§ Studi valloniani

Dal Rinascimento al Romanticismo




Ferruccio Monterosso



Aldo Vallone - nato a Galatina il 1° novembre 1916; ordinario nell'Università di Lecce prima, di Napoli poi - appartiene senza dubbio a quella ristretta cerchia di italianisti che più contano. Poiché non ci è qui possibile, per ragioni di spazio, ricordare neppure sommariamente le centinaia di titoli delle sue pubblicazioni, dobbiamo limitarci a notare che dal Due al Novecento non c'è (si può dire) argomento o autore che egli non abbia esplorato, in estensione e al tempo stesso in profondità, e sempre con originale sicurezza di risultati. Tuttavia, scorrendo la sua eccezionale bibliografia, il nome che più insistentemente ricorre è il nostro maggior poeta, Dante, e certo Vallone si pone - fra i dantisti - assolutamente come uno dei più autorevoli. Dei suoi numerosissimi saggi danteschi, citiamo qui: Studi sulla "Divina Commedia" (1955), La critica dantesca nell'Ottocento (1957), La critica dantesca nel Settecento (1961), La prosa della "Vita nuova" (1963), L'interpretazione di Dante nel Cinquecento (1969), Lettura interna delle "Rime" di Dante (1972).
Qualche tempo fa l'editore Liquori (via Mezzocannone 19, Napoli) ha dato alle stampe una stupenda raccolta di saggi valloniani, Dal Rinascimento al Romanticismo, pp. 369, (nella collana diretta da Giorgio Petrocchi, un altro Grande dell'italianistica contemporanea). Il I capitolo, "Cortesia" e "nobiltà" nel Rinascimento, è già indicativo di una delle linee cui si ispira il metodo critico di Vallone, ossia il rifiuto d'una esegesi limitata ad intendere i problemi letterari come fatti puramente di stile: una impostazione di questo genere (secondo infatti il Nostro) comprometterebbe gravemente la possibilità d'interpretare l'opera d'arte nella vastità ed importanza dei valori di cui è ricca, in quanto non permetterebbe di cogliere adeguatamente i suoi rapporti con la società e col tempo. Si prenda ad es. la nozione appunto di nobiltà e cortesia: essa è intesa - nel periodo che va dal Petrarca al Tasso, ossia nel Rinascimento - in un senso completamente diverso da come era assunta nell'epoca compresa fra i provenzali e Dante. Dal Tre al Cinquecento infatti si registrano avvenimenti importanti, quali: il passaggio dal feudalesimo al Comune e alla Signoria; l'abbandono della terra da parte di tanti suoi residenti tradizionali che sperano in più facili e rapidi guadagni; il ceto emergente dei recenti ricchi che manipolano il denaro come nuova forza della società (ricordate in proposito "la gente nuova e i subiti guadagni" di dantesca memoria?); la borghesia che presta soldi, la nobiltà che cede onori e titoli. Proprio la nobiltà scade, di conseguenza, dalla sua origine divina, e l'uomo diventa nobile per suo merito e grazie al requisito della sua personale e intelligenza. Insomma: un conto sono la nobiltà e la cortesia nel quadro della civiltà cavalleresca e feudale; tutt'altri caratteri esse assumono nella nuova civiltà rinascimentale (e si veda con quanta abbondanza di dottrina e con quale appoggio di ragionate testimonianze il nostro critico spiega fino a pag. 70 gli annessi e connessi del grosso problema).
Una erudizione sottilmente analitica, sapientemente però convogliata in un discorso storico-critico ampio e gagliardo, anima tutto il II capitolo, Avviamento alla commedia fiorentina del Cinquecento. A dire il vero, quell'iniziale vocabolo "avviamento" suona a noi alquanto modesto: perché l'impressione ricavata dalla lettura delle pagg. 71-106 è che l'autore vada ben oltre la fase propedeutica del problema in questione. Infatti, ampliando ed approfondendo le note ricerche - già compiute sul genere comico del sec. XVI - da Croce e Sanesi, Russo e Toffanin, ecc. (impressionanti si rivelano le conoscenze di storia della critica possedute dal Nostro), Vallone ulteriormente illumina lo sfondo (diciamo così, forse non propriamente) sociologico nel quale si pone la commedia cinquecentesca, il rapporto fra trattato e commedia, la suo collocazione fra - da un lato - l'ossequio alla tradizione classica (Plauto e Terenzio) "che accontentava i nepoti del quattrocentisti laudatori del latino" (pag. 76) e - dall'altro - "l'agile spregiudicatezza del volgare" (ivi). Vallone sottopone ad attentissima verifica radiografica l'opera ad es. di Giovanni Maria Cecchi: ma, prima di notomizzare le commedie, fissa la sua ricognizione su due per lo più trascurati saggi minori del fiorentino giustamente considerati "spie della preparazione tecnica e stilistica del nostro commediografo" (pag. 82): Dichiarazione di molti proverbi ecc. e Lezione o vero Cicalamento di Maestro Bartolino a torto accusati da Giulio Dolci di indulgere a "insulsaggini accademiche". Ancora: Vallone utilmente recupera un giovanile saggio del Gentile sul Lasca (p. 80); presentando "l'unica commedia di un autore non letterato", l'Aridosia di Lorenzino de' Medici, rivendica ad essa "un posto a sé" (pagg. 92 sgg.); ristudia con dovizie di proposte critiche Gelli e Firenzuola.
