§ Luci ed ombre dello Stato assistenziale

Una nuova cultura del "Welfare State"




Gennaro Pistolese



Parimenti a quanto si verifica, sul piano dottrinario e su quello pratico, in materia di rapporti fra pubblico e privato, con ripensamenti di fondo ed aggiustamenti operativi, anche nella problematica attinente al modo di essere del Welfare State, che è lo stesso che "economics of welfare" è in atto una revisione più che di principii, di applicazioni. Il fatto è che le applicazioni stesse, sotto la spinta pure di fermenti demagogici e di una incontrollata sete di "progresso", non adeguatamente sostenibile e perciò possibile e reale, hanno avuto un'espansione a macchia d'olio, fra l'altro con costi spesso non compensati dai ricavi di natura sociale e soprattutto frequentemente senza copertura.
Il concetto di economia dei benessere ha avuto tra i suoi primi formulatori, forse il primo in assoluto, l'economista inglese Arthur Pigou, allievo e successore di Alfred Marshall a Cambridge. Ma accanto al suo nome si pone sempre tra i maggiori anche quello di John Hobson. Al fondo dei suo pensiero vi èl'ispirazione della conciliazione dei credo nell'esattezza delle idee classiche con le convinzioni parasocialiste. E questo, come si sa, è un travaglio che da tempo è alla ricerca di un suo punto di equilibrio, nella contemperanza tra ansie sociali e leggi economiche. Arthur Pigou ha avuto nelle sue elaborazioni come motivo fondamentale la cattiva distribuzione dei reddito, che è giustamente ritenuta non meno dannosa di una sua diminuzione. E' solo da una distribuzione equa del reddito prodotto che discendono le premesse atte alla realizzazione di un "welfare state", e cioè di uno stato di benessere con soddisfazione di tutti gli strati sociali della popolazione.
Siamo, come si vede, all'enunciazione di un finalismo che tutti più o meno incondizionatamente recepiscono, salvo a dover fare i conti con il suo modo reale di essere, con i suoi limiti, con le sue compatibilità. E questi non sempre trovano posto ed analisi adeguati nella dottrina, portata frequentemente più ad esaltare i principii che non ad analizzarne i possibili mezzi di attuazione. La manovra fiscale è ritenuta uno degli strumenti di realizzazione dello stato di benessere, ma nel valutarne la sfera di applicazione non sempre viene considerata la necessità che un'equa distribuzione dei reddito non deve colpire le fonti di risparmio del reddito stesso. E ciò per consentire la sua crescita, che poi non è altro che il mezzo per fare fronte alla domanda sociale.
Fatta questa rapida premessa, che assegna a Pigou il posto di cui abbiamo detto, dovendo però riconoscersi che questa problematico è stata sempre sia pure in nuce sentita da tutti gli economisti (avverte infatti lo Schumpeter che sin quasi dalle origini dell'economia un concetto di benessere sociale sia pure definito in forma vaga ha avuto una funzione importante negli scritti che si sono susseguiti), la determinazione della tematica che rientra appunto nell'economia dei benessere trova una messa a punto certamente valida anche nelle formulazioni fatte al riguardo da O. Morgenstern. Questi afferma che in dette impostazioni rientrano i tentativi volti a determinare se posso essere definito in qualche modo un massimo sociale, se esista di fatto e con quale sistema di prezzi e di distribuzione del reddito possa essere assicurato. "Vi rientrano - egli aggiunge - i problemi della tassazione migliore, della giustizia economica, dell'iniziativa sociale rispetto a quella individuale, come pure il problema della misurabilità dei raffronto interpersonale e della ridistribuzione di utilità".
Come si vede, siamo di fronte ad una chiave di interpretazione e di indirizzo della dottrina e della politica economica tutte intere, perché una volta che si sia posta alla base - come è irrefutabile - la prevalenza dei valori e del finalismi umani, tutta la sfera pratica e tutta l'evoluzione vanno considerate ed affrontate in quest'ottica. Naturalmente questa subordinazione dell'economia a tali valori non comporta massimalismi più o meno messianici, che renderebbero vane le stesse "conquiste" che dovessero essere state fatte.
