Di
ecologia e di ecosistema si è iniziato a parlare, in provincia
di Lecce, negli anni Settanta, quando l'affondamento della motonave
"Cavtat" nel Canale di Otranto, con un carico di tetraetile
di piombo, diede la stura a un nugolo di interventi, corredati da interminabili
polemiche, sulla situazione ambientale dei mari salentini. Si parlò,
allora, di incompetenza e di approssimazione degli organi preposti alla
vigilanza marittima, mentre le operazioni di recupero dei bidoni dal
fondo dei mare aprì un parallelo filone di polemiche sul connubio
tra emergenza ambientale e profitti economici, facilmente rapportabile
al conflitto di competenze - e di interessi privati - che si è
scatenato intorno alla proposta di disinquinamento del golfo di Taranto
e del golfo di Manfredonia.
Fino ad allora, il problema di possibili disastri o di danni arrecati
all'ambiente era stato sollecitato sporadicamente e solo per avvenimenti
marginali: incendi dolosi di qualche pineta (Cesine, Portoselvaggio),
attività di pesca con bombe (Marciano di Leuca, Salve, Porto
Cesareo, Gallipoli), lavaggio in alto mare delle cisterne delle petroliere
(con limitati effetti sul mare e sulla costa esposta ai venti di levante,
in particolare Santa Maria di Leuca). Il tutto, però, rientrava
in un'ottica quasi di ordinaria amministrazione, se è vero che
fino a tutta la prima metà degli anni Settanta le denunce che
ipotizzavano reati contro l'ambiente (e contro il patrimonio indisponibile
dello Stato) si contano sulle dita di una mano. Dei resto, l'unico tipo
di violazione maggiormente rilevato (ma non per questo adeguatamente
fronteggiato) era quello dei "bombaroli", così diffuso
da creare una vera e propria tipologia comportamentale e sociologica
(gli uomini con i moncherini a Morciano di Leuca), nonché una
destinazione quasi fatalistica di alcuni luoghi eccellenti per il lancio
delle bombe in mare (i "settaturi", disseminati a decine tra
Torre San Gregorio e Marina di San Giovanni, a Ugento, fino alla Marina
di Mancaversa).
Eppure, è proprio in questi anni che si possono già intuire
le linee dello sviluppo di quello che oggi da più parti si definisce
"processo di disgregazione ambientale" in Provincia. Un processo
di attacco all'ambiente, di interventi massicci sulla natura, che possiamo
dividere in tre tappe, ciascuna contrassegnata da altrettanti processi
di sviluppo economico.
1a fase. Abusivismo
edilizio costiero.
E' la prima tappa segnata dal degrado ambientale. Inizia nei primi
anni Settanta, con le rimesse degli italiani dall'estero, ed è
favorita da una non gestione dei territorio a livello amministrativo.
Il fenomeno interessa gran parte del territorio, ma raggiunge punte
di inaudita concentrazione sul versante ionico, dove spuntano dal
nulla interi doppioni di paesi sul mare, a poche decine di metri dalla
battigia. E' il caso di Salve e di Patù, ma tutta la litoranea
fino a Gallipoli presenta cantieri di lavoro, con regolari ispezioni
delle autorità sanitarie al termine dei lavori. La fisionomia
della costa occidentale è già praticamente compromessa,
mentre a nulla valgono i pochi tentativi di arginare un comportamento
dalle caratteristiche malavitose, che non disdegna l'uso del ricatto
o il ricorso all'esplosivo in casi di necessità e di urgenza.
E cronaca di quegli anni le decine di automobili di amministratori
o di privati cittadini fatte saltare in aria a scopo intimidatorio,
magari per una delibera bloccata nel corso di un Consiglio comunale.
O l'interessamento di piccoli e medi costruttori e palazzinari campani
all'area salentina. O gli scheletri di abitazioni e di appartamenti
costruiti con contributi della CEE (provvidenze per l'agricoltura
e le attività zootecniche, come si definiva un fiume di denaro
regolarmente confluito nella costruzione di appartamenti ad uso civico)
e poi abbandonati precipitosamente a seccare sotto il sole e ad accogliere
i bazar e i mercatini volanti della droga di oggi.
L'abusivismo in ogni caso, è il prezzo pagato dal nuovo sviluppo
economico: che in quegli anni si concentra, infatti, nel Salento occidentale:
aree forti, Galatina e Nardò, industrie estrattive e manifatturiere.
L'abusivismo, e l'aggressione della costa, marciano di pari passo
con il boom della media e piccola industria. E' un boom che tutto
giustifica, anche quando l'abusivismo viene praticato dalle amministrazioni
o dagli Enti pubblici. Dice il pretore di Nardò, Angelo Sodo:
"Nel lontano 1970, ebbi a sottoporre a sequestro giudiziario
l'erigendo muraglione che doveva costituire la delimitazione di un
porto nella frazione di Santa Caterina di Nardò, perché
palesemente in contrasto col paesaggio - per fortuna in zona vincolata
- nonostante che lo stesso porto avesse avuto l'approvazione del Consiglio
Superiore del LL.PP. (ma circa 15 anni prima, con ritardi di attuazione
per motivi burocratici). Dal 1971 e cioè dall'inizio di un
abusivismo edilizio impressionante, specie sulle zone costiere, ho
forse dovuto inventare, per la prima volta in Italia, il sequestro
di costruzioni prive di licenza edilizia con l'apposizione dei sigilli
e con il conseguente arresto di coloro che violavano gli stessi, avvalendomi
del rito direttissimo e irrogando pene corrispondenti alla gravità
dell'infrazione". La tecnica adottata - ma sarebbe più
corretto parlare di stratagemma - è sempre la stessa, e in
provincia di Lecce ha una sua peculiarità, favorita appunto
dai ritardi di attuazione: si progetta una costruzione abusiva, anche
di grandi dimensioni o di proprietà dell'Ente pubblico, e si
passa immediatamente alla fase di attuazione, con progetti in larga
parte "regolari" o comunque difficilmente contestabili in
sede di contenzioso pretorile. Salvo poi apportare delle varianti-stralcio,
con adeguamento dei prezzi, nelle quali sono contenute le violazioni,
che immancabilmente trovano approvazione o che sfuggono al vaglio
delle opposizioni di sinistra in paesi che vedono massicci schieramenti
democristiani, con giunte monocolore. Sono gli anni del "mattone
selvaggio" anche in provincia di Lecce, da far impallidire perfino
il più rincagnito abusivismo siciliano degli anni Ottanta.
Ma sono gli anni anche di mastodontiche opere pubbliche - edifici,
tangenziali e superstrade inutili - che hanno stravolto l'assetto
territoriale della provincia. Un intervento spesso ai confini del
codice penale, che ha avuto come effetto immediato la cancellazione
di intere aree verdi e boschive, che hanno lasciato il posto a precari
nastri asfaltati. Un esempio per tutti, il tentativo - nel 1971 -
di abbattere l'ultimo esemplare di quercia vallonea esistente in Italia,
a Tricase, per la costruzione della rete viaria. Solo l'intervento
del WWF evitò l'opera di sradicamento e consigliò una
biforcazione all'altezza del bosco. lnutile aggiungere che i terreni
circostanti, di proprietà dei notabili locali, non potevano
e non dovevano essere espropriati.
Con le aree verdi ridotte, sono state spezzate intere catene alimentari:
uccelli e volpi, gatti selvatici e ricci di campagna. Le conseguenze
si possono tirare solo oggi: un aumento considerevole delle vipere
e dei ragni, nonché di insetti dannosi per l'agricoltura e
per i raccolti. Prosperano solo topi, ma non più di campagna,
ora che perfino i rifiuti non rappresentano più un'appetibile
occasione di pasto.
La cementificazione selvaggia si sviluppa, quindi, seguendo precise
direttive dettate dallo sviluppo economico. Semplificando, negli anni
Settanta si ha:
2a fase. Abusivismo
interno.
E' la fase che corrisponde alla diffusione delle piccole e medie industrie
nell'interno della penisola salentina. le linee di sviluppo, una volta
orientate verso la costa ionica, puntano ora verso l'Adriatico. Nascono
nuove economie di scala, mentre si rafforzano i poli economici tradizionali
del settore calzaturiero e del l'abbigliamento al centro del territorio.
E' la "linea adriatica dello sviluppo", che De Rita inventa
sulla carta per richiamare all'attenzione del nuovo meridionalismo
le realtà economiche emergenti da Termoli in giù. Lungo
l'Adriatico, appunto.
Maglie è quindi un "comune canguro", che si muove
a piena velocità nel campo del terziario e delle assicurazioni.
Altri comuni non tardano ad allinearsi, spesso sovvertendo le più
pessimistiche previsioni. Il fenomeno raggiunge il punto più
alto nei primi anni Ottanta, portando alla luce economie diffuse e
diseconomie sommerse. Tira il calzaturiero, ma anche le attività
di trasformazione dei metalli, le industrie conserviere, e, come sempre,
le industrie estrattive, mentre il lavoro nero continua ad alimentare
un autonomo processo di crescita, che coinvolge ora intere periferie
e si candiderà successivamente come serbatoio inesauribile
per il reclutamento di forza-lavoro per la criminalità organizzata.
