta, infatti, all'ellenica Tracia il primato di regione più povera della Comunità, mentre l'olandese Groningen è in cima alla classifica, con un prodotto interno lordo procapite sei volte superiore.
Il dato si desume, unitamente a molti altri, dal rapporto preparato dal vicedirettore generale della Banca d'Italia, Tommaso Padoa Schioppa, particolarmente dedicato ai problemi e alle strategie volte al rafforzamento del sistema economico comunitario.
Le 160 regioni dei dodici Paesi della Comunità, cui è riservato un capitolo dello studio, sono oggetto di una graduatoria effettuata in termini di Pil pro-capite a parità di potere d'acquisto. Fatta uguale a 100 la media della Comunità a dodici, la Tracia registra un valore pari a 43,2, seguita nella "classifica della povertà" dalle isole dell'Egeo orientale (46,0) e dalla spagnola Estremadura (46,6).
L'immagine di una Comunità a due velocità è confermata dai dati del rapporto: le venti regioni "meno favorite" concentrate infatti nella fascia meridionale della Cee, e dunque nei territori di Grecia, Portogallo, Spagna e Italia. Oltre alla Calabria, ne fanno parte anche la Sicilia (con un valore del Pil pro-capite inferiore del 37 per -cento alla media comunitaria), la Campania, la Puglia, la Basilicata e il Molise.
Nella graduatoria delle regioni più ricche, alle spalle di Groningen (237,4), Amburgo occupa il secondo posto, con un valore pari a 195,5. Seguono, nell'ordine: l'Ile de France (159,4), la regione della "Grande Londra" e quella tedesca di Darmstadt (l'una e l'altra con 155,1). Al decimo posto, la prima regione italiana, la Valle d'Aosta (137,0), che precede la Lombardia (119,0), ventesima area europea.
Ai dati sul Pil pro-capite, il rapporto affianca quelli sulla disoccupazione alla fine del 1986: l'Andalusia, con un tasso del 30,2 per cento, registra la più alta percentuale di "senza lavoro" fra le regioni della Comunità. Molto elevati sono anche i valori rilevati in Estremadura (28,6 per cento), nelle Canarie (27,3%) e nei Paesi Baschi (24,6%). In Italia, la regione con il maggior numero percentuale di disoccupati risulta essere la Sardegna (19,3 per cento), seguita dalla Calabria (14,4 per cento).
"I successivi ampliamenti della Comunità - afferma il rapporto di Padoa Schioppa - hanno reso più acute le disparità regionali: l'accesso di Grecia, Spagna e Portogallo ha elevato il Pil del 10 per cento, la popolazione del 22 per cento e l'occupazione agricola del 57 per cento".