Secondo Pigou, la scienza economica sarebbe stata male orientata, in quanto si occuperebbe troppo esclusivamente della produzione dello scambio delle ricchezze valutate in moneta. Occorrerebbe invece mirare più in alto. Il fine essenziale dell'attività umano non dovrebbe essere il profitto, né la produzione pura e semplice di ricchezze qualsiasi. Esso dovrebbe essere il benessere. Inoltre l'ideale sarebbe un sistema economico rispondente ai bisogni reali: la teoria dovrebbe in tal modo poter apprezzare qualitativamente i diversi tipi di ricchezze secondo il loro potere rispettivo di realizzare il benessere totale. Come si vede, siamo sul piano di idealità che cercano di permeare la realtà, che rappresentano un optimum da ridimensionare con il possibile. Il che è d'altra parte inteso, dallo stesso Pigou, con la circospezione che dimostra nel valutare i diversi possibili tipi di soddisfazione cui l'uomo aspira.
Le stesse sue denunce sono dirette a coprire un'area di generale accezione con risonanze che si rifanno ad espressioni maturate e convalidate dei pensiero economico. Così quanto riguarda certe sue condanne, riferentisi al malthusianesimo economico, a certi sprechi, al cattivo orientamento della produzione nella zona del rendimenti decrescenti, certi processi di fabbricazione redditizi per coloro che li utilizzano ma che impongono dei sacrifici senza compenso alla collettività umana.
Sempre con queste ispirazioni, egli si è soffermato sulla dimostrazione - il che oggi è addirittura ovvio - che la distribuzione del redditi troppo ineguale (basso livello dei salari e disoccupazione) comporta attentati al benessere di tutti. Redistribuzione dei redditi e quindi una politica fiscale tendente alla repressione delle attività contrarie al benessere: riassumono l'essenza di questo pensiero, che è innovatore nella misura in cui esso è tassativo. Ma, attenzione, la tassatività è più nel finalismo cui si indirizza che nella determinazione dei possibili ed utili livelli conseguibili: questa essendo più materia di scelte politiche, che non di dettati dottrinari.
John Hobson si è addentrato, dal canto suo, in un'analisi fondata su di una nozione del "welfare" appoggiata ad elementi qualitativi ed a giudizi di valore sui diversi tipi di consumi. Egli atteggia il suo pensiero a quello che, a preferenza del benessere cosiddetto totale, si fonda sul benessere umano. Da questo punto di vista certi lavori considerati economicamente penosi sono al contrario fonte di piacere per la persona che vi si dedica. Si tratta di tutti quelli che elevano l'uomo moralmente ed intellettualmente ed educano il suo gusto. Essi non hanno mai dei costo umano. Altri hanno, al contrario, un costo umano considerevole: sono tutti quelli che asserviscono od avviliscono il lavoratore. Entra così in ballo, con queste impostazioni, l'etica, perché a detta sempre di Hobson l'etica non è mai un'intrusa nei fatti economici: gli stessi fatti sono a loro volta economici ed etici. Ma anche questa eguaglianza non va intesa in senso assoluto, perché la realtà è quella che è con le sue antitesi. In forza di queste antitesi Hobson è portato ad opporsi alla libera economia di mercato ed in genere al capitalismo, quale era inteso e praticato fino agli albori dei secolo. Le critiche di Hobson ad un capitalismo che impone alle masse un lavoro troppo specializzato, ingrato, monotono, il cui costo umano è molto elevato; ad un capitalismo che crea i rischi di disoccupazione; ad un capitalismo che sbocca anche in un eccesso di risparmio, perché il risparmio dei fortunati non ha un vero costo umano, ecc., sono più la risultante di una visione del capitalismo ignaro di questi aspetti, che non di un capitalismo che cerca, spesso riuscendovi, di superarli. D'altra parte, chi questo capitalismo ha cercato di superare, o ha accantonato con il cosiddetto socialismo reale, con le collettivizzazioni, con le rigide ed inconcludenti pianificazioni, oggi riscopre sia pure timidamente ed in forma superficiale i valori dell'efficienza e dell'indistruttibile equilibrio economico.
