§ territorio e degrado ambiente

I predoni delle Serre




Nello Wrona



Di ecologia e di ecosistema si è iniziato a parlare, in provincia di Lecce, negli anni Settanta, quando l'affondamento della motonave "Cavtat" nel Canale di Otranto, con un carico di tetraetile di piombo, diede la stura a un nugolo di interventi, corredati da interminabili polemiche, sulla situazione ambientale dei mari salentini. Si parlò, allora, di incompetenza e di approssimazione degli organi preposti alla vigilanza marittima, mentre le operazioni di recupero dei bidoni dal fondo dei mare aprì un parallelo filone di polemiche sul connubio tra emergenza ambientale e profitti economici, facilmente rapportabile al conflitto di competenze - e di interessi privati - che si è scatenato intorno alla proposta di disinquinamento del golfo di Taranto e del golfo di Manfredonia.
Fino ad allora, il problema di possibili disastri o di danni arrecati all'ambiente era stato sollecitato sporadicamente e solo per avvenimenti marginali: incendi dolosi di qualche pineta (Cesine, Portoselvaggio), attività di pesca con bombe (Marciano di Leuca, Salve, Porto Cesareo, Gallipoli), lavaggio in alto mare delle cisterne delle petroliere (con limitati effetti sul mare e sulla costa esposta ai venti di levante, in particolare Santa Maria di Leuca). Il tutto, però, rientrava in un'ottica quasi di ordinaria amministrazione, se è vero che fino a tutta la prima metà degli anni Settanta le denunce che ipotizzavano reati contro l'ambiente (e contro il patrimonio indisponibile dello Stato) si contano sulle dita di una mano. Dei resto, l'unico tipo di violazione maggiormente rilevato (ma non per questo adeguatamente fronteggiato) era quello dei "bombaroli", così diffuso da creare una vera e propria tipologia comportamentale e sociologica (gli uomini con i moncherini a Morciano di Leuca), nonché una destinazione quasi fatalistica di alcuni luoghi eccellenti per il lancio delle bombe in mare (i "settaturi", disseminati a decine tra Torre San Gregorio e Marina di San Giovanni, a Ugento, fino alla Marina di Mancaversa).
Eppure, è proprio in questi anni che si possono già intuire le linee dello sviluppo di quello che oggi da più parti si definisce "processo di disgregazione ambientale" in Provincia. Un processo di attacco all'ambiente, di interventi massicci sulla natura, che possiamo dividere in tre tappe, ciascuna contrassegnata da altrettanti processi di sviluppo economico.

1a fase. Abusivismo edilizio costiero.
E' la prima tappa segnata dal degrado ambientale. Inizia nei primi anni Settanta, con le rimesse degli italiani dall'estero, ed è favorita da una non gestione dei territorio a livello amministrativo. Il fenomeno interessa gran parte del territorio, ma raggiunge punte di inaudita concentrazione sul versante ionico, dove spuntano dal nulla interi doppioni di paesi sul mare, a poche decine di metri dalla battigia. E' il caso di Salve e di Patù, ma tutta la litoranea fino a Gallipoli presenta cantieri di lavoro, con regolari ispezioni delle autorità sanitarie al termine dei lavori. La fisionomia della costa occidentale è già praticamente compromessa, mentre a nulla valgono i pochi tentativi di arginare un comportamento dalle caratteristiche malavitose, che non disdegna l'uso del ricatto o il ricorso all'esplosivo in casi di necessità e di urgenza. E cronaca di quegli anni le decine di automobili di amministratori o di privati cittadini fatte saltare in aria a scopo intimidatorio, magari per una delibera bloccata nel corso di un Consiglio comunale. O l'interessamento di piccoli e medi costruttori e palazzinari campani all'area salentina. O gli scheletri di abitazioni e di appartamenti costruiti con contributi della CEE (provvidenze per l'agricoltura e le attività zootecniche, come si definiva un fiume di denaro regolarmente confluito nella costruzione di appartamenti ad uso civico) e poi abbandonati precipitosamente a seccare sotto il sole e ad accogliere i bazar e i mercatini volanti della droga di oggi.
L'abusivismo in ogni caso, è il prezzo pagato dal nuovo sviluppo economico: che in quegli anni si concentra, infatti, nel Salento occidentale: aree forti, Galatina e Nardò, industrie estrattive e manifatturiere. L'abusivismo, e l'aggressione della costa, marciano di pari passo con il boom della media e piccola industria. E' un boom che tutto giustifica, anche quando l'abusivismo viene praticato dalle amministrazioni o dagli Enti pubblici. Dice il pretore di Nardò, Angelo Sodo: "Nel lontano 1970, ebbi a sottoporre a sequestro giudiziario l'erigendo muraglione che doveva costituire la delimitazione di un porto nella frazione di Santa Caterina di Nardò, perché palesemente in contrasto col paesaggio - per fortuna in zona vincolata - nonostante che lo stesso porto avesse avuto l'approvazione del Consiglio Superiore del LL.PP. (ma circa 15 anni prima, con ritardi di attuazione per motivi burocratici). Dal 1971 e cioè dall'inizio di un abusivismo edilizio impressionante, specie sulle zone costiere, ho forse dovuto inventare, per la prima volta in Italia, il sequestro di costruzioni prive di licenza edilizia con l'apposizione dei sigilli e con il conseguente arresto di coloro che violavano gli stessi, avvalendomi del rito direttissimo e irrogando pene corrispondenti alla gravità dell'infrazione". La tecnica adottata - ma sarebbe più corretto parlare di stratagemma - è sempre la stessa, e in provincia di Lecce ha una sua peculiarità, favorita appunto dai ritardi di attuazione: si progetta una costruzione abusiva, anche di grandi dimensioni o di proprietà dell'Ente pubblico, e si passa immediatamente alla fase di attuazione, con progetti in larga parte "regolari" o comunque difficilmente contestabili in sede di contenzioso pretorile. Salvo poi apportare delle varianti-stralcio, con adeguamento dei prezzi, nelle quali sono contenute le violazioni, che immancabilmente trovano approvazione o che sfuggono al vaglio delle opposizioni di sinistra in paesi che vedono massicci schieramenti democristiani, con giunte monocolore. Sono gli anni del "mattone selvaggio" anche in provincia di Lecce, da far impallidire perfino il più rincagnito abusivismo siciliano degli anni Ottanta. Ma sono gli anni anche di mastodontiche opere pubbliche - edifici, tangenziali e superstrade inutili - che hanno stravolto l'assetto territoriale della provincia. Un intervento spesso ai confini del codice penale, che ha avuto come effetto immediato la cancellazione di intere aree verdi e boschive, che hanno lasciato il posto a precari nastri asfaltati. Un esempio per tutti, il tentativo - nel 1971 - di abbattere l'ultimo esemplare di quercia vallonea esistente in Italia, a Tricase, per la costruzione della rete viaria. Solo l'intervento del WWF evitò l'opera di sradicamento e consigliò una biforcazione all'altezza del bosco. lnutile aggiungere che i terreni circostanti, di proprietà dei notabili locali, non potevano e non dovevano essere espropriati.
Con le aree verdi ridotte, sono state spezzate intere catene alimentari: uccelli e volpi, gatti selvatici e ricci di campagna. Le conseguenze si possono tirare solo oggi: un aumento considerevole delle vipere e dei ragni, nonché di insetti dannosi per l'agricoltura e per i raccolti. Prosperano solo topi, ma non più di campagna, ora che perfino i rifiuti non rappresentano più un'appetibile occasione di pasto.
La cementificazione selvaggia si sviluppa, quindi, seguendo precise direttive dettate dallo sviluppo economico. Semplificando, negli anni Settanta si ha:

