§ MEZZOGIORNO E MOVIMENTO CONTADINO

Il vento del Sud (4)




Maria Rosaria Pascali



Siamo nel 1908. Il sistema di repressione attuato dal governo centrale non è in grado di contenere le sommosse del popolo, sempre più agguerrito nelle proprie rivendicazioni. D'altra parte, i latifondisti non possono contare su ulteriori stanziamenti di presidi militari. Le loro pressanti richieste si scontrano con il ferreo rifiuto del ministro della guerra, il quale giudica inammissibile il degrado dell'esercito al rango di corpo di pubblica sicurezza. Occorre, dunque, battere altre strade, cercare nuove soluzioni. L'occasione propizia viene con l'estate, quando una grave siccità colpisce la regione più pericolosa, la Puglia. Gli agrari, infatti, non esitano a sfruttare la situazione di debolezza creatasi nelle campagne, per esasperare i "ribelli". Ricomincia l'ingaggio di mano d'opera "forestiera". Molti uomini, spinti dal bisogno, rinunciano ai propri diritti e accettano di lavorare alle stesse condizioni degli "stranieri". Il governo invita alla prudenza. Il comportamento provocatorio che gli agrari stanno assumendo, infatti, potrà solo inasprire il mondo contadino. Tuttavia, la situazione non accenna a mutare. In molti paesi si ripetono scene drammatiche di disoccupati che aggrediscono lavoratori provenienti da altre zone. Il malcontento è diffuso. La rivolta popolare appare ormai imminente. Ma la siccità continua anche a settembre. Ora, nemmeno un cambiamento di condotta da parte del proprietari può risollevare le disperate condizioni del più. E' essenziale un intervento dello Stato, diretto all'attuazione di opere pubbliche e all'elargizione di pane alle masse affamate. Termina così, all'insegna della fame e della miseria, un biennio tormentato, che ha visto nascere fondate speranze di rinnovamento sociale. Come un castello di sabbia, quelle speranze sono crollate. La carestia è giunta puntuale a reingranare il processo involutivo, a perpetuare la maledizione di un popolo, a riaffermare la sua condizione di animale pericoloso, che solo stretto nelle catene può vivere, senza arrecare danno a chi lo domina. Negli anni che seguono, permangono lo stato di debolezza delle organizzazioni contadine ed il ristagno nelle iniziative di lotta. Continua, d'altro canto, l'ingaggio dei "forestieri" al posto degli iscritti alle leghe. Tattica questa rivelatasi molto efficace. L'immigrazione di mano d'opera a basso costo accresce, infatti, l'impotenza dei movimenti di protesta. I loro appelli ad una solidarietà di classe nulla possono di fronte agli urgenti bisogni della massa, disposta ad accettare condizioni di lavoro disumane, pur di sopravvivere.
Giolitti non muove un dito per alleviare la sofferenza di queste genti. Nel programma dello statista infatti non rientrano interventi a scopo umanitario. Tutto è finalizzato. D'altra parte, le leggi sul Mezzogiorno, quando ci sono, quasi mai vengono applicate. Quelle poche eccezioni sono frutto di una strategia che, come sappiamo, travalica gli interessi del popolo. Possiamo dunque dire che lo sfascio della società meridionale altro non è che lo specchio della corruzione e del lassismo in cui nuota il governo centrale. Si veda, in proposito, la testimonianza di Ettore Ciccotti, in un suo discorso tenuto alla Camera il 30 marzo 1909.