C'è in atto, come replica a queste impostazioni, una riflessione critica, dalla quale è derivata e sta derivando la ricerca di nuove basi per la economia dei benessere, che ha dato luogo alla nascita di molteplici saggi, che ripensano questa tematica alla luce di una nuova realtà, quale è quella successiva all'"Economics of Welfare" di Pigou, che risale nella sua edizione originale al 1920, per ricercare la sua prima versione "Wealth and Welfare" nel 1912. Da allora sono intervenute due guerre mondiali e c'è l'evoluzione economico-sociale che ci ha condotti alle soglie del Duemila, con le nuove ansie, le nuove sollecitazioni, un progresso tecnologico e sociale di cui conosciamo la dimensione, gli effetti, e cominciamo a costruire i nostri primi aggiustamenti, in un divenire di nuovi status sociali, di trasferimento da una fascia all'altra, di una graduatoria di bisogni che subisce più o meno repentini spostamenti con la conseguente diversa scala di aspirazioni, di rivendicazioni ed anche di doverosi riflessi in una condotta politica che voglia e sappia adeguarsi ai tempi.
Sorge a questa luce la nuova economia dei benessere, con le intuizioni e le sistematiche che ne sono derivate, con i suggerimenti che sono avanzati, con le conclusioni critiche che vengono tratte in merito alle precedenti espressioni del pensiero economico in materia. Come scrive Federico Caffè nel "Dizionario di economia politica", uno stimolo in questa direzione è costituito dal riesame metodologico sulla natura e l'importanza della scienza economica dovuto a L. Robbins con il suo "An essay on the nature and significance of economic science" dei 1932 (A quindici anni dopo risale invece la prima edizione italiana).
In questo saggio Robbins, richiamandosi al pensiero continentale e traendone elementi per criticare l'associazione storica dell'economia inglese con l'utilitarismo, riaffermava l'invalidità scientifica dei confronti internazionali di utilità, in quanto basati su giudizi di valore da considerarsi estranei ad uno studio positivo di fatti accettabili, e giungeva a conclusioni particolarmente restrittive circa la possibilità per l'economista come tale di esprimere suggerimenti, valutazioni o precetti in merito ai problemi concreti. Affermando, in sostanza, categoricamente l'incapacità dell'economista di pronunciarsi sui giudizi di valore finale, tale riesame conduceva ad escludere che la economia fosse atta a ricavare dal suo interno una serie di principii obbligatori per la pratica. Di fronte alla perentorietà di queste enunciazioni, limitative della capacità di analisi e di conclusioni dell'economia - il che evidentemente è tutt'altro che accettabile in una scienza che, come tutte le altre, deve essere portata ad allargare i propri spazi, sulla base della ricerca, delle intuizioni, della fantasia, della sua capacità di interpretare e di indirizzare il mondo che cammina - lo stesso Robbins non si è sottratto alla ricerca del modo in cui giudicare singole proposte di azione, sottolineando
peraltro la necessità di assumere in tal caso determinati postulati di valore, non suscettibili di verificazione scientifica. Ciò ha significato nel pensiero di Robbins non già la rinuncia a certi esami ed a certi temi, ma solo l'abbandono di pretesti di obiettività scientifica. Sennonché il peso della scienza, sia pure cacciato dalla porta, è condotto a rientrare dalla finestra, dato che è proprio della scienza, quale ne sia il campo di svolgimento, dare risposte ai problemi che essa stessa si è posti e si pone tutti i giorni, fra cui appunto proprio quello dell'economia del benessere. Campo nel quale soprattutto la politica fa la sua parte, buona o sbagliata che sia, ma per la quale non deve mancare pure l'usbergo della dottrina.
L'impostazione dei Robbins ha incontrato subito reazioni e critiche della stessa scienza economica, come si evince dei resto da varie prese di posizione. Una di queste è da attribuire ad Einaudi, ma dei suo pensiero parleremo più oltre, che ha contestato l'esistenza di alcuna ragione plausibile per fissare i confini di un qualunque territorio scientifico secondo una linea piuttosto che secondo un'altra. A sua volta, Hiks ha sottolineato che un'accettazione delle affermazioni di Robbins avrebbe portato alla eutanasia della scienza economica o alla sua trasformazione in una collezione di tecniche, per dirla con le parole di Scitovsky.
