§ Appuntamenti con il futuro

Aspettando il '92




Mario Talamona



Quando ci vuole, ci vuole. Così è toccato al presidente della Confindustria rammentare che "un'economia non guidata, non programmata, non funziona". In altri tempi, l'affermazione avrebbe fatto scalpore. Chi fosse rimasto fermo alle idee e ai problemi di ieri non avrebbe mancato di sobbalzare. Ma probabilmente anche Angelo Costa, oggi, dovrebbe dire le stesse cose.
In questo Paese, gli equivoci nominalistici non mancano mai. I pregiudizi, neppure. Perciò si fa confusione fra concetti astratti, senza badare alle questioni concrete dell'economia. Per fortuna, le sfide monolitiche fra sostenitori della "programmazione" e sostenitori del "libero mercato" hanno fatto il foro tempo. Tempo perduto. Se un paradosso c'è, è quello dell'inversione dei ruoli fra imprenditori, abituati a programmare, e politici o amministratori pubblici, distratti da ben altre cure. Davanti alla scadenza del mercato unico europeo nel 1992 (domani, com'è facile capire), prevale la tendenza a cercare che cosa si potrebbe evitare di fare. Una tappa fra le più "strutturali" e irreversibili che si possano immaginare dovrebbe invece suscitare uno straordinario impulso a fare: a decidere, a prepararsi.
Come si presenterà l'economia italiana al l'appuntamento? A grandi linee, dopo un intenso processo di adattamento e ristrutturazione, l'industria dispone di efficienza imprenditoriale e capacità strategica per ampi orizzonti. Ha rinnovato la maggior parte degli impianti con massicci investimenti di razionalizzazione e ammodernamento. Sia dal punto di vista tecnologico, sia da quello gestionale e finanziario (rimossi non pochi vincoli e rigidità), ha superato, con qualche vantaggio, i ritardi accumulati in passato. Dall'inizio degli anni Ottanta, una severa politica monetaria e del cambio ha spinto i settori esposti alla concorrenza internazionale verso traguardi di tutto rispetto.
Ben diverso è il caso dei settori "protetti": quello dei servizi vendibili sul mercato (dal commercio al credito), ma soprattutto quello pubblico. Qui, né la "corda del boia" né la "frusta del cambio" possono alcunché in fatto di produttività, efficienza ed efficacia. A seconda dei casi, ci vuole un impietoso bagno di mercato o una programmazione economica rigorosa e, al tempo stesso, così innovativa da sembrare inimmaginabile. Ma non si può esitare. Si pensi alle Ferrovie, alle Poste, alla Sanità, all'istruzione, dove i ritardi sono enormi e richiedono una vera "rivoluzione culturale" di tipo manageriale.
In settori d'importanza decisiva, il cui degrado tecnico-economico costituisce un proibitivo handicap per l'intera economia (e per la società italiana), abbisognano capacità progettuali sorrette da chiari obiettivi politici, stimoli di mercato, convergenza di risorse e strumenti pubblici e privati: per esempio, dai trasporti ai territorio, dal l'inquinamento alle grandi città, dove è urgente ricostruire e ammodernare il capitale collettivo. In generale, abbiamo bisogno di un'accumulazione più sostenuta ed equilibrata, condizione necessaria, anche se non sufficiente, per lo sviluppo dell'occupazione in condizioni di competitività.
Per far funzionare l'economia, per "guidarla" in questo senso, necessitano precise riforme istituzionali. Occorre, fra l'altro, eliminare il rischio di quello che il ministro dei Tesoro ha definito "il mio lago di Paia": il minaccioso dislivello fra entrate "sicure" e spese "possibili". Con una massa spendibile nel 1987 di oltre 580 mila miliardi, il fabbisogno pubblico "teorico" non era di 100, ma di oltre 327 mila miliardi. Un'onda di piena ci travolgerebbe.
Non c'è bisogno di rifarsi a Keynes, e nemmeno a Leontief o Tinbergen. Per restare fra i Nobel dell'economia, è sufficiente l'auspicio di un ultraliberista come Hayek: "Il governo pianifichi in anticipo per lunghi periodi le proprie attività, ne dia l'annuncio e si impegni all'esecuzione di questi piani, così da rendere più prevedibile l'azione del governo stesso".

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