La Seconda Direttiva Cee Banche Unite d'Europa


Con l'approvazione definitiva da parte della Commissione esecutiva, la Seconda Direttiva Cee in materia bancaria è entrata in dirittura d'arrivo, ma non ha ancora concluso il suo complesso iter. Infatti, mancano altre due approvazioni, compresa quella del Parlamento europeo, prima del varo definitivo da parte del Consiglio dei ministri.
Non sono pochi coloro i quali ritengono che sia difficile arrivare alla conclusione entro il 1988 e considerano la prima metà del 1989 come una scadenza più realistica. A partire da quella data, incomincerà il conto alla rovescia per l'attuazione vera e propria. I tempi, in ogni caso, non saranno lunghi. E' quasi ironico dire che saranno più brevi di quelli previsti dalla Prima Direttiva, che aveva accordato fino a dodici anni di tempo, ma, si badi, non per tutta la materia regolata, bensì solo per le norme collegate al principio del "bisogno economico" come presupposto del l'autorizzazione.
Sull'Attuazione dell'Atto Unico e sulla data del 1992, la Cee ha puntato ormai molte delle sue carte politiche e non sarà disposta a giocarsi una fetta cospicua di credibilità per un ritardo sostanziale rispetto all'obiettivo, certo ambizioso, del 1993. Se qualche ritardo ci sarà, può essere stimato in termini di qualche anno, non di lustri. Dei resto, gli effetti della Prima Direttiva non sono stati né così limitati né così lenti come alcuni ritengono. Le legislazioni di tutti i Paesi sono profondamente cambiate a partire dal 1977, e l'Italia è stata forse quello che ha modificato in maggior misura i propri criteri di vigilanza: l'introduzione di coefficienti patrimoniali liberi e il progressivo allentamento dei controlli all'entrata hanno definitivamente affermato una vigilanza che (per usare le parole del Governatore della Banca d'Italia, Carlo Azeglio Ciampi) vuole essere "neutrale rispetto alle scelte gestionali delle banche".
Proprio grazie all'intensità del processo di trasformazione che è già avvenuto, i diversi Paesi sembrano oggi più preparati ad iniziare la fase di integrazione vera e propria. Nel corso del lungo negoziato che ha portato all'approvazione di gennaio, molte concessioni sono state fatte da ciascuna delle parti per eliminare alcuni ostacoli preliminari. Proprio sul filo di lana, l'Italia ha ottenuto due modifiche importanti, una delle quali (quella relativa alle società controllate dal parabancario) rende compatibile l'applicazione della direttiva con la situazione attuale delle banche italiane.
Per capire la portata della Direttiva, è necessario ricordare che il principioguida è molto semplice: le banche sono individuate dallo svolgimento di attività indicate in un'apposita lista e sono soggette a controlli di vigilanza da parte delle autorità del Paese d'origine. Sulla base di questo presupposto, potranno cominciare ad operare da un Paese all'altro con il principio del "mutuo riconoscimento", vale a dire, potranno operare in altri Paesi con la propria legislazione.
Come si afferma nella premessa della Direttiva, la Cee completa con questo documento "l'armonizzazione minima necessaria e sufficiente per pervenire al reciproco riconoscimento delle autorizzazioni e dei sistemi di controllo". in un settore per sua natura regolamentato come quello bancario, il concetto di libera circolazione ha senso solo all'interno di quadri normativi e di processi di vigilanza sostanzialmente omogenei. Non a caso il libro Bianco del 1986 indicava per l'integrazione finanziaria entrambi gli obiettivi, quello del mutuo riconoscimento e quello dell'armonizzazione delle normative nazionali.
In altre parole, il processo di armonizzazione è appena agli inizi: la scelta delle autorità è stata quella di non aspettare tutto il tempo necessario per arrivare a leggi uguali nei vari Paesi (in pratica, l'eternità), ma di accettare un confronto con le forze di mercato che si metteranno in movimento il 10 gennaio 1993. La possibilità delle varie banche di operare da un Paese all'altro modificherà l'attuale equilibrio concorrenziale, costringerà ciascun intermediario a cercare nuovi prodotti e nuovi mercati e finirà fatalmente per mettere in risalto gli ostacoli posti dalle differenze di normativa. Ciascun Paese dovrà allora adattare progressivamente la propria legislazione, tanto più rapidamente, quanto maggiore sarà la preoccupazione di non creare svantaggi concorrenziali alle proprie banche. Le legislazioni saranno così modificate per seguire e incanalare i processi di cambiamento realizzati dalle singole banche.
Quanto più le banche si dimostreranno capaci di cogliere le nuove opportunità, tanto più creeranno pressioni sui propri ordinamenti e in qualche modo guideranno il processo di convergenza. Non era mai successo, se si riflette, che gli animai spirits delle banche fossero così capaci di influire sul quadro normativa.
Naturalmente, non è detto che proprio tutto questo debba verificarsi: ma le indicazioni che abbiamo ci portano a ritenere che solo gravi avvenimenti economici e/o politici possono comportare una significativa deviazione dalla rotta intrapresa. Ne è una prova anche la decisione con cui si èlavorato a Bruxelles, insieme con il ruolo propulsivo svolto da alcuni Paesi, a cominciare dall'Italia.
La realizzazione della Seconda Direttiva deve quindi essere considerata come l'evento più probabile e anche come un risultato di grande importanza politica. Solo i più rigidi nostalgici del free banking possono ritenere che liberalizzare i servizi finanziari sia sinonimo di abolizione di tutti i controlli. La vigilanza sul sistema bancario Può e deve cambiare, ma in nessun caso può essere abolita.
Se questo è il significato del processo che abbiamo di fronte, è meglio non nascondere la testa nella sabbia, affermando che le trasformazioni per un sistema come quello italiano possono essere modeste e che le banche straniere non sembrano oggi particolarmente interessate ai mercati italiani. è vero che non ci sono divisioni di banchieri che premono alle Alpi in attesa della fatidica liberalizzazione totale. Non bisogna però dimenticare che, come è successo per la prima Direttiva, le modificazioni normative che avverranno avranno l'effetto di cambiare le condizioni concorrenziali fra le banche italiane e quindi di spostare gli equilibri attuali indipendentemente dall'ingresso di nuovi (e più concorrenziali) operatori.
In secondo luogo, in tutti i "mercati ai dettaglio", che sono quelli forse più appetibili oggi per le banche straniere, le nuove tecniche di distribuzione del prodotti finanziari consentiranno di entrare riducendo al minimo la presenza fisica sul territorio, e quindi in tempi più brevi e con costi più contenuti di quelli richiesti dalle tradizionali forme di insediamento.
Il processo che sta iniziando è dunque ricco di opportunità, ma anche denso di minacce per chi non capirà rapidamente che anche i mercati periferici devono essere considerati come un anello di un sistema sempre più integrato con gli altri sistemi europei.