Queste diverse ottiche, che hanno avuto nel tempo anche recente molte altre espressioni, ora di conferma di altre scuole di pensiero ora di superamento di esse, continuano oggi nel loro alternarsi, non essendo ancora definiti tutti i problemi e gli aspetti sul tappeto. Infatti, i problemi della tassazione migliore, della giustizia economica dell'iniziativa sociale rispetto a quella individuale, della misurabilità, del raffronto interpersonale e della redistribuzione di utilità non hanno trovato sinora soluzioni la cui accettazione possa ritenersi acquisita. Vuoti concettuali, inadeguatezza del punti obiettivi di riferimento, ancoraggio e static e premesse hanno costituito ed in parte costituiscono la ragione di quella che può definirsi l'insoddisfazione ed il pessimismo di certi studiosi in merito all'evoluzione della dottrina in questa materia. Di qui la convinzione di M.W. Reder che lo stato attuale dell'economia del benessere sia molto infelice; di qui ancora l'auspicio di F. Vito che la seconda metà del ventesimo secolo sia in grado di avviare sviluppi più costruttivi. Il che però, si può aggiungere, è avvenuto e sta avvenendo più con i ripensamenti suggeriti dalla realtà, che in questa materia si muove su basi revisionistiche, che non già con gli spunti e le osservazioni derivanti dalla dottrina.
Due concetti emergono sempre più rispetto a quelli passati o tradizionali, e cioè quello della pari e contemporaneo valenza dei valori della efficienza e dell'equità, fra l'altro - come osserva il Caffè - tenendo ferma la rigorosità del metodo dell'economia dei benessere paretiana e di utilizzarne gli strumenti nel superamento peraltro delle limitazioni. Fondamentali nel pensiero paretiano sono, come è noto, oltre che le intuizioni in sociologia, che lo hanno fatto eminente secondo alcuni più di quanto non gli derivi dalla sua figura di economista, le sue tesi in materia di ofelimità, di distinzione fra i coefficienti di fabbricazione variabili o costanti, di definizione dei diversi ordini di coefficienti di interpolazione o di distribuzione di redditi.
Ed a questo proposito vale quanto ha avuto occasione di dire Giovanni Demaria, e cioè che si tratta di un contributo di tale importanza che, anche se Pareto non avesse lasciato alcun altro contributo, dovrebbe solo per esso essere classificato fra i più grandi maestri dei pensiero economico.
La teoria dell'equilibrio è al centro dei suo pensiero, che si inquadra in una più generale dottrina, con i suoi capostipiti, che vanno da Jevons, Edgeworth, Marshall in Inghilterra, a Walras in Francia, da Clark e Fisher in America a Pareto ed anche Barone in Italia. Pareto in particolare ha scritto un saggio su "l'equilibre des corps solides", nel quale afferma che l'equilibrio di un sistema economico presenta analogie sorprendenti con l'equilibrio di un sistema meccanico. Quando si conosce quest'ultimo, egli aggiungeva, si hanno pure idee chiare sul primo. Sennonché non sono mancate contestazioni e riserve. Una di queste è dovuta a Benedetto Croce, che lo ha accusato di aver abusato dei linguaggio. Per lui, è stato detto, la società è un sistema di punti materiali sottoposti a forze e l'economia si traduce in una meccanica dello scambio. In quanto poi alla portata di questa concezione all'equilibrio ideale, essa è stata caratterizzata dall'analogia con un castello che seduce occhi e mente, ma non aiuta a risolvere il problema pratico dell'alloggio.
Risolvere, appunto, il problema. Anche Einaudi, fra l'altro con le sue "Lezioni di politica sociale", si è posto questo obiettivo, con la premessa dei perfezionamento e la riforma delle istituzioni, i costumi, le leggi, e con lo scopo di toccare più alti ideali di vita. Un valore prioritario egli ha assegnato all'apporto ed al sacrificio individuale a fronte dell'assoluto garantismo offerto o richiesto allo Stato. Il pensiero contemporaneo tende oggi ad una più organica ed operativa contemperanza fra i due fattori, da cui dovrebbe derivare una nuova cultura dei "Welfare State", con la quale si intende combinare l'intervento dello Stato con la personalizzazione dei bisogno sociale, questa da intendere non solo con la maggiore individualizzazione della prestazione, ma anche con l'assunzione da parte dei singoli di una corrispondente quota di gravami, in forma integrativa ed anche esclusiva per taluni campi.
L'articolazione e la capillarizzazione delle assicurazioni sociali, nel loro divenire e nelle spinte che le hanno determinate, non hanno bisogno di illustrazioni. L'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, l'assicurazione per le pensioni di vecchiaia, le assicurazioni di matrimonio e maternità e gli assegni familiari, l'assicurazione malattia, l'assicurazione contro la disoccupazione e così via hanno una lunga e travagliata storia, con i passi innanzi che sono stati compiuti, ma anche con le involuzioni che l'intero sistema ha subìto, a causa di immaturi passi innanzi che hanno caratterizzato taluni sistemi, di costi di erogazione insostenibili dalla convivenza civile, che pure li aveva richiesti e praticati, delle strettoie operative che spesse volte hanno finito per rendere caduca la stessa struttura erogatrice.