Il nuovo boom della media industrializzazione corre lungo direttrici
interne: Lecce-Surbo, Maglie, Casarano, Patù. Il capoluogo
di provincia e Surbo, con specializzazioni nella industria meccanica
e nell'industria pesante. Maglie, come vetrina del terziario e del
commercio. Casarano e Patù, roccaforti del calzaturiero e del
caporalato e punto di riferimento per la politica degli affari salentina.
In tutto, più di 8.000 ditte iscritte nei registri della Camera
di Commercio di Lecce, pari a un quinto delle ditte esistenti in provincia.
Seguendo questo percorso, si arriva a conclusioni per lo meno sorprendenti.
Lecce e Patù diventano, negli anni Ottanta, due dei nove comuni
"leader" della Regione (gli altri sono: Foggia, Isole Tremiti,
Bari, Binetto, Modugno, Taranto, Brindisi). Galatina, Galatone, Gallipoli,
Maglie, Monteroni di Lecce, Nardò, Novoli, Parabita, Soleto,
Trepuzzi e Tuglie si propongono, invece, come "aree di sviluppo
industriale diffuso", mentre il "mercato agricolo"
continua a gravitare intorno ad Acquarica del Capo, Andrano, Leverano,
Martignano, Minervino di Lecce, Palmariggi, Porto Cesareo, Supersano,
Vernole.
E' nel paesi "leader" e in quelli con "sviluppo industriale
diffuso" che in questi anni si verifica un secondo, più
evidente e più articolato, fenomeno di abusivismo edilizio.
Questa volta si costruisce all'interno dei paesi, spesso intervenendo
sconsideratamente nelle aree dei centri storici o in quelle destinate
a verde pubblico nei piani di fabbricazione. Non è un caso
che la legge istitutiva del P.R.G. sia del 1982 e che da quell'anno
appena il 10% dei comuni salentini abbia ottemperato all'obbligo di
servirsi di questi piani nella gestione del territorio. Così
come non è un caso che sia oggi praticamente impossibile reperire,
presso la Regione e presso i Comuni, le aerofotografie anteriori al
1982. Segreto militare, si dice, per zone che non hanno mai rivestito
un particolare interesse strategico. In realtà, sarebbe difficile
per qualunque Giunta, oggi, giustificare il proprio operato sul territorio.
Si è costruito un immenso cantiere di lavoro, questa è
la verità, laddove esistevano vincoli paesaggistici o dove
il buon senso avrebbe dovuto consigliare ben altri comportamenti.
Così, se da una parte si è salvaguardata l'area umida
delle Cesine, dall'altra si è permessa la costruzione di ville,
con darsene e con approdi privati in cemento armato, a ridosso del
faro di Santa Maria di Leuca (in demanio marittimo e militare) e lungo
la Punta Meliso, ambienti tutt'altro che insignificanti, visto che,
per la particolare conformazione delle rocce a picco sul mare e della
fauna, sono stati fino agli anni Sessanta rifugio ideale per il falco
pellegrino e punto di sosta e di transito per gli uccelli, che migrano
verso l'Africa o che da questa si dirigono verso il centro Europa.
Ed ancora: si sono progettate e realizzate fantastiche ville comunali,
rigorosamente in cemento armato, ma si sono lasciati marcire i centri
storici, con carenze abitative ed igieniche da terzo mondo. Gallipoli,
Tricase, Lecce sono appena la punta dell'iceberg. Bisognerebbe indagare,
ma in tutta la provincia, sull'incidenza dell'epatite virale nei singoli
comuni, e poi tirare le somme di un nuovo, più ottimistico
e facilone, sviluppo economico, che ha perso di vista ogni referente
umanistico. Oppure rapportare le migliaia di casi infettivi registrati
negli ospedali torinesi e milanesi a settembre alle vacanze trascorse
dai turisti in provincia di Lecce, per capire quanto sia sporca e
pericolosa la nostra proposta turistica. Stracciano, quando basterebbe
essere più puliti per salvare la faccia e la nostra povertà.
In ogni caso, il deterioramento delle condizioni abitative segue di
pari passo, e paradossalmente, il boom dell'abusivismo edilizio. Più
si costruisce, più vengono meno i controlli sull'affidabilità
delle costruzioni. Impossibile verificarle tutte, soprattutto quando
ad eseguirle è un semplice ufficiale sanitario, con poteri
che si riducono alla notifica o alla certificazione sanitaria, che
non hanno valore vincolante in sede decisionale. Riporto ancora una
testimonianza del pretore Sodo: "Nel 1979 ho sottoposto a procedimento
penale tutti i sindaci del Mandamento per il reato di omissione di
atti d'ufficio al cospetto del grave inquinamento delle falde freatiche
- constatato da tecnici, specie nelle località vicino al mare
- per la mancanza di interventi adeguati per quanto riguarda gli scarichi
civili. Nello stesso anno ho disposto lo sgombero di due campeggi
abusivi di notevoli dimensioni, realizzati sulla spiaggia di Porto
Cesareo senza alcuna autorizzazione e con strutture talmente precarie
da provocare l'inquinamento del pozzi di acqua potabile e di una parte
del mare circostante e tanto da far temere all'Ufficio di Profilassi
e Igiene di Lecce l'insorgere di vere e proprie epidemie. Nel 1983
ho invitato l'allora Ministro per l'Ecologia, Alfredo Biondi, a visitare
il Mandamento per rendersi conto della gravità della situazione.
Lo stesso Ministro, dopo aver sorvolato con me in elicottero le zone
più colpite dall'abusivismo, ebbe a dichiarare che occorreva,
forse, non la suo visito, ma quella del Ministro della Sanità,
per gli intuibili effetti negativi sulla salute dei cittadini. ( ...
). Purtroppo, ho dovuto constatare che le lottizzazioni non autorizzate
e le costruzioni abusive nel Mandamento di Nardò, specie sulla
zona costiera, si contano ormai a decine di migliaio, realizzate persino
sulla sabbia, previo smantellamento di preziose naturali 'dune', senza
alcuna infrastruttura e quindi con lo scarico dei rifiuti in qualsiasi
luogo disponibile per coloro i quali prelevano i liquami dai pozzi
neri che surrogano, quasi per tutta la costa, le fognature inesistenti".
Cinque anni dopo, Porto Cesareo presenta il peggiore biglietto da
visita sul fronte dell'abusivismo edilizio: è uno dei tre comuni
italiani (gli altri sono Mazzano Romano e Castel Volturno) ad aver
presentato il maggior numero di domande di sanatoria: 8.000, una media
di due domande per abitante residente (3.960), precisamente il 213,4%.
Senza contare il numero di alloggi costruiti dopo il 1983 (circa 2.000),
che ora attendono una nuova sanatoria.
Dunque, lo sviluppo industriale diffuso non ha fatto altro che estendere
l'abusivismo dalla costa verso l'interno. In termini ambientali, il
danno e senza paragoni. Quasi dappertutto la piccolo industria è
stata seguita da un'aggressione al territorio senza precedenti, perché
realizzata in maniera programmatica: prima è stato ridotto
il patrimonio boschivo, poi si sono "urbanizzate" le aree
verdi intorno ai paesi e alle città, infine (ed è storia
dei nostri giorni) si è proceduto all'utilizzazione di zone
ancora vergini per lo scarico dei rifiuti espulsi dall'abitato. Se
si potesse quantificare in termini reali, su di una ipotetica scala
di valori da uno a dieci, la portata del danno ambientale arrecato
al territorio salentino nella prima metà degli anni Ottanta,
l'indice si stabilizzerebbe a quota sei: appena il 40% del Salento
appare infatti ancora preservabile (e preservato) dall'intervento
di ruspe e di esplosivi. I danni, ora, sono sia ad Est sia ad Ovest.
Sulla fascia costiera occidentale, una "specializzazione"
abitativa che ha fatto dell'abusivismo un nuovo linguaggio, anche
politico, che traduce in dialetto la speculazione di una mafia delle
costruzioni legata alle correnti affaristiche di tutti i partiti.
Sul versante adriatico, e nel cuore della provincia, una "specializzazione"
manifatturiera che ha gestito l'ambiente come un'enorme palpitante
pompa di scarico di fumi e di veleni, in nome di una industrializzazione
che non ha ridotto, in verità, le distanze con il futuro prossimo
venturo. Alle spalle di questa nuova rampante schiera di predoni del
territorio, una classe politica tirata su nell'accademia degli appalti,
più affaristica che ideologica, che ha imposto la propria appartenenza
al club decisionale grazie ai miliardi ricavati dalle speculazioni
finanziarie, realizzate in provincia attraverso compiacenti prestanomi
e società finanziarie fariasma, che fanno capo all'inesausto
mercato affaristico di Bari. è stato facile, e quasi naturale,
l'insorgere a questo punto di un nuovo tipo di imprenditorialità
locale, tutta salentina, che ha distrutto e che distrugge programmaticamente
a mano a mano che avanza e penetra nel territorio. E il delitto Fonte,
a Nardò, indica che il processo ha raggiunto ormai le soglie
della criminalità organizzata, santuari dove affari e politica
trovano una loro fisiologica e necessaria saldatura.