Ma la parte centrale di quest'opera valloniana ("centrale" non solo quanto a posizione diciamo così fisica nel corpo del gran libro, del quale essa occupa- il centinaio di pagine che va dalla 107 alla 203) è la Storia delle idee dal "Caffè" al "Conciliatore": una eccellente rappresentazione in cui affresco, disegno, miniatura, tuttotondo, basso e altorilievo, riflessione e abundantia cordis si integrano a caratterizzare quella vasta fase storica, all'incirca mezzo secolo, che va dal foglio portavoce dell'illuminismo lombardo all'organo ufficiale del romanticismo italiano: due periodici diversi, eppure entrambi portatori di un'idea di cultura non solo letteraria, propugnatori di rinascita economica intellettuale e morale di un popolo politicamente oppresso e culturalmente arretrato, sgretolatori del vecchio accademismo retorico, annunciatori della civiltà moderna e contemporanea.
Purtroppo ci manca qui lo spazio per dare anche un solo rapido resoconto del brillanti risultati ermeneutici cui perviene Vallone. Citiamo solo, telegraficamente, la sua rilevalazione - nel "Caffè" - di caratteri notevoli quali la polemica antiarcadica, la quasi messianica attesa di un rinnovamento non solo della cultura ma anche dalla cultura, l'auspicio della distribuzione delle ricchezze fra molti, la differenza fra la molteplicità del suoi interessi e l'enciclopedismo aristocraticomedievale, il concetto del governo federale-europeo contro il feudale principio monarchico, la prevalenza dell'attenzione per il fondo umano delle cose rispetto alle teorie ed ai principi. Con acutezza Vallone, diversamente dalla critica tradizionale che si era per lo più occupata degli influssi del pensiero francese sul "Caffè", studia la resistenza di quest'ultimo nella nostra cultura (quanto poi al "ConciIiatore", esso esprimerà fra l'altro - rispetto al giornale del Verri -"un'esigenza storicistica più concreta, più calata nella realtà e nella vita", p. 191).
Altre penetranti analisi compie Vallone sul "sepolcralismo" (ripropone fra l'altro il lungo saggio del Bertana Arcadia lugubre), e tratta specifici temi quali: l'aggancio fra l'Ossian del Casarotti ("la prova più aperta ed immediata di un nuovo sentire", p. 130) e la polemica antipuristica del suo celebre Saggio sulla filosofia delle lingue, l'esame e la rivalutazione di Francesco Torti, il riscontro Ossian-Leopardi.
Puntando poi il suo riflettore su una galleria di poeti minori della seconda metà del Settecento, Vallone ne lumeggia connotati poco o punto noti, eppur indicativi di gusti e sensibilità su cui vai la pena di meditare. Ecco così emergere i limiti del Varano attardato al suo petrarchismo bembiano; le più varie e libere aperture del Ceretti e soprattutto del Mazza; i cupi colori del Fantoni (definito dal Russo "arcadegiacobino") che avverte spregiudicatamente la tragica beffa del vivere; la novità dell'attenzione fisica che Alessandro Verri porta sugli oggetti fantastici; gli elogi di letterati italiani dettati dal Pindemonte, elogi non trionfalmente retorici, ma vera e propria ritrattistica morale; la "respirazione accaldata e profonda" (p. 155), propria di certe descrizioni del Bertola; il valore della satira politica del Casti.
Fra gli altri meriti del libro di Vallone va anche segnalata la pubblicazione di alcuni vivaci inediti, oltre che di Giovanni Bovio, anche di Urbano Lampredi (circa il quale il nostro critico addita alcuni tratti rimarchevoli della polemica col Foscolo); e la polemica - nota con sagacia Vallone - in generale dai Baretti in poi significa rientro, dalla retorica evasiva delle vecchie "tenzoni" o "cicalate", nella realtà dei problemi concreti in cui l'uomo professa le sue effettive convinzioni e promuove il rinnovamento suo e della propria epoca.
Ancora a proposito del Foscolo, Vallone a pagg. 162-168 svolge i motivi dell'importanza che la Chioma di Berenice ha nelle vicende della cultura e del gusto fra Sette e Ottocento.
Il volume è completato dal saggio Mostro don Gesualdo nel 1888 e nel 1889 e da un Profilo di Pirandello: che in una sintesi d'un centinaio di pagine - ammirevole equilibrio di evidenza espositiva e di intensa ponderazione - sviscera l'autore agrigentino nelle sue otto componenti di fondo, dall'uomo al pensiero, dal suo posto nella letteratura contemporaneo al poeta, dal novelliere al romanziere, dal commediografo alle didascalie.
In conclusione: un libro variegatamente articolato, eppure saldato unitariamente dalla fedeltà ad una ispirazione severa e nello stesso tempo cordiale, ad una concezione esigente ed impegnata delle umane lettere. lo leggeranno con profitto sia gli studenti sia gli studiosi.

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