Piano Beveridge e prima ancora la Germania, allorché con Bismarck assunse l'iniziativa di un compiuto sistematico ordinamento di assicurazioni sociali, sono i primi punti di riferimento di un sistema, mirato alla garanzia in tutti gli eventi della vita nei quali venga meno il guadagno o il reddito personale di un reddito minimo sufficiente ad assicurare la sussistenza. Sennonché nel misurare questa sussistenza non sono mancati errori, ora in eccesso ora in difetto, con la subita tendenza a far fare al bilancio dello Stato o alla stessa produzione in molte materie passi pio lunghi della gamba. Dei resto questi passi sono stati tentati non solo nella dimensione del costi delle assicurazioni sociali, ma anche nelle forme di garantismo che sono state perseguite, imposte o subite, in taluni sistemi, soprattutto con le concezioni statuali a sfondo collettivistico, con la cosiddetta proprietà pubblica dei mezzi di produzione, con le partecipazioni ai profitti o alle stesse gestioni.
Quella della partecipazione ai profitti, dice Einaudi, riflette una lunga storia, la qua e potrebbe essere fatta risalire alla millenaria applicazione che nella sua formula più semplice si è fatta nell'agricoltura con la mezzadria e con le altre maniere di partecipazione del contadino al prodotto della terra e nella pesca, con la tradizionale divisione dei prodotto in parti aliquote fra padroni della barca e marinai addetti alla pesca. Esempi non sono mancati nel corso dello stesso secolo scorso, ma è in questo che essi assumono un certo spessore, fra l'altro con la partecipazione ai profitti decisa dal Consiglio Superiore del Lavoro francese nella sessione dei Novembre 1923.
Il dettato di questa decisione si riassume nel l'affermazione che la partecipazione ai profitti è un contratto, in virtù del quale il datore di lavoro si impegna a distribuire in aggiunta al pagamento dei salario normale, fra i salariati della sua impresa, una parte degli utili netti, senza partecipazione alle perdite. In sostanza, ferma restando la caratteristica volontaria e libera della convenzione che può prevedere la quota di aggiunta al salario reale, l'operaio non è vero socio, il quale partecipa alla gestione sociale in ambo i sensi, ma quasi socio, il quale partecipa solo se e quando si ottengono utili.
Ma si sa come si siano tradotti nella pratica questi tentativi, quale grado di operatività abbiano avuto, quali incongruenze abbiano manifestate, così da farli accantonare ed avere un'applicazione estremamente limitata e più che altro sperimentale, tale cioè da non provocarne la continuità e tanto meno l'estensione.
In Italia, all'indomani della seconda guerra mondiale, si ebbe il tentativo o meglio la rivendicazione del cosiddetti consigli di gestione, che tuttavia non ebbe un seguito. Ora questa tematica è virtualmente abbandonata da parte dei sindacati, mentre qualche caso di distribuzione gratuita di azioni ai dipendenti di questa o quella società non ha mancato di verificarsi, senza alcun riscontro in sensibilizzazioni sindacali.
Il problema concettuale di fondo in tutta questa tematica, secondo Einaudi e la scuola liberale che egli rappresenta è l'uguaglianza nei punti di partenza, fatti salvi alcuni strumenti che vengono a soddisfare una legittima domanda sociale.
E qui, a definizione di detto pensiero, contano alcuni principii, e precisamente:
a) il mercato è un meccanismo perfettamente adatto alla domanda, ma non si occupa del desideri; è indifferente alla distribuzione dei numerario fra i cittadini. Il mercato descritto dagli economisti si adatta egualmente bene ai più diversi tipi di società e la sua eccellenza lascia insoluto il problema, moralmente e politicamente, sostanziale: quale delle diverse forme di distribuzione dei redditi è la migliore?
b) fermi restando tutti gli altri dati del problema, una ripartizione ugualitaria dei reddito nazionale totale oggi esistente non muterebbe in maniera apprezzabile le sorti delle moltitudini e, tenuto conto del costo e delle resistenze generate dalla mutazione, probabilmente le peggiorerebbe.