Solo in questa ottica è possibile comprendere la realizzazione
di imponenti opere pubbliche, che oggi risultano essere praticamente
abbandonate, o inutilizzate perché gli Enti locali in seguito
non hanno trovato i mezzi finanziari per affrontare i costi di gestione.
E così, per una città come Galatina, aperta al traffico
pesante rotabile con il Nord Italia e con il Centro Europa, si continua
a sperimentare una via di comunicazione altamente pericolosa come
la Galatina-Lecce, con un'ampiezza della sede stradale appena sufficiente
per la circolazione di un T.I.R., mentre per il collegamento Galatina-Maglie,
poco frequentato dagli automobilisti (la media è di un veicolo
leggero ogni due minuti ... ), si è costruita una superstrada
di proporzioni inusuali per i centri serviti nell'hinterland magliese
e galatinese. lo stesso discorso si può ripetere per i comuni
del Capo di Leuca, dove iniziative faraoniche di strada a scorrimento
veloce o di tangenziali (quella di Tricase) si sono immancabilmente
arenate dopo i primi lavori di sbancamento. le stesse marine orientali
non sono state risparmiate. Valga per tutte l'esempio della "Cala
Saracena" di Torre Vado, un imponente complesso alberghiero risalente
agli anni Settanta, abbandonato a poco meno di duecento metri dalla
costa, oggi ricettacolo di rifiuti, di topi, e di siringhe. Una cloaca
a cielo aperto, mentre a pochi metri di distanza si esperimentano
nuovi tentativi di decollo turistico-alberghiero, per incrementare
le presenze straniere. E se all'apparenza i risultati possono sembrare
positivi, in realtà si tratta della solida parrucca settecentesca:
incipriata e profumata, ma che nasconde, sotto, una nuova generazione
di pidocchi.
Compaiono, in questa seconda fase, le prime avvisaglie dell'inquinamento
ambientale e delle vere e proprie emergenze ecologiche. Troppo ampie
sono infatti le aree sottoposte a sfruttamento, mentre si riducono
parallelamente le operazioni di disinquinamento perché non
esiste personale specializzato e perché la consulenza esterna
(straniera, in qualche caso) costa centinaia di milioni. Si dovrebbero
rivedere decine di bilanci comunali, redatti sotto l'ala protettiva
di compiacenti padrinaggi politici, per scoprire, forse, il fiume
di miliardi spesi per fronteggiare emergenze altrimenti evitabili.
E non si parla solo di abusivismo edilizio, perché la sanatoria
ha praticamente sedato polemiche e ha interrotto l'azione penale di
quei pochi pretori andati allo sbaraglio in mezzo ai cantieri di lavoro.
Si parla di ingenti somme destinate alla disinfestazione di aree ridotte
a cimiteri di immondizie, o al disinquinamento delle acque sorgive.
Fatto cento il costo di gestione intelligente e responsabile di uno
smaltitore di rifiuti, per esempio, in provincia di Lecce si ègiunti
a spendere cinque volte tanto per dislocare i rifiuti in luoghi diversi,
con l'aggravante dell'inquinamento delle falde freatiche.
Gli anni Ottanta, che sono critici per l'ambiente salentino, possono
essere così riassunti in cartina:
3a fase. Inquinamento
del sottosuolo.
E' la fase che segna, in questi anni, il punto critico dell'aggressione
del territorio. Frutto dello spontaneismo e di un improvvisato affarismo
imprenditoriale, l'apparato produttivo della provincia di Lecce è
nato, e si è diffuso, senza avere previsto un sistema organico
(e organizzato) di smaltimento e di riconversione industriale dei
rifiuti e delle eccedenze inutilizzabili della lavorazione. E', anche,
la fase più paradossale e, apparentemente, la più inverosimile.
Corrisponde, infatti, non a un'ulteriore espansione delle attività
economiche nel leccese, bensì a una sua non tanto imprevista
contrazione. Infatti, se l'inquinamento atmosferico ha raggiunto punte
preoccupanti soprattutto nelle immediate vicinanze del capoluogo,
la zona industriale di Lecce conosce oggi la crisi più dura
dal 1969, anno in cui Comune, Provincia e Camera di Commercio diedero
vita al Consorzio dell'area di sviluppo industriale. Segno evidente
che la pregressa industrializzazione dell'area - con la punta di diamante
rappresentata dallo stabilimento della Fiat Allis (che in realtà
è stato un "elefante bianco", senza razza, perché
le aziende dell'indotto Fiat, producono meno del 5 per cento del materiale
occorrente alla fabbrica) - sta proponendo solo ora gli effetti deleteri
di una industrializzazione vorace tra gli ulivi. Non è mai
nato il "metalmezzadro", e non rinascerà il verde,
l'occasione dei mercati agricoli, quella corta vincente che abbinava
vocazione contadina e specializzazione turistica, da proporre come
pacchetto di vendita nelle piazze-affari più importanti d'Europa.
Dice Sergio D'Oria, magliese, presidente dell'Assindustria provinciale:
"Per il settore edile si prefigurano prospettive di sviluppo
legate ad una riconversione dell'attività che si proietti verso
il settore ecologico per il recupero delle coste e dei centri storici.
La realizzazione di questo mutamento potrà costituire un valido
elemento trainante per l'industria del settore turistico ed alberghiero.
L'evoluzione tecnologica, l'adeguamento alle richieste del mercato
devono determinare politiche di riconversione industriale". Quindi,
gran parte di quanto realizzato negli anni Settanta in campo industriale
deve adesso tendere a un recupero (economico, creatore di reddito)
dell'ambiente, intervenendo con un adeguamento - con una "riconversione",
appunto - dei fattori produttivi. Ma quali sono i termini di questo
degrado ambientale sul quale, ora, anche gli esponenti del mondo industriale
intendono concentrare gli sforzi e presumibilmente anche gli investimenti?
Ovvero: quali sono le probabili bombe ecologiche che ticchettano sinistramente
da anni per tutto il territorio della provincia di Lecce? Una veloce
disamina della situazione attuale ci permette di formulare due scenari,
che coinvolgono e interessano i due terzi della provincia. Da una
parte, l'abuso di fitofarmaci, che ha raggiunto in questi anni proporzioni
inusuali; dall'altra, l'inquinamento del sottosuolo e dell'atmosfera
derivato da industrie che operano ai margini della legalità.
I veleni dell'agricoltura.
Il primo segnale, preciso e circostanziato, risale a quattro anni
fa, e coincide, per una sorta di compensazione, con la fuga omicida
di isocianato di metile dall'"Union Carbide" di Bhopal:
ai duemila morti indiani, avvelenati come topi dai gas della multinazionale
americana, l'Italia rispose con gli oltre cento intossicati dai pomodori
al temik, in Campania, in Basilicata, in Toscana, e persino nelle
severe e pignole città dell'Emilia Romagna, inaugurando gli
anni dell'agrochimica. In altre parole, l'ingresso ufficiale degli
aggressivi chimici nella campagna italiana e la ripresa contemporanea,
non a caso - dell'industria chimica nazionale, precipitata troppo
presto e ancora troppo giovane nello stallo produttivo, dopo due shocks
petroliferi consecutivi. La notizia del l'avvelenamento in agricoltura
passò inosservata, appena cinque trafiletti, il primo giorno,
sulla stampa nazionale, ancora ubriaca di elezioni presidenziali americane,
dell'arresto, a Palermo, dei cugini esattori Salvo, del processo Muccioli,
del referendum sulla scala mobile, e, i giornali di sinistra, della
scomparsa di Enrico Berlinguer.
Non una parola sulla dispersione graduale, almeno a Sud, di quei comportamenti
- nati dalla genialità di infinite generazioni di contadini
e dalle lotte di classe dei braccianti e dei cafoni - che erano stati
la base antropologica del meridionalismo liberale prima, e il referente
critico, poi, dell'intera questione meridionale fino agli anni Sessanta.
La terza fase, che viviamo e subiamo spogli di ogni memoria storica,
non ha più steccati o torri di scolta: si avvelena a Nord come
a Sud, con puntiglio, con arroganza, stregoni della pioggia acida,
aggredendo una terra e un territorio che ben poco, o nulla, possono
ormai testimoniare sui paesaggi silvo-pastorali, sui campi a pìgola,
sulle starze, sui ciglioni e sulle terrazze, sul "giardino mediterraneo".