Con "lo scellerato patto di alleanza tra industriali e latifondisti", si allungano a ritmo esponenziale le distanze fra le "Due Italie". E il Mezzogiorno viene inesorabilmente "tagliato fuori dalla Storia e dal Diritto". Ai latifondisti basta che il governo lasci che le cose, nel Sud, vadano come sono sempre andate, e molto sarà dato al Settentrione. La loro avversità ad ogni tipo di riforma che possa modernizzare il Sud deriva dalla constatazione che, tra sviluppo e dominio agrario, esiste una relazione inversa: se lo sviluppo avanza, i privilegi diminuiscono, e diminuisce il potere. Da qui il patto. Da qui "l'emorragia" di capitali meridionali verso il Nord, denunciata con foga dal Fortunato, e che tanto contribuirà al potenziamento industriale del Piemonte e della Lombardia, nonché allo sviluppo, sempre nel Nord, di un'agricoltura in linea con i canoni del moderno processo capitalistico. Anche il mondo cattolico prende parte alla spartizione della torta. Lo sviluppo del capitalismo finanziario, accanto a quello industriale, permette alla Chiesa di estendere il proprio potere sull'economia del Paese. Non a caso i contrasti tra Vaticano e borghesia liberale, sorti con l'entrata in vigore delle famose "leggi eversive", scompaiono. Così, pure la Chiesa entra nelle fila degli epigoni giolittiani, rendendosi, al tempo stesso, complice e artefice di ingegnosi inganni a danno del Sud. Il suo massimo organismo finanziario, il Banco di Roma, ha già praticato una politica espansionistica in Africa e nel vicino Oriente. E quando Giolitti, nel 1911, avvia la campagna propagandistica per la guerra in Libia, il mondo cattolico gli dà man forte e si adopera per sollecitare l'adesione delle masse meridionali, che ad esso hanno sempre guardato con fiducia. L'opposizione alla guerra libica, sostenuta dalle organizzazioni socialiste e proletarie del Mezzogiorno e da molti intellettuali democratici, non riesce a contenere l'euforia che l'avventura tripolina sta alimentando. Nel 1912, Giolitti annuncia la riforma elettorale, che sarà realizzata l'anno successivo.
Il corpo elettorale è portato a 8 milioni e mezzo, di cui oltre 5 milioni sono analfabeti, semianalfabeti e impossidenti. L'intento èquello di spingere l'ordinamento politico liberai-conservatore verso un orientamento democratico di tipo radicale. A questi avvenimenti - guerra libica e riforma elettorale - Grarrisci addebita il declino del periodo giolittiano: "Il programma Giolitti ("creare nel Nord un blocco urbano che dia la base allo stato protezionista") fu turbato da due fattori: l'affermarsi degli intransigenti nel partito socialista, che distruggeva il blocco urbano e l'introduzione del suffragio universale, che allargava in modo impressionante la base parlamentare nel Mezzogiorno e rendeva difficile la corruzione individuale (troppi da corrompere)" (A. Gramsci, Quaderni del carcere).
Quando, nell'autunno del 1913, hanno inizio le prime elezioni a suffragio quasi universale, nel Mezzogiorno si assiste ad un fatto inconsueto. Infatti, mentre ai tempi del suffragio ristretto la partecipazione del Sud era molto più elevata di quella del Nord, nel 1913 vi è un'inversione di tendenza. Il numero di votanti nel meridione risulta inferiore sia alla media nazionale sia alla media settentrionale. li paradosso è però facilmente spiegabile, se si guarda all'imponente flusso migratorio del contadini della Calabria, degli Abruzzi e della Basilicata; e alla conseguente progressiva spopolazione di queste terre. Diverso è, invece, il discorso per la Puglia. Qui, la scarsa partecipazione degli aventi diritto al voto non è dovuta tanto o soltanto all'emigrazione. La causa principale va ricercata in una vera e propria persecuzione politica contro tutti quelli che appoggiano le candidature socialiste intransigenti. Fenomeno questo ristretto, peraltro, alla sola Terra di Bari, dove più accesa è la campagna antiministeriale. Infatti, la compattezza del movimento socialista barese nell'appoggiare la candidatura di elementi antigiolittiani e meridionalisti rischia di mettere in serio pericolo la linea politica del governo, basata sul congelamento delle arcaiche strutture del Sud. Come osserva Salvemini, "la tattica del governo è nota. Abbandona a sé i collegi in cui non c'è lotta pericolosa per i candidati governativi, e concentra le forze su quei soli punti in cui bisogna far vincere ad ogni costo un servitore del ministero e sbarazzarsi di un avversario ... ".