Rivalutazioni del Pil E l'Italia prese Il volo


Il Pil, com'è noto, è il prodotto interno lordo, vale a dire la somma dei beni e dei servizi finali prodotti nel territorio di una nazione. E' il "peso" economico di un Paese. Ed è la suo forza, l'immagine, la capacitò contrattuale. Bene. Intorno a un anno e mezzo fa, venne annunciata dall'Italia la celeberrima rivalutazione del Pil. Un'operazione di pulizia e di revisione statistica, com'è stato definita, che sarebbe stato quasi di routine, se la rivalutazione non si fosse rivelato "di stazza inconsueta" (intorno al 20 per cento per il Pil 1985 a I costo del fattori), tanto da provocare un vero e proprio terremoto nel settore delle classifiche internazionali.
L'Italia era nel gruppo dei Sette maggiori Paesi industriali. Questo si sapeva, e quasi quasi meravigliava chi era costretto a pagare sempre più tasse ad uno Stato sempre più vorace. Tant'è che qualcuno aveva insinuato il ragionevole dubbio che tra i Sette il nostro Paese si fosse infilato di straforo, un po' per celia, un pò per non morire. E invece, no! Nel gruppo del Sette c'eravamo a pieno diritto e titolo. E non riposavamo in fondo alla classifica. Eravamo sesti, e precedevamo, addirittura, il lontano e immenso Canada.
Dopo la rivalutazione del Pil, l'Italia prese il volo, e diventò quinta, superando di colpo il Regno Unito. Le classifiche che vennero fuori, in realtà, erano un poco confuse, perché nel frattempo la sterlina si era notevolmente svalutata rispetto ai massimi del 1985. E in ogni caso, nei confronti internazionali, le uniche classifiche che hanno un senso sono quelle elaborate sulla base delle cosiddette "parità di potere d'acquisto": sulla base, cioè, di particolari cambi che rendono omogeneo il livello dei prezzi di ogni Paese e consentono quindi di tradurre i diversi redditi nazionali in quei beni reali (burro, macchine, cose, trasporti, biglietti per il teatro, libri, e via di seguito) che compongono un altrettanto omogeneo paniere di riferimento.
Il sorpasso dell'United Kingdom, reso agevole nei confronti a cambi correnti dalla rivalutazione italiana e dalla svalutazione della sterlina, veniva tuttavia confermato, sia pure con una certa fatica, dal più significativo confronto sulla base delle parità di potere d'acquisto. E c'era anche di più. Su quest'ultima base, la Francia era a portata di mano. Sulla scorta delle previsioni di crescita reale per il 1987 che si facevano allora, i consuntivi di fine anno avrebbero dovuto segnare un altro sorpasso: un fatto che venne notato, con sconcerto malcelato, proprio in un rapporto di una commissione senatoriale francese.
Improvvisamente, siamo caduti in basso, diventando sesti in classifica. Che cosa è successo? Perché il Pil italiano ci ha ridimensionati a livello europeo e planetario? Tre fattori chiariscono questa storia:
1) l'economia britannica si è rivelata sia nel 1986 sia nel 1987 più dinamico di quella italiana; è stato sufficiente mettere a segno nei due anni un punto e mezzo in più di crescita per superare l'incollatura di vantaggio che avevamo in precedenza;
2) nel frattempo, i francesi non sono rimasti con le mani in mano, e nel mese di giugno dello scorso anno hanno fatto anch'essi la loro brava revisione. Non molto, un 2-3 per cento, che però è stato sufficiente a scongiurare il superamento e a salvare l'onore gallico;
3) sono state messe a disposizione dei "confrontatori" nuove parità di potere d'acquisto. La riponderazione dei vari panieri (consumi privati, consumi pubblici, investimenti, ecc.) dal 1980 al 1985 ha permesso comparazioni più accurate, che tuttavia hanno relativamente penalizzato il nostro Paese.
Siamo dunque, e per ora irrimediabilmente, sesti. Per riprendere la scalata, sarò necessario lavorare di più, consumare di più, esportare di più. E aver fede. Senza lasciarsi prendere da facili entusiasmi.


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