Così, alle indagini sociologiche sulla condizione contadina
(e alle stesse trasposizioni letterarie: levi, Silone, Russo, Fenoglio,
Jovine, Sciascia, Strati) è subentrato oggi un arido resoconto
di fatti e di misfatti, che si pongono sul confine di una nuova criminalità
rampante, con nuovi comportamenti, su nuove aree di espansione: contadini
con il camice bianco e la mascherina sulla bocca, avvelenati da una
storia, in debito con l'umanesimo, che è ormai cronaca di ordinario
teppismo. Teppismo a Nord, dove atrazina e molinate, due dei più
comuni e pericolosi erbicidi in circolazione, hanno finito per spezzare
i reni all'economia agricola della Lomellina e della Vai Padana, costringendo
interi paesi allo spettacolo - indecoroso, per chi non vi è
abituato - delle autobotti e dell'acqua centellinata in contenitori
di plastica. Teppismo a Sud, dove si continua a voler ignorare l'uso
indiscriminato degli agenti chimici in agricoltura, sulla scorta di
quelle poche statistiche che, a causa di un'estrema frammentarietà
ed occasionalità, non raggiungono il cuore e la portata del
problema.
Eppure, sarebbe sufficiente pensare agli oltre 3.000 pozzi (su 7.000)
nei quali il Ministero della Sanità ha vietato l'emungimento
per la presenza, nelle falde sottostanti, di sostanze velenose (acidi,
arsenico, triazina, bentazone); o al ristagno, nelle depressioni carsiche
o nelle vore, di acqua putrida, che non rilascia ossigeno e non ospita
le consuete colonie di larve; o agli animali che sempre più
di frequente si rinvengono morti, cianotici, sui cigli delle strade,
o lungo i binari della ferrovia, dopo operazioni di diserbo.
Posti fuori legge atrazina e molinate, innalzati con decreto ministeriale
i valori massimi dei pesticidi contenuti nell'acqua potabile, il problema
non cambia. Quanto veleno viene periodicamente irrorato sulle campagne,
tra erbicidi, miscele defoglianti e agenti anti-pianta? E quanti rigagnoli
tossici, risucchiati da inghiottitoi carsici, raggiungono le falde
freatiche? Si possono per il momento avanzare solo delle ipotesi.
Partendo da alcuni dati. Nei primi nove mesi dell'anno scorso, all'Unità
Sanitaria Locale LE 12 di Tricase è stata denunciata la vendita
al dettaglio di 2.200 kg. di diserbanti. Alla cifra - secondo i responsabili
del controllo medicosanitario - si deve aggiungere un altro 30% di
prodotto velenoso immesso nel mercato clandestinamente, che sfugge
alla registrazione obbligatoria sui libri di carico e di scarico imposti
dalla legge ai rivenditori nel 1986. Sono dunque più di 2.800
chilogrammi di veleno (quasi tutti di prima e di seconda classe, ad
elevatissima tossicità per l'organismo umano ed animale) destinati
all'ogricoltura, tra le mani spesso di persone incompetenti o non
abilitate all'uso razionale e scientifico dei fitofarmaci. Seguendo
queste stime, che si ripetono quantitativamente in quasi tutta la
provincia di Lecce, in un anno solare il territorio salentino assorbe
più di 36 tonnellate di erbicida, senza considerare il reiterato
impiego degli antiparassitari durante la stagione estiva e dopo il
raccolto del cereali. Impossibile quantificare precisamente il fenomeno,
secondo i tecnici dei Consorzio Agrario Provinciale di Lecce, ma "sicuramente
l'uso dei diserbanti nella campagna salentina ha raggiunto proporzioni
preoccupanti. Poca atrazina, ma troppo paraquat, che inibisce la fotosintesi
e viene massicciamente impiegato sulle graminacee. Conosciamo la sua
tossicità, ma non gli effetti su altri tipi di coltivazioni,
né tanto meno la sua dispersione in presenza di vento, o le
infiltrazioni nel sottoterra". A lungo andare, si dice, il paraquat
potrebbe diventare l'atrazina del Mezzogiorno.
E ancora: l'uso indiscriminato del veleno chimico in agricoltura,
coniugato con l'emergenza liquami (scarichi abusivi di acque luride,
civili ed industriali, ricche di grassi, di fenoli, di alcooli, di
idrocarburi, di ioni metallici, di solfati e di fosfati) e con i 750
milioni di litri di acque di morchia riversati nei pozzi e nelle cave,
ha inquinato due terzi delle falde freatiche della Provincia, compromettendo
un equilibrio bio-ecologico già aggredito dalle perdite e dai
rilasci delle reti fognanti.
Del resto, nemmeno l'attuale legislazione sembra in grado di arginare
l'inquinamento del sottosuolo. Il prossimo 9 luglio entrerà
in vigore la nuova normativa sulla classificazione e sull'etichettatura
degli antiparassitari: l'80% di questi vengono portati alla prima
e seconda classe di tossicità, per le quali è necessario
il "patentino" rilasciato dalle U.S.L. (e non si capisce
perché, fino ad oggi, prodotti altamente pericolosi e tossici
siano stati considerati, per legge, tali da non richiedere una specifica
preparazione degli agricoltori). A metà luglio, invece, entreranno
in vigore le nuove disposizioni relative alla tutela delle acque potabili.
Nel raggio di 200 metri da pozzi e sorgenti - dice la legge -"sono
vietati la dispersione di acque reflue e di liquami, l'accumulo di
concimi organici, l'impiego di pesticidi e di fertilizzanti, il pascolo
del bestiame". Il raggio di 200 metri corrisponde a una superficie
di 12,5 ettari. Se si considera l'estrema frammentarietà e
le piccole dimensioni delle campagne salentine - che sono appena dei
fazzoletti di terra - si comprenderà che anche questa è
una legge-farsa. L'ultima di un lungo elenco.
L'ultima indagine sulle condizioni del sottosuolo salentino risale
a due anni fa, elaborata per il Piano Regionale delle Acque. I rilievi,
a cura dell'Istituto Geologico dell'Università di Bari, sono
chiari quanto basta per tracciare la mappa di un possibile prossimo
disastro ambientale. Fatto 150 l'indice di pericolosità da
inquinamento (basato sulla quantità in chilogrammi dell'ossigeno
consumato da un campione di acqua inquinata da microrganismi, per
chilometro quadrato), i dati più "neri" sono stati
registrati a San Cesario di Lecce (indice 1.105), Trepuzzi (445),
Calimera (411), Novoli (409), Nociglia (349), Maglie (291), Surbo
(274), Cannole (265), Casarano (261), Squinzano (260). Seguono Botrugno,
Melissano, Cursi, Collepasso, Spongano, Miggiano, Taviano, Tuglie,
Gallipoli, Taurisano, Morciano di Leuca, Presicce, Carmiano, Corsano,
Racale e Patù: non a caso tutti paesi che hanno sperimentato
negli ultimi anni un salto in avanti nella piccola e media impresa,
spesso a conduzione familiare, e dove più alto è il
consumo di fitofarmaci in agricoltura (olio e vite). Inquinamenti
minori, soprattutto da coliformi con tracce di sostanze venefiche
di origine chimica, sono stati evidenziati nelle falde freatiche sottostanti
Nardò, S. Isidoro, Veglie, Salice Salentino, Monteroni, Castrì,
Supersano, Ruffano, Nociglia, Specchia, Tricase, Gagliano del Capo.
Acqua inquinata, cioè non potabile, inservibile, al centro
e nel cuore verde della provincia; acqua salmastra, parimenti inutilizzabile,
nelle falde freatiche della costa, da San Cataldo fino a Porto Cesareo.
Quale camicia di forza intorno alla gola di un'arsura già storica
e primordiale, ci stiamo preparando per gli anni Novanta?
Tornando all'emergenza dell'acqua inquinata (va detto per inciso che
l'ultimo stato di pre-allarme ha riguardato il 9 ottobre Guagnano
e Salice Salentino, dove si è provveduto alla distribuzione
di acqua minerale nelle scuole e negli asili-nido), il quadro d'insieme
in provincia di Lecce è il seguente:
Dice Marino Campa, geologo di Sogliano Cavour, e consulente tecnico
di Comuni nelle indagini del sottosuolo: "Per il momento è
da escludere una compromissione delle falde freatiche più profonde,
che risultano protette da agenti inquinanti - agressivi chimici dell'industria
e anticrittogamici dell'agricoltura - grazie a una barriera impermeabile
protettiva. Diverso è il discorso per le falde superficiali:
in questo caso non possiamo negare uno stato di crescente deterioramento
delle condizioni ottimali perché l'acqua risulti batterio logicamente
pura e incontaminata. Si consideri il fatto poi che gran parte della
costa è interessata da intromissioni di acque salmastre (con
tassi di salinità paria 2mg/l, mentre per definizione sono
potabili le acque che contegono sciolti sali minerali in quantità
non superiore a mezzo grammo per litro, N.d.R.), che non possono essere
utilizzate per uso civico e industriale senza previa opera di desalinizzazione".
E in base a questi dati è possibile parlare di una prossima
probabile emergenza idrica in provincia di Lecce?
"Sicuramente sì. l'emergenza idrica, in ogni caso, non
è una ipotesi solo futuribile, perché le prime avvisaglie
si sono già manifestate da anni. A questo proposito voglio
ricordare che la Regione Puglia, nel 1984, proprio con il Piano di
Risanamento delle Acque, istituì zone di vietato emungimento
e zone di salvaguardia (con il divieto di perforazione), salvo poi
emanare una seconda legge, l'anno successivo, con la quale si autorizzava
il perforamento per uso irriguo. Le elezioni erano vicine, e la legge
passò con il consenso di tutti i partiti".