c) scarsa variabilità della distribuzione dei redditi nel tempo. In concreto, né mutazioni grandiose di struttura economica, né variazioni notabili di peso dell'attività agricola o commerciale o manifatturiera, né guerre né paci sembrano avere efficacia a mutare la distribuzione del redditi Tant'è che Pareto quasi finisce di ritenerla un'espressione delle qualità innate di attitudine al procacciamento della ricchezza da parte degli uomini.
d) a fronte dei l'interrogativo se l'indifferenza del mercato non dipenda dalla mancanza di istituzioni correttive, Einaudi osserva che, se anche fosse vero che la distribuzione della ricchezza segna una norma costante, ciò accade entro società nelle quali facciano difetto istituzioni consapevolmente intese ad aiutare quella distribuzione e nel tempo, dall'inizio dell'800 ad oggi nelle somme linee, nonostante quanto è stato fatto, rimane invariato il quadro di una società economica nella quale non esistevano freni vigorosi al successo delle qualità umane favorevoli al procacciamento della ricchezza. Rimane pertanto vivo l'atto di accusa rivolto contro il formalismo dei pregi attribuiti al meccanismo del mercato. Quel meccanismo lavora con perfezione mirabile; ma dà la risposta congrua alle domande che arrivano sino ad esso. Il meccanismo è in effetti uno strumento economico, il quale ignora la giustizia, la morale, la carità, tutti i valori umani. Ed è proprio da questa constatazione che deriva la motivazione (con la spinta che essa sempre più nettamente manifesta) della politica sociale, alla quale non bisogna attribuire solo l'anelito dell'esigenza da soddisfare l'uguaglianza nei punti di partenza, cara ad Einaudi, ma anche valori finalistici e principii da realizzare intensamente alla luce di una bene intesa giustizia sociale. Dal processo critico che ne deriva nasce, meglio sta nascendo, quella che viene definita una nuova cultura dei "welfare state", sulla quale si sofferma anche una recente pubblicazione del CENSIS.
Un primo interrogativo che va posto in luce riguarda l'obiettivo delle critiche che vengono formulate, e cioè se dette critiche si riferiscano al grado di ampiezza o al grado di efficienza dell'intervento pubblico. Nel primo caso -secondo alcune impostazioni - la chiave di volta delle opportune soluzioni è da ricercarsi nella possibile riduzione delle funzioni sociali dello Stato; nel secondo caso, è in causa invece non il complesso delle funzioni stesse, ma la disfunzione dello Stato. Questa, l'impostazione schematica, che però non può essere così esclusiva ed alternativa. Il fatto è che le disfunzioni sono riconducibili contemporaneamente all'ampiezza ed all'inefficienza, dovendo essere riviste e ripensate in questa duplice ottica, che e poi condizione di una diversa concezione dello Stato, che sia effettivamente presente dove deve esserlo, ma che nel contempo dia un contenuto reale, valido, operativo a questa sua presenza. Su questo piano anche le concezioni neoconservatrici e quelle neo-liberali si confrontano. Le prime puntano ad un'organizzazione sociale nettamente selettiva, con la conseguenza di una limitazione della spesa che lasci più spazio alla determinazione selettiva delle risorse. Le seconde denunciano le conseguenze di squilibrio che potrebbero derivare dal prevalere della selettività a danno delle esigenze di emancipazione. Il punto di equilibrio e di sintesi in queste contrapposizioni viene ricercato nella presenza di uno Stato che assicuri al cittadino le necessarie garanzie e coperture dalle evenienze più gravi e pesanti, lasciando libera l'altra sfera dei bisogni e le scelte per il loro soddisfacimento.
Benessere individuale, cioè in convergenza con il più alto possibile grado di libertà; così per quanto riguarda l'istruzione, l'abitazione, la salute, con l'impiego di risorse adeguate in relazione a quelli che devono o possono essere i compiti dello Stato e le possibilità e risorse degli individui e delle famiglie. Comunque, alla base di tutto, quali siano le scelte collettive o personali, e il rendimento delle erogazioni cui accediamo in relazione al loro costo. Ed in questo costo, si sa, una delle componenti maggiormente incisive è certamente quella costituita dalla burocratizzazione, la quale si presenta con due gravami, e cioè con quello della compressione, non diciamo della libertà, ma della correttezza individuale, e con l'altra di un forte assorbimento e, al limite, di annullamento di risorse.