Il sistema di repressione è molto articolato, e va dalla mancata distribuzione di certificati elettorali ai contadini "sovversivi" alle violenze intimidatorie e agli omicidi; dagli arresti ingiustificati degli scrutatori socialisti all'azione diretta della prefettura, volta a difendere i candidati del partito dell'ordine dalle minacce dei leghisti. E mentre violenza di stato e violenza di classe operano di pari passo per tenere sotto controllo le zone calde, nelle aree più tranquille è il clero che si impegna a indirizzare il popolo verso la votazione dei candidati giolittiani. Ma questo spiegamento di forze, se riesce a contenere l'avanzata dei socialisti, non può impedire l'inesorabile declino del governo liberale. Sorto durante la fase ascendente del capitalismo, nel 1913 esso si trova impreparato di fronte alla crisi strutturale che sta attraversando l'economica italiana. In questa fase, viene meno il presupposto essenziale su cui poggia il blocco giolittiano, lo sviluppo economico; mentre il rapporto di collaborazione fra classi cede il posto allo scontro fra classi.
Non sarà certo il popolo del meridione a salutare con nostalgia il tramonto dello stato liberale. Anzi. Il crollo del sistema fa riemergere i rancori di un Sud rimasto estraneo al processo di benessere economico e allo sviluppo capitalistico delle aree settentrionali. Di liberale il Mezzogiorno ha visto ben poco, e anche quel poco è stato solo un'apparenza. Dei regime ha conosciuto, invece, la dittatura, gli inganni orditi contro le sue genti, le spoliazioni di capitali, il permanere degli antichi vincoli, degli antichi padroni, il disegno ingegnoso che, nell'olocausto di un popolo, ha visto una fase essenziale per lo sviluppo della nazione. E' con entusiasmo, quindi, che il Sud accoglie le dimissioni di Giolitti, nel marzo del 1914. Certo, il futuro non è roseo. Salandra è solo "la brutta copia di Giolitti". La nuova linea politica adottata non è altro che la continuazione della precedente. Fatto sta che è caduto un simbolo del potere. E questo basta per accendere di ottimismo gli animi delle genti.
Lo scoppio della guerra tra le grandi potenze imperialistiche, nel luglio del 1914, crea nel Mezzogiorno importanti scissioni tra intellettuali, agrari e masse popolari. La posizione fermamente antimilitarista di molti intellettuali cede il posto alla linea del l'interventismo democratico, accanto alla Francia e contro le potenze più conservatrici. L'avversione alla neutralità e l'apertura di questi uomini verso gli ideali rivoluzionari rispecchiano quell'ansia di rinnovamento sociale che ormai, a loro parere, solo uno sconvolgimento a livello mondiale potrà provocare. Ma è una posizione che trova pochi consensi presso il popolo. Non dimentichiamo che questi sono gli stessi intellettuali che, durante il conflitto libico, hanno predicato il populismo tolstoiano, nel tentativo di sottrarre le masse al controllo del clerico-moderati e degli ascari giolittiani. Come giustificare il loro passaggio su posizioni nettamente opposte? Ecco perché, in effetti, di vero e proprio passaggio non si parla. Si parla, piuttosto, di conciliazione tra i due opposti, e si legittima l'interventismo nel pensiero tolstoiano con il richiamo a un ordine di giustizia superiore; in una parola, al social-patriottismo. E' quello che fa Tommaso Fiore, quando riprende un discorso del professar Ferretti sulla Violenza e la vita dello Spirito: "Leone Tolstoj, colui che aveva predicato ai bisognosi di un amore non commisto a violenza la diserzione dalle file dell'esercito, pervenne a riconoscere, in un suo tardo brevissimo scritto ... che rinunziare alla violenza significa non solo rinunziare alla forma di giustizia nella nostra società, ma ad ogni giustizia ed equivale rinunziare alla vita".
Tuttavia, si tratta pur sempre di ideali astratti, e per molti versi confusi, cui la massa popolare non può aderire. Il suo orizzonte non va oltre la terra e i contratti agrari; la fabbrica e i contratti di lavoro. Problemi concreti, che gli effetti distruttivi di una guerra possono solo esasperare. D'altra parte, l'ostilità delle masse verso il conflitto bellico raramente assume forme di vera e propria protesta. Prevale, invece, un atteggiamento di passivo neutralismo, cui aderiscono anche le organizzazioni socialiste.