Nuovi inquinatori.
Chi ha ragione tra la Goletta Verde dell'"Espresso" e Giacinto
Urso, presidente della Provincia, sulla salute del mare salentino?
Venerdì 24 luglio 1987 la Provincia di Lecce lancia l'operazione
"Un mare per l'Uomo: al Cento per Cento". Sulla stampa nazionale
compaiono a pagamento i dati della balneazione "a tutto luglio
1987", dati forniti dal laboratorio Igiene e Profilassi di Lecce:
una sola è la percentuale di punti idonei alla balneazione
in provincia, un 100%, appunto, che riguarda 23 comuni (Lecce, Vernole,
Melendugno, Otranto, S. Cesarea Terme, Castro, Diso, Andrano, Tricase,
Corsano, Gagliano del Capo, Castrignano del Capo, Patù, Marciano
di Leuca, Salve, Ugento, Alliste, Racale, Taviano, Gallipoli, Galatone,
Nardò, Porto Cesareo).
Almeno un terzo di questi comuni, nello stesso periodo, dovrà
ricorrere ai cartelli di vietata balneazione.
Una settimana dopo, l'"Espresso" rende noti i dati desunti
dai prelievi effettuati lungo le coste salentine dalla Goletta Verde.
E sono dati preoccupanti. Non tanto per la costa orientale, tutto
sommato ancora poco interessata dall'inquinamento marino (ma non si
contano le decine di costruzioni abusive quasi a ridosso della costa,
bloccate in tempo dalla magistratura tra Otranto e Santa Cesarea Terme,
oppure i tratti stradali aperti dai privati lungo la litoranea), quanto
per quella occidentale, da Santa Maria di Leuca fino a Gallipoli.
Qual è il responso dei prelievi in questo tratto di costa,
il più martoriato, da trent'anni a questa parte, da fenomeni
di inquinamento di origine industriale e da comportamenti di intolleranza
civile?
- Alta concentrazione di coliformi totali (2800 contro i 2000 consentiti
dalla legge) e presenza di ammoniaca a Torre San Gregorio.
- Alta concentrazione di ammoniaca e di coliformi totali (3100) a
Torre Vado (Marina di Marciano di Leuca).
- Alta concentrazione di coliformi totali (2400) e di ammoniaca a
Lido Marini.
- Ammoniaca e nitrati in alte percentuali a Torre San Giovanni.
- Alta concentrazione di coliformi totali (2400) a Torre Suda.
- Alta concentrazione di coliformi totali (2800) e di ammoniaca a
Gallipoli.
- Alta concentrazione di coliformi fecali (120) e tracce di ammoniaca
e di nitrati a destra del porto di Gallipoli.
- Solfuri e nitrati a Torre Sabea.
- Ammoniaca e nitrati a Santa Caterina. - Alta concentrazione di coliformi
totali (3200), alti valori di ammoniaca e di nitrati a Porto Cesareo
(strada panoramica).
La situazione più allarmante, per i chimici della Goletta,
è ancora una volta nei pressi di Gallipoli. L'attracco della
Goletta, del resto, avviene proprio nei giorni caldi delle manifestazioni
contro la Distilleria del Salento, responsabile, secondo gli ambientalisti,
dei guasti irrimediabili delle acque marine e delle morìe di
pesci che periodicamente vengono segnalate nei tratti di costa tra
Gallipoli e Ugento.
Di fatto, le rivelazioni del settimanale aprono una serie di polemiche
e di accuse reciproche tra ambientalisti e amministratori pubblici,
che a distanza di mesi non è ancora del tutto sopita. Difficile
stabilire, per la mancanza cronica di esami da parte delle Unità
Sanitarie Locali, se il nostro mare è quello descritto dalla
Goletta o quello propagandato dall'Amministrazione Provinciale di
Lecce per bocca del suo Presidente. Alcuni rilievi, però, si
possono per il momento fare. Se il nostro mare è batterio logicamente
puro, senza tracce di sostanze venefiche inquinanti, non si possono
spiegare le decine di spiaggiamenti nella scorsa estate di delfini
sulla nostra costa, né la presenza, all'esame autoptico, di
massicce dosi di mercurio nel corpo dei cetacei e dei pesci venduti
nei mercatini di Gallipoli e di Nardò. Non reggono le ipotesi
che l'inquinamento sia esclusivamente di provenienza settentrionale
(ENICHEM di Foggia) o che addirittura l'intera operazione "spiaggiamento"
sia stata orchestrata provocatoriamente dalle leghe ambientaliste
della provincia. Sono accuse che sollevano inutili polveroni, in mancanza
di prove certe.
Si dovrebbe, invece, orientare l'attenzione - e le indagini della
magistratura - su alcuni episodi di vandalismo inquinante che sempre
con maggiore frequenza hanno come scenario le coste e le spiagge salentine.
Formulare accuse generiche può servire, e serve, nella gestione
politica degli Enti territoriali, ma non aiuta a risolvere il problema
di un territorio che è, per la prima volta senza divisioni
di campanili o steccati di reciproca indifferenza, totalmente votato
al rischio ambientale. Volendo scendere nei particolari, si può
ipotizzare per i mari salentini un futuro assetto ambientale che presento:
- nella fascia adriatica, una compromissione della costa a causa dell'abusivismo
edilizio, con scarichi abusivi in mare, vista l'indisponibilità
politica di dotare le marine di regolari reti fognanti;
- nella fascia ionica, un inquinamento diretto dell'acqua per il continuo
riversamento di scarichi industriali;
nel Capo di Leuca, punto di incontro dei due mari, un possibile inquinamento
a causa delle chiazze di petrolio provenienti dall'interno e spinte
a rive dal vento di levante. Se questa ipotesi appare una pura illazione,
si vedano i blocchi di cemento armato utilizzati per la nuova strutture
del molo foraneo del porto di Leuca, ricoperti, a poche ora di distanza
dalla posa in mare, da sostanze oleose e da catrame. in ogni caso,
l'inquinamento da transito di petroliere e navi-containers riguarda
gran parte del litorale adriatico. Al di là della vicenda Cavtat,
sono quasi settimanali le segnalazioni di sversamenti effettuati al
largo che i venti trasportano immancabilmente sotto costa. Per la
cronaca, i casi più clamorosi (perché hanno avuto un
seguito giudiziario) risalgono al 1985 e al 1986. Il primo riguarda
la vicenda della nave danese "Divy Tern", che il 16 luglio
1985 transitando al largo di Otranto, scaricò in mare una miscela
ad alta concentrazione di idrocarburi e di paraffina inquinando il
litorale di Porto Badisco (dopo due anni il comandante Reidar e la
compagnia armatrice sono stati condannati ad una ammenda di dieci
milioni di lire, mentre una provvidenziale amnistia li ha salvati
da una condanna per "danneggiamento dell'ecosistema"). Il
secondo, invece, ha avuto come protagonista - inquinante una petroliera
greca, sorpresa da un elicottero (che ospitava in quel momento il
pretore di Otranto, Ennio Cillo) mentre stava ripulendo gli enormi
serbatoi, scaricando le miscele di risulta e i rifiuti proprio in
mare.
Complementare a questi due diversi tipi di inquinamento delle acque
del mare (da una parte, l'abusivismo edilizio in zone prive di depuratori,
dall'altra il rilascio di materiale chimico da parte delle industrie)
è l'attività della pesca di frodo. Anche per questa,
in provincia di Lecce, sembra valere la legge dei due mari. Nell'Adriatico,
infatti, si pratica ancora largamente la pesca a strascico. è
sufficiente, per rendersi conto della portata di uno scempio criminale
della fauna marina, percorrere, dalle otto di mattino fino a mezzogiorno,
la costa da Otranto a Castro, muniti se possibile di un buon binocolo.
Le barche - solitamente pescherecci con impianti rice-trasmettitori
sintonizzati sulla frequenza della Capitaneria di Porto di Gallipoli
-procedono pigramente, appaiati, trascinando reti che graffiano i
fondali e smantellano le colonie della riproduzione. Fino a pochi
anni fa, i pirati erano del posto. Oggi, di fronte alla crisi del
settore (in provincia di Lecce i pescatori "professionisti"
ancora in attività sono poco più di 400) e, soprattutto,
a una nuova generazione di pescatori che hanno fatto proprio l'invito
a concedere il "riposo marino" alla fauna ittica, le reti
a strascico parlano barese. Trani e Molfetta, in primo luogo, dopo
che i porti abruzzesi e molisani hanno decretato la serrata contro
le flottiglie pugliesi. Dietro i baresi, i siciliani, al punto che
gli stessi pescatori locali ora devono affrontare una pericolosa concorrenza,
che all'uso indiscriminato delle sciabiche ha aggiunto il contrabbando
delle sigarette e quello più redditizio, nascosto nel ventre
molle del pesce, della droga.