2a fase. Abusivismo interno.
E' la fase che corrisponde alla diffusione delle piccole e medie industrie nell'interno della penisola salentina. le linee di sviluppo, una volta orientate verso la costa ionica, puntano ora verso l'Adriatico. Nascono nuove economie di scala, mentre si rafforzano i poli economici tradizionali del settore calzaturiero e del l'abbigliamento al centro del territorio. E' la "linea adriatica dello sviluppo", che De Rita inventa sulla carta per richiamare all'attenzione del nuovo meridionalismo le realtà economiche emergenti da Termoli in giù. Lungo l'Adriatico, appunto.
Maglie è quindi un "comune canguro", che si muove a piena velocità nel campo del terziario e delle assicurazioni. Altri comuni non tardano ad allinearsi, spesso sovvertendo le più pessimistiche previsioni. Il fenomeno raggiunge il punto più alto nei primi anni Ottanta, portando alla luce economie diffuse e diseconomie sommerse. Tira il calzaturiero, ma anche le attività di trasformazione dei metalli, le industrie conserviere, e, come sempre, le industrie estrattive, mentre il lavoro nero continua ad alimentare un autonomo processo di crescita, che coinvolge ora intere periferie e si candiderà successivamente come serbatoio inesauribile per il reclutamento di forza-lavoro per la criminalità organizzata. Il nuovo boom della media industrializzazione corre lungo direttrici interne: Lecce-Surbo, Maglie, Casarano, Patù. Il capoluogo di provincia e Surbo, con specializzazioni nella industria meccanica e nell'industria pesante. Maglie, come vetrina del terziario e del commercio. Casarano e Patù, roccaforti del calzaturiero e del caporalato e punto di riferimento per la politica degli affari salentina. In tutto, più di 8.000 ditte iscritte nei registri della Camera di Commercio di Lecce, pari a un quinto delle ditte esistenti in provincia. Seguendo questo percorso, si arriva a conclusioni per lo meno sorprendenti. Lecce e Patù diventano, negli anni Ottanta, due dei nove comuni "leader" della Regione (gli altri sono: Foggia, Isole Tremiti, Bari, Binetto, Modugno, Taranto, Brindisi). Galatina, Galatone, Gallipoli, Maglie, Monteroni di Lecce, Nardò, Novoli, Parabita, Soleto, Trepuzzi e Tuglie si propongono, invece, come "aree di sviluppo industriale diffuso", mentre il "mercato agricolo" continua a gravitare intorno ad Acquarica del Capo, Andrano, Leverano, Martignano, Minervino di Lecce, Palmariggi, Porto Cesareo, Supersano, Vernole.
E' nel paesi "leader" e in quelli con "sviluppo industriale diffuso" che in questi anni si verifica un secondo, più evidente e più articolato, fenomeno di abusivismo edilizio.
Questa volta si costruisce all'interno dei paesi, spesso intervenendo sconsideratamente nelle aree dei centri storici o in quelle destinate a verde pubblico nei piani di fabbricazione. Non è un caso che la legge istitutiva del P.R.G. sia del 1982 e che da quell'anno appena il 10% dei comuni salentini abbia ottemperato all'obbligo di servirsi di questi piani nella gestione del territorio. Così come non è un caso che sia oggi praticamente impossibile reperire, presso la Regione e presso i Comuni, le aerofotografie anteriori al 1982. Segreto militare, si dice, per zone che non hanno mai rivestito un particolare interesse strategico. In realtà, sarebbe difficile per qualunque Giunta, oggi, giustificare il proprio operato sul territorio. Si è costruito un immenso cantiere di lavoro, questa è la verità, laddove esistevano vincoli paesaggistici o dove il buon senso avrebbe dovuto consigliare ben altri comportamenti. Così, se da una parte si è salvaguardata l'area umida delle Cesine, dall'altra si è permessa la costruzione di ville, con darsene e con approdi privati in cemento armato, a ridosso del faro di Santa Maria di Leuca (in demanio marittimo e militare) e lungo la Punta Meliso, ambienti tutt'altro che insignificanti, visto che, per la particolare conformazione delle rocce a picco sul mare e della fauna, sono stati fino agli anni Sessanta rifugio ideale per il falco pellegrino e punto di sosta e di transito per gli uccelli, che migrano verso l'Africa o che da questa si dirigono verso il centro Europa. Ed ancora: si sono progettate e realizzate fantastiche ville comunali, rigorosamente in cemento armato, ma si sono lasciati marcire i centri storici, con carenze abitative ed igieniche da terzo mondo. Gallipoli, Tricase, Lecce sono appena la punta dell'iceberg. Bisognerebbe indagare, ma in tutta la provincia, sull'incidenza dell'epatite virale nei singoli comuni, e poi tirare le somme di un nuovo, più ottimistico e facilone, sviluppo economico, che ha perso di vista ogni referente umanistico. Oppure rapportare le migliaia di casi infettivi registrati negli ospedali torinesi e milanesi a settembre alle vacanze trascorse dai turisti in provincia di Lecce, per capire quanto sia sporca e pericolosa la nostra proposta turistica. Stracciano, quando basterebbe essere più puliti per salvare la faccia e la nostra povertà.
In ogni caso, il deterioramento delle condizioni abitative segue di pari passo, e paradossalmente, il boom dell'abusivismo edilizio. Più si costruisce, più vengono meno i controlli sull'affidabilità delle costruzioni. Impossibile verificarle tutte, soprattutto quando ad eseguirle è un semplice ufficiale sanitario, con poteri che si riducono alla notifica o alla certificazione sanitaria, che non hanno valore vincolante in sede decisionale. Riporto ancora una testimonianza del pretore Sodo: "Nel 1979 ho sottoposto a procedimento penale tutti i sindaci del Mandamento per il reato di omissione di atti d'ufficio al cospetto del grave inquinamento delle falde freatiche - constatato da tecnici, specie nelle località vicino al mare - per la mancanza di interventi adeguati per quanto riguarda gli scarichi civili. Nello stesso anno ho disposto lo sgombero di due campeggi abusivi di notevoli dimensioni, realizzati sulla spiaggia di Porto Cesareo senza alcuna autorizzazione e con strutture talmente precarie da provocare l'inquinamento del pozzi di acqua potabile e di una parte del mare circostante e tanto da far temere all'Ufficio di Profilassi e Igiene di Lecce l'insorgere di vere e proprie epidemie. Nel 1983 ho invitato l'allora Ministro per l'Ecologia, Alfredo Biondi, a visitare il Mandamento per rendersi conto della gravità della situazione. Lo stesso Ministro, dopo aver sorvolato con me in elicottero le zone più colpite dall'abusivismo, ebbe a dichiarare che occorreva, forse, non la suo visito, ma quella del Ministro della Sanità, per gli intuibili effetti negativi sulla salute dei cittadini. ( ... ). Purtroppo, ho dovuto constatare che le lottizzazioni non autorizzate e le costruzioni abusive nel Mandamento di Nardò, specie sulla zona costiera, si contano ormai a decine di migliaio, realizzate persino sulla sabbia, previo smantellamento di preziose naturali 'dune', senza alcuna infrastruttura e quindi con lo scarico dei rifiuti in qualsiasi luogo disponibile per coloro i quali prelevano i liquami dai pozzi neri che surrogano, quasi per tutta la costa, le fognature inesistenti".
Cinque anni dopo, Porto Cesareo presenta il peggiore biglietto da visita sul fronte dell'abusivismo edilizio: è uno dei tre comuni italiani (gli altri sono Mazzano Romano e Castel Volturno) ad aver presentato il maggior numero di domande di sanatoria: 8.000, una media di due domande per abitante residente (3.960), precisamente il 213,4%. Senza contare il numero di alloggi costruiti dopo il 1983 (circa 2.000), che ora attendono una nuova sanatoria.
Dunque, lo sviluppo industriale diffuso non ha fatto altro che estendere l'abusivismo dalla costa verso l'interno. In termini ambientali, il danno e senza paragoni. Quasi dappertutto la piccolo industria è stata seguita da un'aggressione al territorio senza precedenti, perché realizzata in maniera programmatica: prima è stato ridotto il patrimonio boschivo, poi si sono "urbanizzate" le aree verdi intorno ai paesi e alle città, infine (ed è storia dei nostri giorni) si è proceduto all'utilizzazione di zone ancora vergini per lo scarico dei rifiuti espulsi dall'abitato. Se si potesse quantificare in termini reali, su di una ipotetica scala di valori da uno a dieci, la portata del danno ambientale arrecato al territorio salentino nella prima metà degli anni Ottanta, l'indice si stabilizzerebbe a quota sei: appena il 40% del Salento appare infatti ancora preservabile (e preservato) dall'intervento di ruspe e di esplosivi. I danni, ora, sono sia ad Est sia ad Ovest. Sulla fascia costiera occidentale, una "specializzazione" abitativa che ha fatto dell'abusivismo un nuovo linguaggio, anche politico, che traduce in dialetto la speculazione di una mafia delle costruzioni legata alle correnti affaristiche di tutti i partiti. Sul versante adriatico, e nel cuore della provincia, una "specializzazione" manifatturiera che ha gestito l'ambiente come un'enorme palpitante pompa di scarico di fumi e di veleni, in nome di una industrializzazione che non ha ridotto, in verità, le distanze con il futuro prossimo venturo. Alle spalle di questa nuova rampante schiera di predoni del territorio, una classe politica tirata su nell'accademia degli appalti, più affaristica che ideologica, che ha imposto la propria appartenenza al club decisionale grazie ai miliardi ricavati dalle speculazioni finanziarie, realizzate in provincia attraverso compiacenti prestanomi e società finanziarie fariasma, che fanno capo all'inesausto mercato affaristico di Bari. è stato facile, e quasi naturale, l'insorgere a questo punto di un nuovo tipo di imprenditorialità locale, tutta salentina, che ha distrutto e che distrugge programmaticamente a mano a mano che avanza e penetra nel territorio. E il delitto Fonte, a Nardò, indica che il processo ha raggiunto ormai le soglie della criminalità organizzata, santuari dove affari e politica trovano una loro fisiologica e necessaria saldatura.
Solo in questa ottica è possibile comprendere la realizzazione di imponenti opere pubbliche, che oggi risultano essere praticamente abbandonate, o inutilizzate perché gli Enti locali in seguito non hanno trovato i mezzi finanziari per affrontare i costi di gestione. E così, per una città come Galatina, aperta al traffico pesante rotabile con il Nord Italia e con il Centro Europa, si continua a sperimentare una via di comunicazione altamente pericolosa come la Galatina-Lecce, con un'ampiezza della sede stradale appena sufficiente per la circolazione di un T.I.R., mentre per il collegamento Galatina-Maglie, poco frequentato dagli automobilisti (la media è di un veicolo leggero ogni due minuti ... ), si è costruita una superstrada di proporzioni inusuali per i centri serviti nell'hinterland magliese e galatinese. lo stesso discorso si può ripetere per i comuni del Capo di Leuca, dove iniziative faraoniche di strada a scorrimento veloce o di tangenziali (quella di Tricase) si sono immancabilmente arenate dopo i primi lavori di sbancamento. le stesse marine orientali non sono state risparmiate. Valga per tutte l'esempio della "Cala Saracena" di Torre Vado, un imponente complesso alberghiero risalente agli anni Settanta, abbandonato a poco meno di duecento metri dalla costa, oggi ricettacolo di rifiuti, di topi, e di siringhe. Una cloaca a cielo aperto, mentre a pochi metri di distanza si esperimentano nuovi tentativi di decollo turistico-alberghiero, per incrementare le presenze straniere. E se all'apparenza i risultati possono sembrare positivi, in realtà si tratta della solida parrucca settecentesca: incipriata e profumata, ma che nasconde, sotto, una nuova generazione di pidocchi.
Compaiono, in questa seconda fase, le prime avvisaglie dell'inquinamento ambientale e delle vere e proprie emergenze ecologiche. Troppo ampie sono infatti le aree sottoposte a sfruttamento, mentre si riducono parallelamente le operazioni di disinquinamento perché non esiste personale specializzato e perché la consulenza esterna (straniera, in qualche caso) costa centinaia di milioni. Si dovrebbero rivedere decine di bilanci comunali, redatti sotto l'ala protettiva di compiacenti padrinaggi politici, per scoprire, forse, il fiume di miliardi spesi per fronteggiare emergenze altrimenti evitabili. E non si parla solo di abusivismo edilizio, perché la sanatoria ha praticamente sedato polemiche e ha interrotto l'azione penale di quei pochi pretori andati allo sbaraglio in mezzo ai cantieri di lavoro. Si parla di ingenti somme destinate alla disinfestazione di aree ridotte a cimiteri di immondizie, o al disinquinamento delle acque sorgive. Fatto cento il costo di gestione intelligente e responsabile di uno smaltitore di rifiuti, per esempio, in provincia di Lecce si ègiunti a spendere cinque volte tanto per dislocare i rifiuti in luoghi diversi, con l'aggravante dell'inquinamento delle falde freatiche.
Gli anni Ottanta, che sono critici per l'ambiente salentino, possono essere così riassunti in cartina:

3a fase. Inquinamento del sottosuolo.
E' la fase che segna, in questi anni, il punto critico dell'aggressione del territorio. Frutto dello spontaneismo e di un improvvisato affarismo imprenditoriale, l'apparato produttivo della provincia di Lecce è nato, e si è diffuso, senza avere previsto un sistema organico (e organizzato) di smaltimento e di riconversione industriale dei rifiuti e delle eccedenze inutilizzabili della lavorazione. E', anche, la fase più paradossale e, apparentemente, la più inverosimile. Corrisponde, infatti, non a un'ulteriore espansione delle attività economiche nel leccese, bensì a una sua non tanto imprevista contrazione. Infatti, se l'inquinamento atmosferico ha raggiunto punte preoccupanti soprattutto nelle immediate vicinanze del capoluogo, la zona industriale di Lecce conosce oggi la crisi più dura dal 1969, anno in cui Comune, Provincia e Camera di Commercio diedero vita al Consorzio dell'area di sviluppo industriale. Segno evidente che la pregressa industrializzazione dell'area - con la punta di diamante rappresentata dallo stabilimento della Fiat Allis (che in realtà è stato un "elefante bianco", senza razza, perché le aziende dell'indotto Fiat, producono meno del 5 per cento del materiale occorrente alla fabbrica) - sta proponendo solo ora gli effetti deleteri di una industrializzazione vorace tra gli ulivi. Non è mai nato il "metalmezzadro", e non rinascerà il verde, l'occasione dei mercati agricoli, quella corta vincente che abbinava vocazione contadina e specializzazione turistica, da proporre come pacchetto di vendita nelle piazze-affari più importanti d'Europa.
Dice Sergio D'Oria, magliese, presidente dell'Assindustria provinciale: "Per il settore edile si prefigurano prospettive di sviluppo legate ad una riconversione dell'attività che si proietti verso il settore ecologico per il recupero delle coste e dei centri storici. La realizzazione di questo mutamento potrà costituire un valido elemento trainante per l'industria del settore turistico ed alberghiero. L'evoluzione tecnologica, l'adeguamento alle richieste del mercato devono determinare politiche di riconversione industriale". Quindi, gran parte di quanto realizzato negli anni Settanta in campo industriale deve adesso tendere a un recupero (economico, creatore di reddito) dell'ambiente, intervenendo con un adeguamento - con una "riconversione", appunto - dei fattori produttivi. Ma quali sono i termini di questo degrado ambientale sul quale, ora, anche gli esponenti del mondo industriale intendono concentrare gli sforzi e presumibilmente anche gli investimenti? Ovvero: quali sono le probabili bombe ecologiche che ticchettano sinistramente da anni per tutto il territorio della provincia di Lecce? Una veloce disamina della situazione attuale ci permette di formulare due scenari, che coinvolgono e interessano i due terzi della provincia. Da una parte, l'abuso di fitofarmaci, che ha raggiunto in questi anni proporzioni inusuali; dall'altra, l'inquinamento del sottosuolo e dell'atmosfera derivato da industrie che operano ai margini della legalità.