Neutrale, ma per motivi ben diversi, appare pure la grande proprietà meridionale. La guerra, infatti, può rimettere tutto in discussione; può permettere ai "cafoni" di conoscere uomini di terre più lontane che, nella vita civile, non hanno solo doveri, ma anche diritti. L'acquisizione di una nuova coscienza sociale e di una nuova dignità renderebbe ancora più insostenibile la spirale di miseria e di ignoranza in cui sono avvolti i luoghi natali.
L'entrata in guerra dell'Italia, nel maggio del 1915, viene dunque accolta dalla maggioranza della popolazione solo come una "necessità nazionale". Strumenti di manipolazione del consenso diventano i comitati di assistenza civile. Gli unici beneficiari della loro attività sono le famiglie del combattenti che, come osserva Salvemini, finiscono per costituire "una vera e propria classe economicamente privilegiata nella massa proletaria". Nessuna attenzione è posta al problema dei disoccupati o a quello delle donne lavoratrici, costrette a sostituire i richiamati nei lavori dei campi. Prevale, in questi comitati, un contesto ampiamente clientelare, ed è sempre la vecchia classe politica a dominare la scena. E' quanto constata amaramente Tommaso Fiore, in una sua lettera alla "Voce politica", dove, con ironia, egli descrive i risultati che la "rivoluzione antigiolittiana" ha prodotto a livello nazionale. Al fronte, gli intellettuali interventisti devono fare i conti con l'abisso che separa astrazione e realtà. La guerra si rivela per quello che veramente è: un tremendo ingranaggio che si nutre di uomini. Tutto, allora, si ridimensiona. Il ruolo ideale attribuito al conflitto appare mistificante. Il momento del riscatto sempre più lontano. Lassù, sulle trincee del Carso, dove il popolo meridionale combatte senza patriottismo per una causa che non sente sua, tutto è istinto di conservazione, lotta per la sopravvivenza. Agli intellettuali non resta che prendere atto della sconfitta; e accettare la guerra come un fatto "naturale". Conclusione questa cui, già da tempo, era giunto, "per la più breve via della sua ignoranza e del suo fatalismo, l'umile cafone di tutti i Mezzogiorni d'Italia, il fante che la soluzione aveva espressa, meno filosoficamente, ma non meno eloquentemente, col suo rassegnato stringersi nelle spalle e con il suo indolente "non te ne incaricare..."" (A. Monti).
Il disinteresse del popolo meridionale verso la guerra costituisce un grave handicap per le sorti della nazione. Non dimentichiamo, infatti, che il Sud fornisce il 46% dei richiamati alle armi. La situazione richiede una svolta. Così, subito dopo la disfatta di Caporetto, scatto la trappola. Ai soldati al fronte viene letta la seguente dichiarazione di Salandra: "Dopo la fine vittoriosa della guerra, l'Italia darò la terra ai contadini, con tutto il necessario perché ogni eroe del fronte, dopo aver valorosamente combattuto in trincea, possa costituirsi una situazione di indipendenza. Sarà questa la ricompensa offerto dalla patria ai suoi valorosi figli". La parola d'ordine "terra ai contadini" torna, dunque, ad alimentare le speranze delle masse. Tutta la propaganda ufficiale è rivolta in questo senso. Ma si tratta, come sempre, solo di parole. Finita la guerra, i contadini smobilitati non tardano a scoprire l'inganno. Di fronte alle loro richieste, la maggioranza governativa volta faccia. La famosa "legge Micheli", che rappresenta la più avanzata proposta di riforma fondiaria, viene approvata solo dopo aver subìto numerosi tagli. Ma neanche così "mutilata" essa trova applicazione.