Nel versante ionico, dominano ancora, invece, i bombaroli: una strage
quotidiana, a colpi di gelatina e di tritolo, che avviene sotto il
naso dell'autorità di polizia. I luoghi della mattanza sono
sempre gli stessi: Marina di Mancaversa (Taviano), Torre Suda (Racale),
Torre Pizzo (Gallipoli), Torre Pali (Salve), Torre Mozza (Ugento),
Torre Vado (Marciano di Leuca), Capo San Gregorio, nei pressi di Santa
Maria di Leuca. La tecnica è collaudata e sicura: tre imbarcazioni,
una delle quali per il trasporto delle bombe, le altre due in posizione
di appoggio logistico e di copertura contro eventuali ficcanaso, un
complice sulla riva per segnalare, via radio, un possibile controllo
della finanza da terra. In caso di pericolo, il materiale esplosivo
può essere inabissato nel giro di cinque secondi, mediante
appositi pesi. Il resto è storia fin troppo nota. Il pesce
bombardato arriva regolarmente nelle pescherie e nessun controllo
sanitario accerterà mai la presenza nelle corni di nitrato
potassico, o di acido picrico, o di polvere nera.
In ogni caso, il ricorso agli esplosivi appare anche qui in sensibile
flessione, perché sostituita dalla pesca illegale che fa ricorso
alle sostanze velenose immesse nell'acqua.
La varietà dei prodotti è degna di un laboratorio chimico:
timo, salice frantumato, tuberi di ciclamino, cloro, pasta avvelenata
con funghicidi, cloruro di calcio, rizoma di piperita, scariche elettriche
mediante elettrodi. Da qualche anno ha fatto la sua comparsa anche
l'ipoclorito di potassio, utilizzato nel tratto di costa tra Torre
Chianca (Porto Cesareo) e Torre Colimena (Manduria), secondo quanto
denunciato alle autorità di polizia e alle Procure della Repubblica
di Lecce e di Taranto dal WWF-sezione di Veglie nel dicembre '85.
Un quadro, molto approssimativo, della salute del mare salentino e
delle cause di inquinamento potrebbe essere il seguente:
Ma il nuovo inquinamento, quello degli anni Novanta tanto per intenderci,
non si ferma qui. l'aggressione dell'ambiente trova i suoi punti di
forza nell'interno della Provincia, dove è esploso in tutta
la sua drammatica portata il problema delle discariche pubbliche e
quello più urgente del disinquinamento delle aree urbane e
periferiche invase da tonnellate di rifiuti. Secondo stime ufficiali
della Provincia di Lecce, le discariche abusive sono oggi in Salento
più di cento: in pratica una discarica non autorizzata (o in
ogni caso priva dei requisiti di funzionamento imposti dalla legge)
per ogni Comune della provincia. Se a queste si aggiungono gli spazi
verdi intercomunali adibiti a contenitori di immondizie dai soliti
ignoti, la percentuale di aree incontaminate si riduce di un buon
40 per cento. Il fenomeno ha una sua vitale importanza, non solo per
quanto riguarda il rilascio di diossina nell'aria durante le operazioni
di incenerimento dei rifiuti: diossina altamente tossica per alcuni
animali (piccoli mammiferi e uccelli) e, per quanto con tossicità
indubbiamente minore sull'organismo umano, sempre in grado di produrre
danni nel lungo periodo, soprattutto a livello epatico, con forti
sospetti di attività cancerogena e teratogena. Altre implicazioni
di rilievo infatti sono sottolineate dalla sempre più ridotta
distanza delle discariche improvvisate dai centri urbani e da quei
pochi corsi d'acqua che punteggiano la siccità salentina. Nel
giro di pochi mesi, per esempio, è stato ridotto a una fogna
a cielo aperto il canale ldume, presso Torre Chianca, nel letto del
quale sono stati riversati liquami con sostanze non biodegradabili,
rifiuti e materiale di risulta dai cantieri edili della zona. Di qualche
mese fa è inoltre l'invito formale dell'Assessorato ai Lavori
Pubblici della Provincia ai Comuni perché provvedono a sgombrare
le strade provinciali dai rifiuti e dai depositi inquinanti.
Del resto, se le strade sono ormai immensi cimiteri di rifiuti, segnali
poco incoraggianti provengono da quei pochi depuratori della provincia.
Quello di Lecce, in cui confluisce l'intera rete fognante della città,
rilascerebbe nel mare di San Cataldo ammoniaca e colibatteri in misura
superiore ai parametri di sicurezza prescritti dalla tabella A della
legge Merli. Allo stesso modo inaffidabili sono ormai considerati
i depuratori di Nardò, di Ugento, di Tricase e di Otranto.
Per tutti si prospetta comunque la paralisi totale delle operazioni
di smaltimento e depurazione delle acque reflue se il braccio di ferro,
tra operai e società concessionaria del servizio per il miglioramento
delle condizioni igieniche all'interno degli stabilimenti, non sarà
risolto adeguatamente. In tal caso, si andrebbe incontro ad una catastrofe
ambientale senza precedenti.
Per quanto riguarda, invece, i rifiuti solidi urbani, è cronaca
di questi giorni il "no" ufficiale del Comune di Lecce a
divenire sede di un megasmaltitore dei rifiuti della provincia. Avevano
dato parere contrario precedentemente Lequile, Galatina e Soleto.
Sferzante è stato il commento della Giunta provinciale: "Il
Comune capoluogo non ritiene di dover divenire, nemmeno per la bonifica
integrale dell'ambiente, un punto di riferimento e di compartecipazione
della politica amministrativa coordinata, unica salvezza per il futuro
degli enti locali". In realtà, non si tratta solo di limitate
visioni campanilistiche o di scarsa lungimiranza politico-amministrativa.
La verità èche quello ecologico sarà il più
vantaggioso affare del Duemila per gli imprenditori e per la politica
salentina. Un business di miliardi, che ha già attirato l'attenzione
di una nuova finanza in doppiopetto, che manovra dietro le quinte,
e per la quale è più conveniente la realizzazione magari
di tre megasmaltitori (a Nord, al Centro e a Sud della provincia)
al posto di una sola struttura, che garantirebbe una maggiore economicità
della gestione e della manutenzione dell'impianto. Un sospetto che
ha fatto breccia anche nella ruvida scorza di riserbo di Giacinto
Urso, presidente dell'Amministrazione Provinciale: "E' paradossale,
per non dire altro, considerare gli smaltitori impianti pericolosi
e nocivi quando poi hanno la precisa funzione, in chiave razionale
e moderno, di assorbire le cento discariche incontrollate che avvelenano
il nostro territorio, provocando una permanente e neppure tanto occulta
emergenza. è anche strano che le riserve politiche attraversino
tutti i partiti. Avanza il sospetto che, oltre alle ragioni di mediocre
cucina politica, vi possa essere alla base di determinate immotivate
ripulse il groviglio di diffusi interessi che vanno dalle progettazioni
faraoniche ai consorzi utili per un periodo di transizione".
La vera, più immediata, emergenza è dunque costituito
oggi dallo smaltimento dei rifiuti, dalle discariche abusive e dalla
depurazione delle acque reflue. E il quadro è destinato ad
avere colori ancora più cupi se all'emergenza-rifiuti si abbinerà
nel prossimo futuro una ben più massiccia aggressione dell'ambiente
all'interno della città e dei paesi. Un primo campanello di
allarme è suonato anni fa, in sede regionale, anche se il timbro
è stato poco convincente in sede decisionale. Per la Regione,
il grado di saturazione dell'ambiente fisico in provincia di Lecce
era il seguente:
Formulando questo scenario, in ogni caso, la Regione Puglia non ha
tenuto conto, ed è bene precisarlo, degli effetti sull'ambiente
delle industrie maggiormente inquinanti che sono presenti ed operano
sul territorio della provincia. Le analisi degli uffici tecnici regionali
si limitano a considerare l'incidenza sul territorio della popolazione
e dell'inquinamento derivante da possibili fenomeni di iperagglomeramento
o di eccessivo sfruttamento delle risorse ambientali nei singoli Comuni.
Sfugge a questa impostazione o portata del l'inquinamento industriale,
che rappresenta oggi il principale problema che si pone di fronte
all'opinione pubblica salentina, sballottata nel marasma delle cifre
che la vogliono perennemente nei bassifondi delle classifiche nazionali
delle ricchezze provinciali, lusingata da quanti ancora premono alle
porte dei ministeri e, in nome del nuovo meridionalismo, cercano di
legittimare una nuova, forse illusoria, industrializzazione. In nome
della quale, già troppi danni sono stati arrecati all'ambiente
e alla salute dei cittadini.
Senza considerare i guasti territoriali irreversibili cagionati alle
foreste e alle aree verdi (le prime si sono ridotte negli ultimi trent'anni
di due terzi, mentre le seconde sono sottoposte all'aggressione delle
cave e delle torbiere, nonché allo sventramento delle ruspe
di un abusivismo sempre pronto al pentimento), basterebbe aprire gli
occhi su di una realtà che spesso sfugge alle statistiche:
in provincia di Lecce sono in aumento esponenziale i tumori al polmone,
le affezioni alle vie respiratorie, le asme bronchiali, il cancro
al fegato. Qualità della vita in rapido deterioramento? Frattura
del rapporto uomo-ambiente, con variabili oggi impazzite, che la scienza
medica e gli screening sul territorio non riescono a controllare?