E questo il male cronico di taluni ordinamenti statali, a cominciare dal nostro, che si riflette ovviamente nella ridotta e spesso antieconomica gestione della politica sociale. Un correttivo in questa situazione e rappresentato per taluni dalla introduzione nei servizi sociali finanziati con denaro pubblico di elementi di mercato, intendendosi per essi l'apertura ad iniziative e strutture privatistiche (nei campi nei quali l'integrazione extra pubblica può essere ricercata ed attuata) e comunque la valorizzazione ed il perseguimento di condizioni di reale valenza ed efficienza. E ciò sia per trattenere lo Stato sulla strada della lievitazione e della inadeguata qualificazione della spesa, sia per dare un contenuto reale ed operativo al soddisfacimento di un personalizzato bisogno sociale.
Nel nostro quadro politico-sociale, anzi riassuntivamente civile, due aree della spesa sociale attraversano una fase drammaticamente critica, che mette a repentaglio il godimento di due essenziali ed insopprimibili diritti del cittadini: ci riferiamo alla sanità ed alla previdenza, per le quali si dice che occorre ripristinare l'imperio della personalità e libertà umana: libertà dal bisogno, ma anche liberazione dalle strettoie che colpiscono l'individuo, quando adeguatamente sostenuto può fare la sua parte. E ciò con il risultato della vitalità di un "Welfare State", che non sia chiamato a fare tutto, ma faccia bene quanto, nei limiti istituzionali opportunamente definiti e non demagogicamente gonfiati, deve fare.
Ora, per quanto riguarda il quadro che è sotto i nostri occhi, sia per la previdenza che per la sanità, siamo innanzi a quelle che vengono definite mine vaganti. In particolare per la previdenza, i pericoli che incombono sono costituiti dalla previsione nel 2015 di un pensionato che sarà a carico di un occupato e di un livello dei contributi che se non interverranno opportune riforme si aggirerà sul 50% della retribuzione lorda, nella incontrollata espansione di una contribuzione che è particolarmente pesante nel nostro sistema e che ne sta progressivamente restringendo il grado di competitività.
La soluzione è da ricercare nel ridimensionamento di prestazioni e nell'integrazione fornita dalle forme di previdenza collettive ed individuali, che però hanno anch'esse dei limiti di sopportabilità, non potendosi contare a questo titolo su gravami aggiuntivi trasferiti alla produzione. Avvertono infatti al riguardo gli imprenditori che parlare di previdenza integrativa con un tutto pensionabile di 37,5 milioni annui come quello attuale non avrebbe senso: a beneficiarne sarebbe solo l'1,7% dei lavoratori. Da ciò la conclusione che questa strada è praticabile nella misura in cui contestualmente sarà dato corpo ad una riforma globale. così da dare il via ed assicurare spazi per pensioni integrative che non comportino nuovi ed elevati costi, e ciò nella considerazione dei fatto che già oggi le aziende pagano contributi pari al 25,86% della retribuzione contro il 14,6% della Francia, il 19,45% della Gran Bretagna, il 18,7% della Germania Federale, il 16,36% dei Belgio.
Le difficoltà dei sistema pubblico in Italia sono sotto i nostri occhi giorno per giorno, ed anche sul piano politico sono prese in considerazione. Sta di fatto però che, mentre negli Stati Uniti sono bastati tre mesi dai primi sintomi di difficoltà dei sistema pubblico per attuare una ristrutturazione delle forme centrate sulla previdenza integrativa, in Italia il problema si dibatte in Parlamento da poco meno di un decennio, trascurando gli apporti risolutivi che potrebbero derivare dall'assetto di questa materia, anche in termini di formazione di risorse da destinare ad eventuali finanziamenti di investimenti (E questo è uno sbocco tutt'altro che ipotetico, come è confermato in Gran Bretagna dal fatto che il progetto del tunnel sotto la Manica è finanziato dai fondi pensione autonomi e dalle compagnie di assicurazione).