I veleni dell'agricoltura.
Il primo segnale, preciso e circostanziato, risale a quattro anni fa, e coincide, per una sorta di compensazione, con la fuga omicida di isocianato di metile dall'"Union Carbide" di Bhopal: ai duemila morti indiani, avvelenati come topi dai gas della multinazionale americana, l'Italia rispose con gli oltre cento intossicati dai pomodori al temik, in Campania, in Basilicata, in Toscana, e persino nelle severe e pignole città dell'Emilia Romagna, inaugurando gli anni dell'agrochimica. In altre parole, l'ingresso ufficiale degli aggressivi chimici nella campagna italiana e la ripresa contemporanea, non a caso - dell'industria chimica nazionale, precipitata troppo presto e ancora troppo giovane nello stallo produttivo, dopo due shocks petroliferi consecutivi. La notizia del l'avvelenamento in agricoltura passò inosservata, appena cinque trafiletti, il primo giorno, sulla stampa nazionale, ancora ubriaca di elezioni presidenziali americane, dell'arresto, a Palermo, dei cugini esattori Salvo, del processo Muccioli, del referendum sulla scala mobile, e, i giornali di sinistra, della scomparsa di Enrico Berlinguer.
Non una parola sulla dispersione graduale, almeno a Sud, di quei comportamenti - nati dalla genialità di infinite generazioni di contadini e dalle lotte di classe dei braccianti e dei cafoni - che erano stati la base antropologica del meridionalismo liberale prima, e il referente critico, poi, dell'intera questione meridionale fino agli anni Sessanta.
La terza fase, che viviamo e subiamo spogli di ogni memoria storica, non ha più steccati o torri di scolta: si avvelena a Nord come a Sud, con puntiglio, con arroganza, stregoni della pioggia acida, aggredendo una terra e un territorio che ben poco, o nulla, possono ormai testimoniare sui paesaggi silvo-pastorali, sui campi a pìgola, sulle starze, sui ciglioni e sulle terrazze, sul "giardino mediterraneo".
Così, alle indagini sociologiche sulla condizione contadina (e alle stesse trasposizioni letterarie: levi, Silone, Russo, Fenoglio, Jovine, Sciascia, Strati) è subentrato oggi un arido resoconto di fatti e di misfatti, che si pongono sul confine di una nuova criminalità rampante, con nuovi comportamenti, su nuove aree di espansione: contadini con il camice bianco e la mascherina sulla bocca, avvelenati da una storia, in debito con l'umanesimo, che è ormai cronaca di ordinario teppismo. Teppismo a Nord, dove atrazina e molinate, due dei più comuni e pericolosi erbicidi in circolazione, hanno finito per spezzare i reni all'economia agricola della Lomellina e della Vai Padana, costringendo interi paesi allo spettacolo - indecoroso, per chi non vi è abituato - delle autobotti e dell'acqua centellinata in contenitori di plastica. Teppismo a Sud, dove si continua a voler ignorare l'uso indiscriminato degli agenti chimici in agricoltura, sulla scorta di quelle poche statistiche che, a causa di un'estrema frammentarietà ed occasionalità, non raggiungono il cuore e la portata del problema.
Eppure, sarebbe sufficiente pensare agli oltre 3.000 pozzi (su 7.000) nei quali il Ministero della Sanità ha vietato l'emungimento per la presenza, nelle falde sottostanti, di sostanze velenose (acidi, arsenico, triazina, bentazone); o al ristagno, nelle depressioni carsiche o nelle vore, di acqua putrida, che non rilascia ossigeno e non ospita le consuete colonie di larve; o agli animali che sempre più di frequente si rinvengono morti, cianotici, sui cigli delle strade, o lungo i binari della ferrovia, dopo operazioni di diserbo.
Posti fuori legge atrazina e molinate, innalzati con decreto ministeriale i valori massimi dei pesticidi contenuti nell'acqua potabile, il problema non cambia. Quanto veleno viene periodicamente irrorato sulle campagne, tra erbicidi, miscele defoglianti e agenti anti-pianta? E quanti rigagnoli tossici, risucchiati da inghiottitoi carsici, raggiungono le falde freatiche? Si possono per il momento avanzare solo delle ipotesi. Partendo da alcuni dati. Nei primi nove mesi dell'anno scorso, all'Unità Sanitaria Locale LE 12 di Tricase è stata denunciata la vendita al dettaglio di 2.200 kg. di diserbanti. Alla cifra - secondo i responsabili del controllo medicosanitario - si deve aggiungere un altro 30% di prodotto velenoso immesso nel mercato clandestinamente, che sfugge alla registrazione obbligatoria sui libri di carico e di scarico imposti dalla legge ai rivenditori nel 1986. Sono dunque più di 2.800 chilogrammi di veleno (quasi tutti di prima e di seconda classe, ad elevatissima tossicità per l'organismo umano ed animale) destinati all'ogricoltura, tra le mani spesso di persone incompetenti o non abilitate all'uso razionale e scientifico dei fitofarmaci. Seguendo queste stime, che si ripetono quantitativamente in quasi tutta la provincia di Lecce, in un anno solare il territorio salentino assorbe più di 36 tonnellate di erbicida, senza considerare il reiterato impiego degli antiparassitari durante la stagione estiva e dopo il raccolto del cereali. Impossibile quantificare precisamente il fenomeno, secondo i tecnici dei Consorzio Agrario Provinciale di Lecce, ma "sicuramente l'uso dei diserbanti nella campagna salentina ha raggiunto proporzioni preoccupanti. Poca atrazina, ma troppo paraquat, che inibisce la fotosintesi e viene massicciamente impiegato sulle graminacee. Conosciamo la sua tossicità, ma non gli effetti su altri tipi di coltivazioni, né tanto meno la sua dispersione in presenza di vento, o le infiltrazioni nel sottoterra". A lungo andare, si dice, il paraquat potrebbe diventare l'atrazina del Mezzogiorno.
E ancora: l'uso indiscriminato del veleno chimico in agricoltura, coniugato con l'emergenza liquami (scarichi abusivi di acque luride, civili ed industriali, ricche di grassi, di fenoli, di alcooli, di idrocarburi, di ioni metallici, di solfati e di fosfati) e con i 750 milioni di litri di acque di morchia riversati nei pozzi e nelle cave, ha inquinato due terzi delle falde freatiche della Provincia, compromettendo un equilibrio bio-ecologico già aggredito dalle perdite e dai rilasci delle reti fognanti.
Del resto, nemmeno l'attuale legislazione sembra in grado di arginare l'inquinamento del sottosuolo. Il prossimo 9 luglio entrerà in vigore la nuova normativa sulla classificazione e sull'etichettatura degli antiparassitari: l'80% di questi vengono portati alla prima e seconda classe di tossicità, per le quali è necessario il "patentino" rilasciato dalle U.S.L. (e non si capisce perché, fino ad oggi, prodotti altamente pericolosi e tossici siano stati considerati, per legge, tali da non richiedere una specifica preparazione degli agricoltori). A metà luglio, invece, entreranno in vigore le nuove disposizioni relative alla tutela delle acque potabili. Nel raggio di 200 metri da pozzi e sorgenti - dice la legge -"sono vietati la dispersione di acque reflue e di liquami, l'accumulo di concimi organici, l'impiego di pesticidi e di fertilizzanti, il pascolo del bestiame". Il raggio di 200 metri corrisponde a una superficie di 12,5 ettari. Se si considera l'estrema frammentarietà e le piccole dimensioni delle campagne salentine - che sono appena dei fazzoletti di terra - si comprenderà che anche questa è una legge-farsa. L'ultima di un lungo elenco.
L'ultima indagine sulle condizioni del sottosuolo salentino risale a due anni fa, elaborata per il Piano Regionale delle Acque. I rilievi, a cura dell'Istituto Geologico dell'Università di Bari, sono chiari quanto basta per tracciare la mappa di un possibile prossimo disastro ambientale. Fatto 150 l'indice di pericolosità da inquinamento (basato sulla quantità in chilogrammi dell'ossigeno consumato da un campione di acqua inquinata da microrganismi, per chilometro quadrato), i dati più "neri" sono stati registrati a San Cesario di Lecce (indice 1.105), Trepuzzi (445), Calimera (411), Novoli (409), Nociglia (349), Maglie (291), Surbo (274), Cannole (265), Casarano (261), Squinzano (260). Seguono Botrugno, Melissano, Cursi, Collepasso, Spongano, Miggiano, Taviano, Tuglie, Gallipoli, Taurisano, Morciano di Leuca, Presicce, Carmiano, Corsano, Racale e Patù: non a caso tutti paesi che hanno sperimentato negli ultimi anni un salto in avanti nella piccola e media impresa, spesso a conduzione familiare, e dove più alto è il consumo di fitofarmaci in agricoltura (olio e vite). Inquinamenti minori, soprattutto da coliformi con tracce di sostanze venefiche di origine chimica, sono stati evidenziati nelle falde freatiche sottostanti Nardò, S. Isidoro, Veglie, Salice Salentino, Monteroni, Castrì, Supersano, Ruffano, Nociglia, Specchia, Tricase, Gagliano del Capo. Acqua inquinata, cioè non potabile, inservibile, al centro e nel cuore verde della provincia; acqua salmastra, parimenti inutilizzabile, nelle falde freatiche della costa, da San Cataldo fino a Porto Cesareo. Quale camicia di forza intorno alla gola di un'arsura già storica e primordiale, ci stiamo preparando per gli anni Novanta?
Tornando all'emergenza dell'acqua inquinata (va detto per inciso che l'ultimo stato di pre-allarme ha riguardato il 9 ottobre Guagnano e Salice Salentino, dove si è provveduto alla distribuzione di acqua minerale nelle scuole e negli asili-nido), il quadro d'insieme in provincia di Lecce è il seguente:


Dice Marino Campa, geologo di Sogliano Cavour, e consulente tecnico di Comuni nelle indagini del sottosuolo: "Per il momento è da escludere una compromissione delle falde freatiche più profonde, che risultano protette da agenti inquinanti - agressivi chimici dell'industria e anticrittogamici dell'agricoltura - grazie a una barriera impermeabile protettiva. Diverso è il discorso per le falde superficiali: in questo caso non possiamo negare uno stato di crescente deterioramento delle condizioni ottimali perché l'acqua risulti batterio logicamente pura e incontaminata. Si consideri il fatto poi che gran parte della costa è interessata da intromissioni di acque salmastre (con tassi di salinità paria 2mg/l, mentre per definizione sono potabili le acque che contegono sciolti sali minerali in quantità non superiore a mezzo grammo per litro, N.d.R.), che non possono essere utilizzate per uso civico e industriale senza previa opera di desalinizzazione".
E in base a questi dati è possibile parlare di una prossima probabile emergenza idrica in provincia di Lecce?
"Sicuramente sì. l'emergenza idrica, in ogni caso, non è una ipotesi solo futuribile, perché le prime avvisaglie si sono già manifestate da anni. A questo proposito voglio ricordare che la Regione Puglia, nel 1984, proprio con il Piano di Risanamento delle Acque, istituì zone di vietato emungimento e zone di salvaguardia (con il divieto di perforazione), salvo poi emanare una seconda legge, l'anno successivo, con la quale si autorizzava il perforamento per uso irriguo. Le elezioni erano vicine, e la legge passò con il consenso di tutti i partiti".