L'una e l'altra sicuramente, mentre rimane sospesa, come una spada
di Damocle, la constatazione di Giuseppe Perrone, pediatra di Galli
poli fatto oggetto, negli ultimi mesi, di numerosi attentati dinamitardi,
a causa delle sue ricerche sulle malattie "da industria inquinante"
a Gallipoli: "Da cinque anni a questa parte, le difficoltà
alle vie respiratorie dei bambini sono aumentate del 50%. Non voglio
essere precipitoso a condannare la Distilleria del Salento, ma provi
a dare uno sguardo agli alberi che crescono nelle sue vicinanze. Foglie
gialle, bruciate dall'anidride solforosa, dal pulviscolo e dal rilascio
di materiale inquinante. Respirare per dieci minuti quell'aria, equivale
a fumare dieci sigarette, una al minuto. Ai bambini, domani, .dovremo
spiegare anche questo".
Dopo il condono
non più abusivi
Caro Direttore,
avremmo preferito, e di certo sperato, di non dover scrivere mai questa
lettera sperando in una pacifica soluzione del nostri problemi, ma
la situazione attuale non lascia alternative. Veniamo ai fatti.
Da circa nove anni abbiamo edificato delle case (ormai 400), in zona
"Canuta" sulla costa Adriatica a metà strada tra
le più note Casalabate e Lendinuso; se è vero che abbiamo
costruito le nostre abitazioni abusivamente su terreno non edificabile,
è pur vero che beneficiando del condono edilizio siamo ormai
perfettamente in regola e quindi ci sentiamo autorizzati a richiedere
beni di prima necessità come l'elettricità e l'acqua
potabile del tutto assenti. Naturalmente questi beni sarebbero i primi
di una lungo serie, per una vita sana e civile nella nostra zona,
come strade asfaltate, spiaggia pulita e non ultimo un pronto soccorso.
Tutte queste richieste sono state presentate agli amministratori del
Comune di Lecce, competente per territorio, i quali però si
sono sempre mostrati sordi alle nostre esigenze liquidandole con fare
demagogico. Siamo certi che almeno ora, se voi attraverso la vostra
testata pubblicherete quanto detto, non potranno ignorarci ancora
a lungo. Distinti saluti.
Seguono le firme
(Dal Quotidiano di Lecce, "Lettere al giornale", 28 luglio
1987)
Un fiume di
veleni
I dati forniti
dall'Istituto Geologico dell'Università di Bari hanno giustamente
sollevato non poche preoccupazioni, in primo luogo tra le Federazioni
di categoria, Assindustria e Confcommercio in testa. Ebbene, sarebbe
il caso di tener presente che l'azienda leader del diserbante è
la SIAPA (Società italoamericana prodotti antiparassitari),
sede legale a Roma, che controlla, secondo stime dell'Assochimica,
il 16% del mercato interno, compreso quello salentino. Il 100% delle
azioni Siapa appartiene alla Federconsorzi, nella quale la Coldiretti
controlla 45 dei 74 consorzi aggregati (gli altri 29 fanno capo alla
Confagricoltura di Stefano Wallner): in poche parole, la Coldiretti
regola e decide il flusso di veleno che finisce nei campi e nelle
aziende degli agricoltori, controllando un mercato di inquinamento
che danneggia non solo i propri iscritti ma anche tutti coloro che
vengono a contatto, diretto o indiretto, con i pesticidi. Che questa
sia la linea ufficiale della Coldiretti e della Siapa (la Confagricoltura
ha preso prudentemente le distanze dopo lo scandalo dell'acqua all'atrazina)
è facilmente desumibile da quanto dichiarato al settimanale
Il Mondo (13 aprile 1987) dal direttore commerciale della Siapa, Giovanni
Pierucci: "In Italia il consumo di fitofarmaci è ancora
insufficiente, e lo dimostrano le rese per ettaro, inferiori a quelle
di altri Paesi. La frammentazione in piccole aziende, tipica dell'agricoltura
italiana, ci penalizza. Noi stimiamo l'attuale consumo di pesticidi
al 40% delle teoriche potenzialità del mercato italiano: l'obiettivo
è di raggiungere in breve tempo il livello del 60%". Sulla
stessa linea è Arcangelo Lobianco, presidente della Coldiretti:
"L'importante è che non si criminalizzino gli agricoltori,
che hanno bisogno dei pesticidi per coltivare con risultati soddisfacenti.
D'altra parte, se queste sostanze sono in commercio è perché
la scienza le ha prodotte e le autorità le hanno permesse.
E a questo punto non ha importanza chi le produce o chi le vende,
perché si tratta solo di dare risposta a una legittima domanda
di mercato". Quello che né Lobianco né Pierucci
hanno sottolineato è che se nella coltivazione dei mais l'uso
di atrazina è cresciuto del 32% in quattro anni (1980- 1985),
la resa per ettaro ha registrato un irrisorio + 1,6%. D'altra parte,
sarebbe difficile spiegare perché, pur essendo la superficie
agricola italiana tutto sommato modesta (16,3 milioni di ettari, la
metà di quella francese) l'Italia è il sesto mercato
mondiale per i pesticidi, con un incremento annuo del 4,5% (per i
diserbanti un + 13% nel 1986, pari a 32.000 tonnellate).
La città
assediata Storia di una vergogna
Troppe sono state
le denunce, gli esposti, le richieste di intervento succedutesi per
più di dieci anni da parte di organi di polizia, associazioni,
cittadini, per poter spiegare come mai esse siano state pressoché
sistematicamente ignorate, dando all'opinione pubblica la sensazione
(che spesso trova riscontro nei fatti descritti) che il funzionamento
dell'impianto dovesse proseguite nonostante le numerose violazioni
di legge.
Riportiamo sinteticamente quanto in ns. possesso; queste denunce,
provenienti da persone che mostrano di avere ancora fiducia nella
giustizia e nelle istituzioni, rappresentano un grave atto di accusa
nei confronti di tutte quelle autorità che ignorando questi
stimoli genuini della popolazione hanno dimostrato inerzia, inefficienza,
insensibilità democratica, disprezzo dei diritti elementari
della popolazione. Per meglio inquadrare la situazione di degrado,
che si protrae da tempo, si riportano segnalazioni risalenti alla
gestione Costa.
26/6/76 Il Comune di Gallipoli comunica al Medico provinciale: "Viene
segnalato dagli abitanti della zona di espansione urbana di via Lecce
S.S. 101 che lo stabilimento della distilleria Costa non sia munito
di idonei neutralizzatori di fumo e di depuratori delle acque di scarico
a mare".
1/4/77 Un telegramma della Società Riva Levante al Comune di
Gallipoli, al Prefetto e al Medico provinciale denuncia "grave
situazione igienico-sanitaria causa esalazioni venefiche Distilleria
Costa pericolo intossicazione nostre maestranze che sono in agitazione
permanente".
21/4/77 Su richiesta di intervento dell'Ufficio Sanitario di Gallipoli,
il Direttore del LIP Caravella risponde che "per un esame obiettivo
del fumi (anidride solforosa e pulviscolo atmosferico che non ho visto),
sono necessari uomini e mezzi che questo Reparto Chimico non dispone".
16/6/77 L'Ufficiale Sanitario di Gallipoli comunica al Sindaco: "...
malgrado gli accertamenti e le assicurazioni da parte della Ditta
circa la depurazione, l'innocuità e l'abbattimento dei fumi
stessi, gli inconvenienti sono rimasti. Le attrezzature depurative
e gli abbattitori di fumo in atto, non vi è dubbio, sono insufficienti
e inadeguati. Grande quantità di fumi, nelle giornate umide
con bassa pressione atmosferica, copre per largo raggio l'abitato
circostante, con grave nocumento alla pubblica salute".
22/11/82 la ditta Costa comunica al Comune di Gallipoli che durante
lo svuotamento di un silos di farina di buccia d'uva una parte di
essa è stata trasportata dal vento fuori dallo stabilimento.
6/10/83 Per un altro incidente notevoli quantità di farina
di buccia d'uva fuoriescono dallo stabilimento.
7/10/83 Il Commissariato di P.S. di Gallipoli segnala al sindaco che
"viene lamentato da parte di numerosi condomini non solo adiacenti
alla fabbrica, ma anche ubicati all'altezza di Corso Italia e Via
Milano, che l'attività della Distilleria Costa continua ad
imbrattare, con le scorie, balconi, terrazze e prospetti di edifici
rendendo peraltro impossibile alle famiglie il normale svolgimento
delle quotidiane attività".
22/10/83 L'Ufficiale Sanitario di Gallipoli diffida la Distilleria
del Salento (lettera per conoscenza a Regione, Prefetto, Medico provinciale,
Sindaco e Pretore) ad adottare tutte le misure per ridurre l'emissione
dei fumi nell'atmosfera dovuti "ad un sistema di lavorazione
inadeguato alle possibilità tecniche dell'impianto ed alla
inosservanza delle prescrizioni sanitarie che regolano tale industria
insalubre inopportunamente insediata in centro abitato".