Nel frattempo, gli agrari mobilitano tutti i giornali di parte padronale, allo scopo di convincere l'opinione pubblica che non esiste in Italia una seria necessità di riforma agraria, visto che essa è già da tempo in atto. La situazione nelle campagne è veramente tragica. I contadini non solo restano senza terra, ma anche senza lavoro. Durante la loro assenza, infatti, i fondi da essi coltivati sono stati presi in affitto dai lavoratori rimasti al paese. Né gli agrari hanno intenzione di restituire questi appezzamenti a uomini che "hanno dimenticato la fatica". Ma quattro anni di guerra sono almeno serviti a far maturare una nuova coscienza sociale. Da questo processo di formazione, lo spirito di solidarietà è uscito rinforzato ed ora dà una spinta notevole all'organizzazione popolare. Anche la piccola borghesia si aggrega al nuovo movimento combattentistico. Essa, infatti, mai sopporta il ritorno al vecchio regime, perché ciò significherebbe assoggettamento nei confronti di coloro che, rimasti al paese durante la guerra, hanno accumulato illecite ricchezze. in questa fase così delicata, compito del partiti è quello di fornire alla lotta un programma d'azione preciso; e di individuare gli strumenti più idonei per realizzarlo. Compito questo che soprattutto il partito socialista è chiamato a svolgere. Le sue fila contano migliaia di iscritti: ad esso, dunque, sono rivolte le speranze di rinnovamento sociale ed economico della maggioranza della popolazione meridionale. Nella pratica, invece, il P.S.I. si dimostra incapace di sostenere questo ruolo. Secondo Ennio Corvaglia, "il partito socialista dimostrò di essere, troppo legato alla struttura dello Stato liberale per poter indicare alle masse popolari un coerente disegno di fuoriuscita da esso. Soprattutto non fu capace di coinvolgere, orientare strati sociali e professionali che nelle città e nelle campagne guardavano al socialismo con fiducia... Durante le lotte contro il carovita prima, e per l'occupazione delle terre poi, lo sforzo del partito fu quello di circoscrivere le lotte piuttosto che indirizzarle verso un progetto consapevole di rinnovamento sociale: pesava l'antica tradizione massimalista, assieme all'ingenua attesa che dal caos sarebbe nato un ordine più giusto". Nel gennaio 1921, si stacca dal P.S.I. la frazione comunista, nel tentativo di creare un partito veramente rivoluzionario, che superi l'equivoco tra riformismo e massimalismo. Come scrive Enzo Panareo, "il superamento dell'equivoco, in effetti, si ebbe, ma sul piano pratico, cioè dei risultati politici immediati, non accadde nulla. Il grosso del movimento popolare continuò a militare nel Partito socialista, che in effetti s'era soltanto indebolito, non in grado, dunque, di affrontare e sconfiggere la reazione che non avrebbe tardato a scatenarsi".

"Fare gli italiani ... "

Fare gli italiani: distruggere i resti di un'era di servitù, concorrere a formare una coscienza morale, della plebe fare un popolo, del volgo una forza civile. Ora che cosa ha fatto il Governo per questo? E' doloroso il dirlo. Spesso il paese ha cercato nel Governo l'educatore e nel suo Governo non ha trovato che un pervertitore...
Mai forse come oggi, si è levato un grido più alto e molteplice da ogni parte d'Italia contro il Governo... Si legifera su tutto, ma non si risolve niente, e niente si rinnovella; si fanno leggi sull'istruzione che non riusciranno a debellar l'ignoranza; leggi di sgravio che non riescono ad alleviare nessuno;... lavori pubblici che non obbediscono a criteri sicuri, e si fanno porti dove non andranno navi, e mancano carri dove cresce il traffico: tutto per sovvenire a un'esigenza elettorale, per rispondere a una contingenza parlamentare senza quel proposito fermo, incrollabile, sincero, che è l'anima delle cose e senza cui si ha la parvenza della vita, non la vita. Così si fanno le leggi sul Mezzogiorno; leggi sul Mezzogiorno che non trovano la loro applicazione, oppure non risolvono nessun problema... Bisogni reali non soddisfatti, aspirazioni legittime non appagate diventano fomento ad una inorganica irrequietezza e ad un inorganico malcontento, che non trovando uno sfogo normale, si tramutano in un elemento di disgregazione e di traviamento dall'alto e dal basso; e da un lato si insanguinano le strade e si insidia il voto; dall'altro l'impulsività non impara a moderarsi...