Nuovi inquinatori.
Chi ha ragione tra la Goletta Verde dell'"Espresso" e Giacinto Urso, presidente della Provincia, sulla salute del mare salentino?
Venerdì 24 luglio 1987 la Provincia di Lecce lancia l'operazione "Un mare per l'Uomo: al Cento per Cento". Sulla stampa nazionale compaiono a pagamento i dati della balneazione "a tutto luglio 1987", dati forniti dal laboratorio Igiene e Profilassi di Lecce: una sola è la percentuale di punti idonei alla balneazione in provincia, un 100%, appunto, che riguarda 23 comuni (Lecce, Vernole, Melendugno, Otranto, S. Cesarea Terme, Castro, Diso, Andrano, Tricase, Corsano, Gagliano del Capo, Castrignano del Capo, Patù, Marciano di Leuca, Salve, Ugento, Alliste, Racale, Taviano, Gallipoli, Galatone, Nardò, Porto Cesareo).
Almeno un terzo di questi comuni, nello stesso periodo, dovrà ricorrere ai cartelli di vietata balneazione.
Una settimana dopo, l'"Espresso" rende noti i dati desunti dai prelievi effettuati lungo le coste salentine dalla Goletta Verde. E sono dati preoccupanti. Non tanto per la costa orientale, tutto sommato ancora poco interessata dall'inquinamento marino (ma non si contano le decine di costruzioni abusive quasi a ridosso della costa, bloccate in tempo dalla magistratura tra Otranto e Santa Cesarea Terme, oppure i tratti stradali aperti dai privati lungo la litoranea), quanto per quella occidentale, da Santa Maria di Leuca fino a Gallipoli. Qual è il responso dei prelievi in questo tratto di costa, il più martoriato, da trent'anni a questa parte, da fenomeni di inquinamento di origine industriale e da comportamenti di intolleranza civile?
- Alta concentrazione di coliformi totali (2800 contro i 2000 consentiti dalla legge) e presenza di ammoniaca a Torre San Gregorio.
- Alta concentrazione di ammoniaca e di coliformi totali (3100) a Torre Vado (Marina di Marciano di Leuca).
- Alta concentrazione di coliformi totali (2400) e di ammoniaca a Lido Marini.
- Ammoniaca e nitrati in alte percentuali a Torre San Giovanni.
- Alta concentrazione di coliformi totali (2400) a Torre Suda.
- Alta concentrazione di coliformi totali (2800) e di ammoniaca a Gallipoli.
- Alta concentrazione di coliformi fecali (120) e tracce di ammoniaca e di nitrati a destra del porto di Gallipoli.
- Solfuri e nitrati a Torre Sabea.
- Ammoniaca e nitrati a Santa Caterina. - Alta concentrazione di coliformi totali (3200), alti valori di ammoniaca e di nitrati a Porto Cesareo (strada panoramica).
La situazione più allarmante, per i chimici della Goletta, è ancora una volta nei pressi di Gallipoli. L'attracco della Goletta, del resto, avviene proprio nei giorni caldi delle manifestazioni contro la Distilleria del Salento, responsabile, secondo gli ambientalisti, dei guasti irrimediabili delle acque marine e delle morìe di pesci che periodicamente vengono segnalate nei tratti di costa tra Gallipoli e Ugento.
Di fatto, le rivelazioni del settimanale aprono una serie di polemiche e di accuse reciproche tra ambientalisti e amministratori pubblici, che a distanza di mesi non è ancora del tutto sopita. Difficile stabilire, per la mancanza cronica di esami da parte delle Unità Sanitarie Locali, se il nostro mare è quello descritto dalla Goletta o quello propagandato dall'Amministrazione Provinciale di Lecce per bocca del suo Presidente. Alcuni rilievi, però, si possono per il momento fare. Se il nostro mare è batterio logicamente puro, senza tracce di sostanze venefiche inquinanti, non si possono spiegare le decine di spiaggiamenti nella scorsa estate di delfini sulla nostra costa, né la presenza, all'esame autoptico, di massicce dosi di mercurio nel corpo dei cetacei e dei pesci venduti nei mercatini di Gallipoli e di Nardò. Non reggono le ipotesi che l'inquinamento sia esclusivamente di provenienza settentrionale (ENICHEM di Foggia) o che addirittura l'intera operazione "spiaggiamento" sia stata orchestrata provocatoriamente dalle leghe ambientaliste della provincia. Sono accuse che sollevano inutili polveroni, in mancanza di prove certe.
Si dovrebbe, invece, orientare l'attenzione - e le indagini della magistratura - su alcuni episodi di vandalismo inquinante che sempre con maggiore frequenza hanno come scenario le coste e le spiagge salentine. Formulare accuse generiche può servire, e serve, nella gestione politica degli Enti territoriali, ma non aiuta a risolvere il problema di un territorio che è, per la prima volta senza divisioni di campanili o steccati di reciproca indifferenza, totalmente votato al rischio ambientale. Volendo scendere nei particolari, si può ipotizzare per i mari salentini un futuro assetto ambientale che presento:
- nella fascia adriatica, una compromissione della costa a causa dell'abusivismo edilizio, con scarichi abusivi in mare, vista l'indisponibilità politica di dotare le marine di regolari reti fognanti;
- nella fascia ionica, un inquinamento diretto dell'acqua per il continuo riversamento di scarichi industriali;
nel Capo di Leuca, punto di incontro dei due mari, un possibile inquinamento a causa delle chiazze di petrolio provenienti dall'interno e spinte a rive dal vento di levante. Se questa ipotesi appare una pura illazione, si vedano i blocchi di cemento armato utilizzati per la nuova strutture del molo foraneo del porto di Leuca, ricoperti, a poche ora di distanza dalla posa in mare, da sostanze oleose e da catrame. in ogni caso, l'inquinamento da transito di petroliere e navi-containers riguarda gran parte del litorale adriatico. Al di là della vicenda Cavtat, sono quasi settimanali le segnalazioni di sversamenti effettuati al largo che i venti trasportano immancabilmente sotto costa. Per la cronaca, i casi più clamorosi (perché hanno avuto un seguito giudiziario) risalgono al 1985 e al 1986. Il primo riguarda la vicenda della nave danese "Divy Tern", che il 16 luglio 1985 transitando al largo di Otranto, scaricò in mare una miscela ad alta concentrazione di idrocarburi e di paraffina inquinando il litorale di Porto Badisco (dopo due anni il comandante Reidar e la compagnia armatrice sono stati condannati ad una ammenda di dieci milioni di lire, mentre una provvidenziale amnistia li ha salvati da una condanna per "danneggiamento dell'ecosistema"). Il secondo, invece, ha avuto come protagonista - inquinante una petroliera greca, sorpresa da un elicottero (che ospitava in quel momento il pretore di Otranto, Ennio Cillo) mentre stava ripulendo gli enormi serbatoi, scaricando le miscele di risulta e i rifiuti proprio in mare.
Complementare a questi due diversi tipi di inquinamento delle acque del mare (da una parte, l'abusivismo edilizio in zone prive di depuratori, dall'altra il rilascio di materiale chimico da parte delle industrie) è l'attività della pesca di frodo. Anche per questa, in provincia di Lecce, sembra valere la legge dei due mari. Nell'Adriatico, infatti, si pratica ancora largamente la pesca a strascico. è sufficiente, per rendersi conto della portata di uno scempio criminale della fauna marina, percorrere, dalle otto di mattino fino a mezzogiorno, la costa da Otranto a Castro, muniti se possibile di un buon binocolo. Le barche - solitamente pescherecci con impianti rice-trasmettitori sintonizzati sulla frequenza della Capitaneria di Porto di Gallipoli -procedono pigramente, appaiati, trascinando reti che graffiano i fondali e smantellano le colonie della riproduzione. Fino a pochi anni fa, i pirati erano del posto. Oggi, di fronte alla crisi del settore (in provincia di Lecce i pescatori "professionisti" ancora in attività sono poco più di 400) e, soprattutto, a una nuova generazione di pescatori che hanno fatto proprio l'invito a concedere il "riposo marino" alla fauna ittica, le reti a strascico parlano barese. Trani e Molfetta, in primo luogo, dopo che i porti abruzzesi e molisani hanno decretato la serrata contro le flottiglie pugliesi. Dietro i baresi, i siciliani, al punto che gli stessi pescatori locali ora devono affrontare una pericolosa concorrenza, che all'uso indiscriminato delle sciabiche ha aggiunto il contrabbando delle sigarette e quello più redditizio, nascosto nel ventre molle del pesce, della droga.
Nel versante ionico, dominano ancora, invece, i bombaroli: una strage quotidiana, a colpi di gelatina e di tritolo, che avviene sotto il naso dell'autorità di polizia. I luoghi della mattanza sono sempre gli stessi: Marina di Mancaversa (Taviano), Torre Suda (Racale), Torre Pizzo (Gallipoli), Torre Pali (Salve), Torre Mozza (Ugento), Torre Vado (Marciano di Leuca), Capo San Gregorio, nei pressi di Santa Maria di Leuca. La tecnica è collaudata e sicura: tre imbarcazioni, una delle quali per il trasporto delle bombe, le altre due in posizione di appoggio logistico e di copertura contro eventuali ficcanaso, un complice sulla riva per segnalare, via radio, un possibile controllo della finanza da terra. In caso di pericolo, il materiale esplosivo può essere inabissato nel giro di cinque secondi, mediante appositi pesi. Il resto è storia fin troppo nota. Il pesce bombardato arriva regolarmente nelle pescherie e nessun controllo sanitario accerterà mai la presenza nelle corni di nitrato potassico, o di acido picrico, o di polvere nera.
In ogni caso, il ricorso agli esplosivi appare anche qui in sensibile flessione, perché sostituita dalla pesca illegale che fa ricorso alle sostanze velenose immesse nell'acqua.
La varietà dei prodotti è degna di un laboratorio chimico: timo, salice frantumato, tuberi di ciclamino, cloro, pasta avvelenata con funghicidi, cloruro di calcio, rizoma di piperita, scariche elettriche mediante elettrodi. Da qualche anno ha fatto la sua comparsa anche l'ipoclorito di potassio, utilizzato nel tratto di costa tra Torre Chianca (Porto Cesareo) e Torre Colimena (Manduria), secondo quanto denunciato alle autorità di polizia e alle Procure della Repubblica di Lecce e di Taranto dal WWF-sezione di Veglie nel dicembre '85.
Un quadro, molto approssimativo, della salute del mare salentino e delle cause di inquinamento potrebbe essere il seguente:


Ma il nuovo inquinamento, quello degli anni Novanta tanto per intenderci, non si ferma qui. l'aggressione dell'ambiente trova i suoi punti di forza nell'interno della Provincia, dove è esploso in tutta la sua drammatica portata il problema delle discariche pubbliche e quello più urgente del disinquinamento delle aree urbane e periferiche invase da tonnellate di rifiuti. Secondo stime ufficiali della Provincia di Lecce, le discariche abusive sono oggi in Salento più di cento: in pratica una discarica non autorizzata (o in ogni caso priva dei requisiti di funzionamento imposti dalla legge) per ogni Comune della provincia. Se a queste si aggiungono gli spazi verdi intercomunali adibiti a contenitori di immondizie dai soliti ignoti, la percentuale di aree incontaminate si riduce di un buon 40 per cento. Il fenomeno ha una sua vitale importanza, non solo per quanto riguarda il rilascio di diossina nell'aria durante le operazioni di incenerimento dei rifiuti: diossina altamente tossica per alcuni animali (piccoli mammiferi e uccelli) e, per quanto con tossicità indubbiamente minore sull'organismo umano, sempre in grado di produrre danni nel lungo periodo, soprattutto a livello epatico, con forti sospetti di attività cancerogena e teratogena. Altre implicazioni di rilievo infatti sono sottolineate dalla sempre più ridotta distanza delle discariche improvvisate dai centri urbani e da quei pochi corsi d'acqua che punteggiano la siccità salentina. Nel giro di pochi mesi, per esempio, è stato ridotto a una fogna a cielo aperto il canale ldume, presso Torre Chianca, nel letto del quale sono stati riversati liquami con sostanze non biodegradabili, rifiuti e materiale di risulta dai cantieri edili della zona. Di qualche mese fa è inoltre l'invito formale dell'Assessorato ai Lavori Pubblici della Provincia ai Comuni perché provvedono a sgombrare le strade provinciali dai rifiuti e dai depositi inquinanti.
Del resto, se le strade sono ormai immensi cimiteri di rifiuti, segnali poco incoraggianti provengono da quei pochi depuratori della provincia. Quello di Lecce, in cui confluisce l'intera rete fognante della città, rilascerebbe nel mare di San Cataldo ammoniaca e colibatteri in misura superiore ai parametri di sicurezza prescritti dalla tabella A della legge Merli. Allo stesso modo inaffidabili sono ormai considerati i depuratori di Nardò, di Ugento, di Tricase e di Otranto. Per tutti si prospetta comunque la paralisi totale delle operazioni di smaltimento e depurazione delle acque reflue se il braccio di ferro, tra operai e società concessionaria del servizio per il miglioramento delle condizioni igieniche all'interno degli stabilimenti, non sarà risolto adeguatamente. In tal caso, si andrebbe incontro ad una catastrofe ambientale senza precedenti.
Per quanto riguarda, invece, i rifiuti solidi urbani, è cronaca di questi giorni il "no" ufficiale del Comune di Lecce a divenire sede di un megasmaltitore dei rifiuti della provincia. Avevano dato parere contrario precedentemente Lequile, Galatina e Soleto. Sferzante è stato il commento della Giunta provinciale: "Il Comune capoluogo non ritiene di dover divenire, nemmeno per la bonifica integrale dell'ambiente, un punto di riferimento e di compartecipazione della politica amministrativa coordinata, unica salvezza per il futuro degli enti locali". In realtà, non si tratta solo di limitate visioni campanilistiche o di scarsa lungimiranza politico-amministrativa. La verità èche quello ecologico sarà il più vantaggioso affare del Duemila per gli imprenditori e per la politica salentina. Un business di miliardi, che ha già attirato l'attenzione di una nuova finanza in doppiopetto, che manovra dietro le quinte, e per la quale è più conveniente la realizzazione magari di tre megasmaltitori (a Nord, al Centro e a Sud della provincia) al posto di una sola struttura, che garantirebbe una maggiore economicità della gestione e della manutenzione dell'impianto. Un sospetto che ha fatto breccia anche nella ruvida scorza di riserbo di Giacinto Urso, presidente dell'Amministrazione Provinciale: "E' paradossale, per non dire altro, considerare gli smaltitori impianti pericolosi e nocivi quando poi hanno la precisa funzione, in chiave razionale e moderno, di assorbire le cento discariche incontrollate che avvelenano il nostro territorio, provocando una permanente e neppure tanto occulta emergenza. è anche strano che le riserve politiche attraversino tutti i partiti. Avanza il sospetto che, oltre alle ragioni di mediocre cucina politica, vi possa essere alla base di determinate immotivate ripulse il groviglio di diffusi interessi che vanno dalle progettazioni faraoniche ai consorzi utili per un periodo di transizione".
La vera, più immediata, emergenza è dunque costituito oggi dallo smaltimento dei rifiuti, dalle discariche abusive e dalla depurazione delle acque reflue. E il quadro è destinato ad avere colori ancora più cupi se all'emergenza-rifiuti si abbinerà nel prossimo futuro una ben più massiccia aggressione dell'ambiente all'interno della città e dei paesi. Un primo campanello di allarme è suonato anni fa, in sede regionale, anche se il timbro è stato poco convincente in sede decisionale. Per la Regione, il grado di saturazione dell'ambiente fisico in provincia di Lecce era il seguente:


Formulando questo scenario, in ogni caso, la Regione Puglia non ha tenuto conto, ed è bene precisarlo, degli effetti sull'ambiente delle industrie maggiormente inquinanti che sono presenti ed operano sul territorio della provincia. Le analisi degli uffici tecnici regionali si limitano a considerare l'incidenza sul territorio della popolazione e dell'inquinamento derivante da possibili fenomeni di iperagglomeramento o di eccessivo sfruttamento delle risorse ambientali nei singoli Comuni. Sfugge a questa impostazione o portata del l'inquinamento industriale, che rappresenta oggi il principale problema che si pone di fronte all'opinione pubblica salentina, sballottata nel marasma delle cifre che la vogliono perennemente nei bassifondi delle classifiche nazionali delle ricchezze provinciali, lusingata da quanti ancora premono alle porte dei ministeri e, in nome del nuovo meridionalismo, cercano di legittimare una nuova, forse illusoria, industrializzazione. In nome della quale, già troppi danni sono stati arrecati all'ambiente e alla salute dei cittadini.
Senza considerare i guasti territoriali irreversibili cagionati alle foreste e alle aree verdi (le prime si sono ridotte negli ultimi trent'anni di due terzi, mentre le seconde sono sottoposte all'aggressione delle cave e delle torbiere, nonché allo sventramento delle ruspe di un abusivismo sempre pronto al pentimento), basterebbe aprire gli occhi su di una realtà che spesso sfugge alle statistiche: in provincia di Lecce sono in aumento esponenziale i tumori al polmone, le affezioni alle vie respiratorie, le asme bronchiali, il cancro al fegato. Qualità della vita in rapido deterioramento? Frattura del rapporto uomo-ambiente, con variabili oggi impazzite, che la scienza medica e gli screening sul territorio non riescono a controllare? L'una e l'altra sicuramente, mentre rimane sospesa, come una spada di Damocle, la constatazione di Giuseppe Perrone, pediatra di Galli poli fatto oggetto, negli ultimi mesi, di numerosi attentati dinamitardi, a causa delle sue ricerche sulle malattie "da industria inquinante" a Gallipoli: "Da cinque anni a questa parte, le difficoltà alle vie respiratorie dei bambini sono aumentate del 50%. Non voglio essere precipitoso a condannare la Distilleria del Salento, ma provi a dare uno sguardo agli alberi che crescono nelle sue vicinanze. Foglie gialle, bruciate dall'anidride solforosa, dal pulviscolo e dal rilascio di materiale inquinante. Respirare per dieci minuti quell'aria, equivale a fumare dieci sigarette, una al minuto. Ai bambini, domani, .dovremo spiegare anche questo".