19/12/83 Il Direttore del LIP minimizza l'inquinamento; in una relazione
al Medico provinciale dichiara: "... è stata notata la
fuoriuscito da questo camino (quello più alto) di abbondanti
fumi bianchi costituiti prevalentemente da vapore acqueo proveniente
dall'essiccamento delle vinacce; dagli altri due camini si è
notato una lievissima emissione molto sporadica di fumi che comunque
si dissolvevano molto rapidamente". Per le polveri e l'anidride
solforosa dichiara di non avere le attrezzature neccessarie per i
rilevamenti.
10/5/84 Un esposto di 104 cittadini al Sindaco, al Pretore e all'Ufficiale
Sanitario di Gallipoli lamenta ancora una volta scarichi tossici (fumi
e pulviscolo), che aumentano di notte, con conseguenze per l'apparato
respiratorio (affezioni rino-faringo-bronchiali, disturbi allergici,
ecc ... ). Si chiede la chiusura dell'impianto.
3/12/84 I Carabinieri di Gallipoli, in seguito a denunce di cittadini,
inviano alle autorità locali un rapporto giudiziario in cui
non escludono che dall'impianto possono essere immesse nel mare sostanze
inquinanti nocive per la fauna marina.
18/7/85 la Capitaneria di Porto accerta la presenza di residui della
lavorazione provenienti dagli scarichi della Distilleria per un'ampiezza
di 300 metri con evidente inquinamento in otto, chiede al Sindaco
di apporre il divieto di balneazione e diffida la Distilleria a sospendere
gli scarichi. Informa Prefetto e Pretore.
24/12/85 Una relazione della Polizia Urbana al Pretore, al Commissario
Prefettizio e al Responsabile della USI. evidenzia il preoccupante
aumento di fumi e pulviscolo, che si deposita su terrazze e balconi,
con odori nauseabondi, mentre le acque marine assumono colorazione
rossastra con grave pregiudizio per la fauna marina.
29/4/86 Un articolo della Gazzetta del Mezzogiorno riporta la notizia
di una comunicazione giudiziaria al titolare dell'impianto, Antonio
Marrone, in relazione a truffe alla CEE con il vino al metanolo.
7/5/86 Denuncia di cittadini al Sindaco, al Pretore, all'Ufficiale
sanitario, alla Procura per il grave inquinamento del mare e dell'atmosfera.
16/6/86 Ennesimo esposto di cittadini, inviato anche al Prefetto,
al Presidente Regionale, ai Ministri dell'Ecologia e della Sanità.
24/7/86 La Capitaneria di Porto individua nella zona marina antistante
la Distilleria intense esalazioni maleodoranti e invita il Sindaco
ad intervenire.
14/8/86 La Lega per l'Ambiente di Gallipoli chiede con R.R. alle autorità
(Sindaco, Pretore, LIP, USL, Capitaneria) di verificare la regolarità
delle procedure autorizzative, la rispondenza degli scarichi alla
legge Merli, denuncia l'assenza del parametro temperatura nelle analisi
del LIP, chiede di conoscere le caratteristiche chimiche e tossicologiche
delle sostanze emesse ed i suoi possibili effetti sull'uomo e sull'ambiente,
l'adeguatezza degli impianti di abbattimento degli inquinanti alle
norme. Nessuna risposta.
16/9/86 Denuncia della Capitaneria di Porto per la presenza di chiazze
di colorito rossastro con sostanze in sospensione nell'acqua di mare
antistante la Distilleria di sicura provenienza della stessa. Si effettuano
prelievi e si inviano al LIP.
24/9/86 Le analisi eseguite dal LIP sui campioni prelevati dalla Capitaneria
di Porto indicano finalmente che l'acqua è inquinata. L'impianto
continua a funzionare.
5/10/86 Una grave moria di pesci colpisce un vasto braccio di mare
intorno all'impianto per chilometri; l'acqua appare torbida e rossastra.
Intervengono le autorità e si prelevano campioni di acqua e
di pesce.
12/10/86 La popolazione chiede con una manifestazione e un corteo
per le strade di Gallipoli la chiusura della Distilleria.
21/10/86 La Lega per l'ambiente chiede al Pretore di intervenire per
accertare tutte le responsabilità connesse con la moria. A
tutt'oggi nessuno è stato perseguito.
27/10/86 Le analisi di prelievi eseguiti l'8 ottobre sugli scarichi
nel Laboratorio del Dott. Ciardo Francesco su iniziativa della Lega
per l'ambiente, questa volta senza preavvisare i conduttori dell'impianto,
indicano che "i parametri C.O.D., temperatura, sostanze sospese,
ph, sono superiori a quelli ammessi dalla Tabella A della legge 10/5/86,
n. 319". I dati sono riportati dalla stampa.
27/10/86 Una relazione del responsabile USL dott. Errico, esclude
che le responsabilità della morìa siano da ricercare
nell'Ospedale o in altri insediamenti, e punta il dito sulla Distilleria.
27/10/86 Un'altra R.R. della Lega per l'ambiente diffida USL, Sindaco,
Pretore, LIP, ad accertare la nocività delle emissioni e ad
eliminare i fattori di rischio.
29/11/86 Un rapporto del Comando VV.FF. individuo 30 irregolarità
nei sistemi di sicurezza e prevenzione incendi.
4/11/86 Finalmente la USL chiede alla Distilleria una documentazione
dettagliata del ciclo produttivo.
26/2/87 Un sylos contenente vinaccia in fermentazione esplode; una
tragedia è evitato per puro caso. Il sylos risultava ufficialmente
vuoto, sulla base di provvedimenti adottati sia dal Pretore che dal
Sindaco. L'assessore Grasso dichiara al Quotidiano (27/2/87): "Quando
adottammo il provvedimento di chiusura, ci furono chieste dalla ditta
72 ore per svuotare i contenitori e smaltire tutto il materiale. Delle
due l'una, o i sylos non sono stati svuotati o, nel lasso di tempo
tra la chiusura e la riapertura della distilleria, il lavoro all'interno
è continuato nonostante il decreto".
5/3/87 Un telegramma della Lega per l'ambiente e del Comitato Cittadino
diffida la Provincia dal concedere l'autorizzazione allo scarico senza
adeguate garanzie; l'autorizzazione viene concessa.
3/4/87 Una relazione al Sindaco del Dott. Errico della USL giudica
sansa, farina di buccia d'uva e olio combustibile "materiale
non idoneo ad alimentare combustioni in insediamenti produttivi insistenti
nel perimetro urbano".
24/4/87 Con un fonogramma la Capitaneria di Porto avverte Prefettura,
Pretura e Provincia che militari dipendenti hanno accertato nella
serata del 23 e nella mattinata del 24 maggio "presenza chiazza
acqua marina di colore nerastro con sostanze in sospensione certamente
provenienti da citata Distilleria".
9/5/87 Una vera e propria pioggia di residui di lavorazione sommerge
i quartieri di Gallipoli circostanti l'impianto sotto un fitto strato:
la popolazione scende esasperata nelle strade e blocca per alcune
ore la Statale. Un'ennesima ordinanza sindacale, poi sospesa dal TAR,
blocca temporaneamente l'impianto.
12/5/87 Diecimila persone, tutta la cittadinanza compatta, ribadisce
il NO all'impianto con una manifestazione e uno sciopero generale.
14/7/87 Un esposto di abitanti del complesso "Riva Levante"
al Pretore, al Commissario di P.S., al Comando C.C., alla Capitaneria
di Porto, al Sindaco, alla USL, denuncia che "a causa delle prolungate
immissioni di fumi e vapori maleodoranti l'aria è diventata
a malapena respirabile e procura disturbi alle vie respiratorie, agli
occhi e alla salute in genere"; che "insieme ai suddetti
fumi fuoriesce pulviscolo nero che si deposita su balconi e terrazze
penetrando nelle abitazioni anche con gli infissi chiusi", che
"lo scarico delle acque provoca la morte della flora e della
fauna marina e determina la colorazione scura della scogliera".
28/7/87 Un rapporto del responsabile USL dott. Errico sottolinea l'incompatibilità
della fabbrica con il centro abitato e chiede l'intervento del Sindaco
sulla base degli art. 216, 217 delle leggi sanitarie.
2/8/87 Un'altra grave morìa di pesci colpisce il litorale presso
la Distilleria, si ripete il copione del 5 ottobre '86. L'acqua è
rossastra e torbida. L'impunità si profila anche questa volta;
anzi, i legali della distilleria denunciano chi osi mettere in relazione
la morìa con gli scarichi dell'impianto; il disprezzo dei diritti
dell'ambiente e l'umiliazione delle istituzioni hanno raggiunto il
massimo. Ma. la storia della vergogna continuo.
(Lega per l'ambiente e Comitato Cittadino per la chiusura della Distilleria,
La Distilleria di Gallipoli - Una vergogna per il Salento, "Libro
bianco", Gallipoli, settembre 1987, pp. 13-20).