Questo stato di cose, sostenuto e colorito in roseo dall'illusione di riforme che non si attuano per mancanza di potere da chi le vuole e per mancanza di volere da chi potrebbe, rende arbitri di tutto il caso, l'occasione, quell'opportunità del momento che è opportunismo, quella pressione tumultuaria che è ribellione. Ma anche la ribellione trova la sua sanzione sociale quando è dettata dallo stato di necessità ed è il solo modo mediante cui possono esprimersi e farsi valere un diritto o un interesse...
Nell'indirizzo di risposta al discorso della Corona si parla anche di disciplina; ora... la vera disciplina deve cominciare dalla disciplina morale dei capi che debbono curare la purità e la base della loro origine politica... Ma per volerla occorrono nuovi indirizzi e nuovi uomini, i quali tengono meno all'abilità parlamentare e più agli interessi del paese; perché l'abilità parlamentare farà meraviglie a Montecitorio, ma è infeconda pel paese...
(Ettore Ciccotti, dal discorso pronunziato alla Camera il 30 marzo 1909 "Sull'indirizzo di risposta al discorso della Corona")

Lettera dal fronte interno

Illustre direttore,
Sta bene: noi, o, piuttosto, voi di costà, di Roma e di Milano, avete vinto la vostra battaglia rivoluzionaria. Voi avete vinto il parlamento e la corona e la maggioranza ventraiola. Ed ora, ora preparate la più grande battaglia di domani. E qui noi siamo assaliti dai dubbi più tormentosi, dalle angosce più cocenti...
Cosicché... avete debellato il giolittismo. Ah! ah! ma esso è più vivo di prima... ! E voi lo sapete. E voi dovete mostrarcelo. Perché noi di provincia non vediamo che. il nostro breve giro di orizzonte, molto, oh! molto basso. Noi vediamo... Ecco, da voi c'è stato Bellonci, Malacorda - pardon, Malagodi - La Serao, ruffian, baratti e simile lordura, che ora sono diventati ultrainterventi ti e strombettando vogliono guidar - non la decina - ma la nazione. E quaggiù. Oh! Ma qui c'è la cloaca, qui c'è il merdaio, qui si sprofonda senza speranza di aiuto. 0 chi volete che voglia e possa dar di mano alla scopa?
Qui sindaci, deputati, assessori, consiglieri, pezzi grossi e proprietari trescano giocando a dadi... Qui nulla è cambiato o scosso, altro che il colore della giacca. E il proletario allocchito guarda - quando guarda - senza capire, senza sospettare.
Qui c'è uno del trecentosessonta e più deputati che, nella settimana di passione, telegrafarono il loro motto di servitù a papà Giolitti; e che ora è nelle grazie del patrio governo... Ma voi altri non ce n'avete di costoro, vero? Qui, o qui vicino, c'è un gran prete che l'altr'ieri scriveva - e la bugia non gli soffocava la fetida strozza - di voler andare, se glielo permettessero gli anni e gli acciacchi, a servire la patria. Ma da voi tutto il clero è patriota, vero i ... E qui ancora... Ma basta... Puah! Sturatevi il naso. Finisco. Ed ora? Ora facciamo la pace con tutta questa canaglia. Che dico? lo per primo - anzi unico - ho predicato e attuato la tregua. Perché? Per aiutarli a indossare la nuova divisa? E come fare altrimenti? E chi ti aiuterebbe a smascherarli? E non ha interesse il governo conservatore a conservare anche costoro? E non saranno costoro gli eterni servi di qualsiasi governo?... E questa è la rivoluzione antigiolittiana? E non pensate quanti sudori vanno versando per essere rinverginati? E quanti anni - visto che la guerra ingoierà il fiore della gioventù generosa e lascerà a fermentare questo putridume - e quanti anni ci metteremo a spazzarli via? Ma voi, cari amici nell'ideale, cantate, pur sapendo tutto questo, il vostro peana di vittoria. E sta bene. Ma sentite anche le voci del convertiti dell'ultima ora, che vi accompagnano, stonando.
(Tommaso Fiore, da la "Voce politica", a. VII, n. 4, 22 giugno 1915)


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