Dopo il condono non più abusivi

Caro Direttore, avremmo preferito, e di certo sperato, di non dover scrivere mai questa lettera sperando in una pacifica soluzione del nostri problemi, ma la situazione attuale non lascia alternative. Veniamo ai fatti.
Da circa nove anni abbiamo edificato delle case (ormai 400), in zona "Canuta" sulla costa Adriatica a metà strada tra le più note Casalabate e Lendinuso; se è vero che abbiamo costruito le nostre abitazioni abusivamente su terreno non edificabile, è pur vero che beneficiando del condono edilizio siamo ormai perfettamente in regola e quindi ci sentiamo autorizzati a richiedere beni di prima necessità come l'elettricità e l'acqua potabile del tutto assenti. Naturalmente questi beni sarebbero i primi di una lungo serie, per una vita sana e civile nella nostra zona, come strade asfaltate, spiaggia pulita e non ultimo un pronto soccorso. Tutte queste richieste sono state presentate agli amministratori del Comune di Lecce, competente per territorio, i quali però si sono sempre mostrati sordi alle nostre esigenze liquidandole con fare demagogico. Siamo certi che almeno ora, se voi attraverso la vostra testata pubblicherete quanto detto, non potranno ignorarci ancora a lungo. Distinti saluti.
Seguono le firme
(Dal Quotidiano di Lecce, "Lettere al giornale", 28 luglio 1987)

Un fiume di veleni

I dati forniti dall'Istituto Geologico dell'Università di Bari hanno giustamente sollevato non poche preoccupazioni, in primo luogo tra le Federazioni di categoria, Assindustria e Confcommercio in testa. Ebbene, sarebbe il caso di tener presente che l'azienda leader del diserbante è la SIAPA (Società italoamericana prodotti antiparassitari), sede legale a Roma, che controlla, secondo stime dell'Assochimica, il 16% del mercato interno, compreso quello salentino. Il 100% delle azioni Siapa appartiene alla Federconsorzi, nella quale la Coldiretti controlla 45 dei 74 consorzi aggregati (gli altri 29 fanno capo alla Confagricoltura di Stefano Wallner): in poche parole, la Coldiretti regola e decide il flusso di veleno che finisce nei campi e nelle aziende degli agricoltori, controllando un mercato di inquinamento che danneggia non solo i propri iscritti ma anche tutti coloro che vengono a contatto, diretto o indiretto, con i pesticidi. Che questa sia la linea ufficiale della Coldiretti e della Siapa (la Confagricoltura ha preso prudentemente le distanze dopo lo scandalo dell'acqua all'atrazina) è facilmente desumibile da quanto dichiarato al settimanale Il Mondo (13 aprile 1987) dal direttore commerciale della Siapa, Giovanni Pierucci: "In Italia il consumo di fitofarmaci è ancora insufficiente, e lo dimostrano le rese per ettaro, inferiori a quelle di altri Paesi. La frammentazione in piccole aziende, tipica dell'agricoltura italiana, ci penalizza. Noi stimiamo l'attuale consumo di pesticidi al 40% delle teoriche potenzialità del mercato italiano: l'obiettivo è di raggiungere in breve tempo il livello del 60%". Sulla stessa linea è Arcangelo Lobianco, presidente della Coldiretti: "L'importante è che non si criminalizzino gli agricoltori, che hanno bisogno dei pesticidi per coltivare con risultati soddisfacenti. D'altra parte, se queste sostanze sono in commercio è perché la scienza le ha prodotte e le autorità le hanno permesse. E a questo punto non ha importanza chi le produce o chi le vende, perché si tratta solo di dare risposta a una legittima domanda di mercato". Quello che né Lobianco né Pierucci hanno sottolineato è che se nella coltivazione dei mais l'uso di atrazina è cresciuto del 32% in quattro anni (1980- 1985), la resa per ettaro ha registrato un irrisorio + 1,6%. D'altra parte, sarebbe difficile spiegare perché, pur essendo la superficie agricola italiana tutto sommato modesta (16,3 milioni di ettari, la metà di quella francese) l'Italia è il sesto mercato mondiale per i pesticidi, con un incremento annuo del 4,5% (per i diserbanti un + 13% nel 1986, pari a 32.000 tonnellate).