E passiamo alla sanità, che ha bisogno di una riforma della riforma. Come si sottolinea da più parti, vanno rivisti tutti gli organismi che formano l'ossatura dei sistema, bisogna affondare il bisturi nelle USL, distinguendo i processi politici, quelli organizzativi e quelli tecnico-funzionali. Bisogna rivedere tutto il complesso delle prestazioni, abbattendo i rami secchi e quelli superflui, è necessario riunire in una unica struttura una pletora di compiti e funzioni che ha causato inefficienza, sprechi, burocraticismi, distorsioni. Lungo è pertanto il cammino da percorrere, come dimostrano gli stessi disegni di legge presentati sull'argomento. Quella che è stata definita miniriforma (legge no 4/86 ha operato solo alla superficie, investendo solo qualche organo, con la soppressione dell'assemblea generale, e con il trasferimento delle sue competenze al consiglio comunale o all'assemblea intercomunale a secondo del territorio coperto. Anche i disegni di legge presentati in materia hanno una portata più o meno epidermica, eludendo la tematica essenziale, dalla quale risulta - come ironicamente è stato osservato -che in un Paese di malati come il nostro, molto spesso immaginarii, il paziente più grave è proprio la sanità.
Strutture da una parte, domanda dall'altra, sono pertanto i due poli di intervento. Le prime con un loro rivoluzionamento ed assetto corretto, la seconda con il contenimento, operato sulla base di idonei interventi selettivi che non contrastino con l'essenziale obiettivo dell'equità. Non va dimenticato che all'interno della CEE gli italiani detengono il primato di pazienti maggiormente iperattivi di fronte a malesseri passeggeri: fra l'altro, nei casi di tachicardia, 56 pazienti su 100 consultano il medico, contro i 20 della Gran Bretagna.
Ma vi sono altre cifre ancora più rappresentative delle quali occorre tenere conto. Quanto, ad esempio, ad incidenza della spesa sanitaria sostenuta dallo Stato sul totale della spesa sanitaria globale, siamo al primo posto nella graduatoria del Paesi maggiormente industrializzati, con la sola eccezione della Gran Bretagna. l'Italia è all'84,1%. Fra l'altro, la situazione italiana denuncia anche un notevole grado di rigidità del sistema, dato .che nel corso degli ultimi 25 anni la distribuzione degli oneri fra lo Stato ed i privati è rimasta pressoché identica.
In una generalizzata gravita del problema per tutti i Paesi industrializzati, in Italia esso assume una maggiore pericolosità, dovuta alle modalità che si sono prescelte o tollerate nelle nostre strutture. Uno studio dell'OCSE, dedicato all'argomento, avverte che "la lentezza della crescita economica, l'elevatezza della disoccupazione e le prospettive di una crescita futura modesta obbligano i governi a valutare l'efficienza, l'efficacia e l'equità del loro sistemi, e la loro capacità di far fronte all'evoluzione demografica, epidemiologica e tecnologica dei prossimi decenni". Per quanto ci riguarda, la spesa sanitaria procapite dovrebbe aumentare, secondo le previsione OCSE, del 9%, ma questa è una ipotesi che purtroppo rischia di essere superata dai fatti, a fronte di una crescita del prodotto interno lordo quanto mai inferiore.
Come sottolineano i nostri esperti, sembra assai difficile che un sistema sanitario regolato dalla logica del grandi apparati burocratici abbia l'elasticità e la lungimiranza per rispondere tempestivamente alle esigenze che si presentano. Di qui la necessità di un alto grado di coraggio e di fantasia nell'intendere e nel praticare, nei limiti dovuti, con le compatibilità necessarie, con la idonea delimitazione di quello che rientra nella sfera pubblica e di quanto è di pertinenza individuale, il nostro "Welfare State": da riformare perché sia veramente efficiente, non nasconda vuoti .o pretese di gigantismi, corrisponda a passi innanzi favoriti dal giusto rapporto con la gamba.
Dice Einaudi, soffermandosi sulla cosiddetta teoria dei punto critico nella scienza economica, che "il primo bicchiere d'acqua ridà la vita all'assetato nel deserto, sicché per non morire costui è pronto a dare per esso tutta la propria sostanza; il secondo è bevuto ancora con avidità; il terzo ed il quarto sono ancora desiderati. Ma ad un certo punto, l'offerta non è più gradita, tant'è che, crescendo ulteriormente l'offerta, questa finirebbe per essere pericolosa". Questa teoria del punto critico, fondamentale nella scienza sia economica che politica, degli uomini viventi in società, è il metro primo dei doveroso ripensamento di una materia che dobbiamo depurare dell'immagine e del contenuto messianici che impropriamente le sono stati attribuiti.

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