La città assediata Storia di una vergogna

Troppe sono state le denunce, gli esposti, le richieste di intervento succedutesi per più di dieci anni da parte di organi di polizia, associazioni, cittadini, per poter spiegare come mai esse siano state pressoché sistematicamente ignorate, dando all'opinione pubblica la sensazione (che spesso trova riscontro nei fatti descritti) che il funzionamento dell'impianto dovesse proseguite nonostante le numerose violazioni di legge.
Riportiamo sinteticamente quanto in ns. possesso; queste denunce, provenienti da persone che mostrano di avere ancora fiducia nella giustizia e nelle istituzioni, rappresentano un grave atto di accusa nei confronti di tutte quelle autorità che ignorando questi stimoli genuini della popolazione hanno dimostrato inerzia, inefficienza, insensibilità democratica, disprezzo dei diritti elementari della popolazione. Per meglio inquadrare la situazione di degrado, che si protrae da tempo, si riportano segnalazioni risalenti alla gestione Costa.
26/6/76 Il Comune di Gallipoli comunica al Medico provinciale: "Viene segnalato dagli abitanti della zona di espansione urbana di via Lecce S.S. 101 che lo stabilimento della distilleria Costa non sia munito di idonei neutralizzatori di fumo e di depuratori delle acque di scarico a mare".
1/4/77 Un telegramma della Società Riva Levante al Comune di Gallipoli, al Prefetto e al Medico provinciale denuncia "grave situazione igienico-sanitaria causa esalazioni venefiche Distilleria Costa pericolo intossicazione nostre maestranze che sono in agitazione permanente".
21/4/77 Su richiesta di intervento dell'Ufficio Sanitario di Gallipoli, il Direttore del LIP Caravella risponde che "per un esame obiettivo del fumi (anidride solforosa e pulviscolo atmosferico che non ho visto), sono necessari uomini e mezzi che questo Reparto Chimico non dispone".
16/6/77 L'Ufficiale Sanitario di Gallipoli comunica al Sindaco: "... malgrado gli accertamenti e le assicurazioni da parte della Ditta circa la depurazione, l'innocuità e l'abbattimento dei fumi stessi, gli inconvenienti sono rimasti. Le attrezzature depurative e gli abbattitori di fumo in atto, non vi è dubbio, sono insufficienti e inadeguati. Grande quantità di fumi, nelle giornate umide con bassa pressione atmosferica, copre per largo raggio l'abitato circostante, con grave nocumento alla pubblica salute".
22/11/82 la ditta Costa comunica al Comune di Gallipoli che durante lo svuotamento di un silos di farina di buccia d'uva una parte di essa è stata trasportata dal vento fuori dallo stabilimento.
6/10/83 Per un altro incidente notevoli quantità di farina di buccia d'uva fuoriescono dallo stabilimento.
7/10/83 Il Commissariato di P.S. di Gallipoli segnala al sindaco che "viene lamentato da parte di numerosi condomini non solo adiacenti alla fabbrica, ma anche ubicati all'altezza di Corso Italia e Via Milano, che l'attività della Distilleria Costa continua ad imbrattare, con le scorie, balconi, terrazze e prospetti di edifici rendendo peraltro impossibile alle famiglie il normale svolgimento delle quotidiane attività".
22/10/83 L'Ufficiale Sanitario di Gallipoli diffida la Distilleria del Salento (lettera per conoscenza a Regione, Prefetto, Medico provinciale, Sindaco e Pretore) ad adottare tutte le misure per ridurre l'emissione dei fumi nell'atmosfera dovuti "ad un sistema di lavorazione inadeguato alle possibilità tecniche dell'impianto ed alla inosservanza delle prescrizioni sanitarie che regolano tale industria insalubre inopportunamente insediata in centro abitato".
19/12/83 Il Direttore del LIP minimizza l'inquinamento; in una relazione al Medico provinciale dichiara: "... è stata notata la fuoriuscito da questo camino (quello più alto) di abbondanti fumi bianchi costituiti prevalentemente da vapore acqueo proveniente dall'essiccamento delle vinacce; dagli altri due camini si è notato una lievissima emissione molto sporadica di fumi che comunque si dissolvevano molto rapidamente". Per le polveri e l'anidride solforosa dichiara di non avere le attrezzature neccessarie per i rilevamenti.
10/5/84 Un esposto di 104 cittadini al Sindaco, al Pretore e all'Ufficiale Sanitario di Gallipoli lamenta ancora una volta scarichi tossici (fumi e pulviscolo), che aumentano di notte, con conseguenze per l'apparato respiratorio (affezioni rino-faringo-bronchiali, disturbi allergici, ecc ... ). Si chiede la chiusura dell'impianto.
3/12/84 I Carabinieri di Gallipoli, in seguito a denunce di cittadini, inviano alle autorità locali un rapporto giudiziario in cui non escludono che dall'impianto possono essere immesse nel mare sostanze inquinanti nocive per la fauna marina.
18/7/85 la Capitaneria di Porto accerta la presenza di residui della lavorazione provenienti dagli scarichi della Distilleria per un'ampiezza di 300 metri con evidente inquinamento in otto, chiede al Sindaco di apporre il divieto di balneazione e diffida la Distilleria a sospendere gli scarichi. Informa Prefetto e Pretore.
24/12/85 Una relazione della Polizia Urbana al Pretore, al Commissario Prefettizio e al Responsabile della USI. evidenzia il preoccupante aumento di fumi e pulviscolo, che si deposita su terrazze e balconi, con odori nauseabondi, mentre le acque marine assumono colorazione rossastra con grave pregiudizio per la fauna marina.
29/4/86 Un articolo della Gazzetta del Mezzogiorno riporta la notizia di una comunicazione giudiziaria al titolare dell'impianto, Antonio Marrone, in relazione a truffe alla CEE con il vino al metanolo.
7/5/86 Denuncia di cittadini al Sindaco, al Pretore, all'Ufficiale sanitario, alla Procura per il grave inquinamento del mare e dell'atmosfera.
16/6/86 Ennesimo esposto di cittadini, inviato anche al Prefetto, al Presidente Regionale, ai Ministri dell'Ecologia e della Sanità.
24/7/86 La Capitaneria di Porto individua nella zona marina antistante la Distilleria intense esalazioni maleodoranti e invita il Sindaco ad intervenire.
14/8/86 La Lega per l'Ambiente di Gallipoli chiede con R.R. alle autorità (Sindaco, Pretore, LIP, USL, Capitaneria) di verificare la regolarità delle procedure autorizzative, la rispondenza degli scarichi alla legge Merli, denuncia l'assenza del parametro temperatura nelle analisi del LIP, chiede di conoscere le caratteristiche chimiche e tossicologiche delle sostanze emesse ed i suoi possibili effetti sull'uomo e sull'ambiente, l'adeguatezza degli impianti di abbattimento degli inquinanti alle norme. Nessuna risposta.
16/9/86 Denuncia della Capitaneria di Porto per la presenza di chiazze di colorito rossastro con sostanze in sospensione nell'acqua di mare antistante la Distilleria di sicura provenienza della stessa. Si effettuano prelievi e si inviano al LIP.
24/9/86 Le analisi eseguite dal LIP sui campioni prelevati dalla Capitaneria di Porto indicano finalmente che l'acqua è inquinata. L'impianto continua a funzionare.
5/10/86 Una grave moria di pesci colpisce un vasto braccio di mare intorno all'impianto per chilometri; l'acqua appare torbida e rossastra. Intervengono le autorità e si prelevano campioni di acqua e di pesce.
12/10/86 La popolazione chiede con una manifestazione e un corteo per le strade di Gallipoli la chiusura della Distilleria.
21/10/86 La Lega per l'ambiente chiede al Pretore di intervenire per accertare tutte le responsabilità connesse con la moria. A tutt'oggi nessuno è stato perseguito.
27/10/86 Le analisi di prelievi eseguiti l'8 ottobre sugli scarichi nel Laboratorio del Dott. Ciardo Francesco su iniziativa della Lega per l'ambiente, questa volta senza preavvisare i conduttori dell'impianto, indicano che "i parametri C.O.D., temperatura, sostanze sospese, ph, sono superiori a quelli ammessi dalla Tabella A della legge 10/5/86, n. 319". I dati sono riportati dalla stampa.
27/10/86 Una relazione del responsabile USL dott. Errico, esclude che le responsabilità della morìa siano da ricercare nell'Ospedale o in altri insediamenti, e punta il dito sulla Distilleria.
27/10/86 Un'altra R.R. della Lega per l'ambiente diffida USL, Sindaco, Pretore, LIP, ad accertare la nocività delle emissioni e ad eliminare i fattori di rischio.
29/11/86 Un rapporto del Comando VV.FF. individuo 30 irregolarità nei sistemi di sicurezza e prevenzione incendi.
4/11/86 Finalmente la USL chiede alla Distilleria una documentazione dettagliata del ciclo produttivo.
26/2/87 Un sylos contenente vinaccia in fermentazione esplode; una tragedia è evitato per puro caso. Il sylos risultava ufficialmente vuoto, sulla base di provvedimenti adottati sia dal Pretore che dal Sindaco. L'assessore Grasso dichiara al Quotidiano (27/2/87): "Quando adottammo il provvedimento di chiusura, ci furono chieste dalla ditta 72 ore per svuotare i contenitori e smaltire tutto il materiale. Delle due l'una, o i sylos non sono stati svuotati o, nel lasso di tempo tra la chiusura e la riapertura della distilleria, il lavoro all'interno è continuato nonostante il decreto".
5/3/87 Un telegramma della Lega per l'ambiente e del Comitato Cittadino diffida la Provincia dal concedere l'autorizzazione allo scarico senza adeguate garanzie; l'autorizzazione viene concessa.
3/4/87 Una relazione al Sindaco del Dott. Errico della USL giudica sansa, farina di buccia d'uva e olio combustibile "materiale non idoneo ad alimentare combustioni in insediamenti produttivi insistenti nel perimetro urbano".
24/4/87 Con un fonogramma la Capitaneria di Porto avverte Prefettura, Pretura e Provincia che militari dipendenti hanno accertato nella serata del 23 e nella mattinata del 24 maggio "presenza chiazza acqua marina di colore nerastro con sostanze in sospensione certamente provenienti da citata Distilleria".
9/5/87 Una vera e propria pioggia di residui di lavorazione sommerge i quartieri di Gallipoli circostanti l'impianto sotto un fitto strato: la popolazione scende esasperata nelle strade e blocca per alcune ore la Statale. Un'ennesima ordinanza sindacale, poi sospesa dal TAR, blocca temporaneamente l'impianto.
12/5/87 Diecimila persone, tutta la cittadinanza compatta, ribadisce il NO all'impianto con una manifestazione e uno sciopero generale.
14/7/87 Un esposto di abitanti del complesso "Riva Levante" al Pretore, al Commissario di P.S., al Comando C.C., alla Capitaneria di Porto, al Sindaco, alla USL, denuncia che "a causa delle prolungate immissioni di fumi e vapori maleodoranti l'aria è diventata a malapena respirabile e procura disturbi alle vie respiratorie, agli occhi e alla salute in genere"; che "insieme ai suddetti fumi fuoriesce pulviscolo nero che si deposita su balconi e terrazze penetrando nelle abitazioni anche con gli infissi chiusi", che "lo scarico delle acque provoca la morte della flora e della fauna marina e determina la colorazione scura della scogliera".
28/7/87 Un rapporto del responsabile USL dott. Errico sottolinea l'incompatibilità della fabbrica con il centro abitato e chiede l'intervento del Sindaco sulla base degli art. 216, 217 delle leggi sanitarie.
2/8/87 Un'altra grave morìa di pesci colpisce il litorale presso la Distilleria, si ripete il copione del 5 ottobre '86. L'acqua è rossastra e torbida. L'impunità si profila anche questa volta; anzi, i legali della distilleria denunciano chi osi mettere in relazione la morìa con gli scarichi dell'impianto; il disprezzo dei diritti dell'ambiente e l'umiliazione delle istituzioni hanno raggiunto il massimo. Ma. la storia della vergogna continuo.
(Lega per l'ambiente e Comitato Cittadino per la chiusura della Distilleria, La Distilleria di Gallipoli - Una vergogna per il Salento, "Libro bianco", Gallipoli, settembre 1987, pp. 13-20).


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