§ Bottega delle spezierie

Gigi Specchia, la luna, il facilisco




Antonio Verri



Gigi Specchia. Quando, la prima volta, gli ho comunicato che per la mia inchiesta sugli autori eccessivi non potevo non tener conto di lui, che poteva ben contare sulla disponibilità di "Sudpuglia", Gigi ha subito fatto uno dei suoi soliti timidi, ironici e meravigliati mezzi sorrisi (rare volte sono completi: in queste rare occasioni ridono con lui anche le lenti!), cercando - è molto bravo in questo - in qualche modo di sottrarsi alla mia proposta, di eludere, di riparare altrove. lo ero fermo al suo tavolo: non mi stava andando quella mattina di ricominciare la solita tiritera, le solite cose dette e ridette centinaia di volte, dei tipo "devi osare di più", "devi pensare di più a te" e bla bla.
Poi un po' più sereno, ma sempre pronto a schermirsi, mi fa: Ma come farai ad inserirmi tra gli eccessivi... Stava cedendo. "Sudpuglia", mi dice, mi è familiare, per me è diventata quasi un appuntamento, ma come farai, tra gli eccessivi poi... !
Invece. Gigi Specchia è un eccessivo a tutto tondo. Chi lo conosce può benissimo testimoniare della sua vita interamente, non sto esagerando, assorbita dalla pittura. Niente, ma proprio niente, è più importante di una suggestione cromatica, di una luce o di una tonalità ottenuto, cercata... niente c'è di più importante e niente c'è di più bello che riguardarsi, con una particolare felicità mentale, e, per infinite volte, le opere e gli autori che ama, Ciardo in testa, seguito da Martinez, Flora, Gabrieli, altri; niente altro lo appassiona quanto scoprire letture diverse, tutte sue, delle opere di questi autori per i quali è in piena adorazione: mi preoccupo di aggiungere che questa sua adorazione, questa sua ossessione, è da ascrivere ad una sorto di sconfinato amore per tutto quello che è la storia dei bello salentino che non ad una sua immaturità o ad una suo manìa di epigonismo.
Bene. Gigi Specchia abita un incantevole paesino greco del Salento, Sternatia, paese delle favolose storie di Cesare De Santis e del facilisco, paese di una disponibilità e di una gentilezza tutta greca, ancora quasi intatto, che facilmente e incredibilmente si respira tra le viuzze basolate. Specchia è come incastonato in questo paese, e al volo esplorativo di un grifone, alla zampa alzata per mostrare gli artigli, preferisce il tepore materno, la vista a perdita d'occhio delle sue serre, assaporare la vita e le stagioni che corrono - chissà da quanto - e si corrompono tra la Porta Filìa e la chiesetta-cripta di San Pietro, e San Sebastiano e San Vita, e ancora tra il Palazzo Granafei e il convento del Domenicani, sempre un po' schivo, solitario, a volte distaccato, a volte incerto. Un po' anche lui è come Luigi Gabrieli, pittore in Matino, le decisioni importanti non le prende mai subito o così su due piedi (di Gabrieli si racconta che quando doveva decidere qualcosa di grosso, si portava il tutto a casa e lo faceva vagliare dalle due sorelle: dopo si pronunciava). Può non fare buona impressione questo suo, di Gigi, modo di affrontare i problemi, addirittura qualcuno potrebbe scambiarlo per pavidità, ma così non è: Gigi insegue una sua saggezza, cerca con calma nella sua memoria, ridicolizza le passioni, dignitoso e attento, artefice comunque in questa stupenda sua piccola patria. Ecco, di questi tempi, è eccessivo anche per questo!


I suoi inizi. l'amore per la pittura e per l'arte si perdono nella sua fanciullezza. Le sue prime esperienze. Milano, per trequattro anni a partire dal 1978. Notizie così. Ha frequentato i corsi superiori dell'affresco nella scuola del Castello Sforzesco col maestro Baragatti di Firenze. Densa e certamente importante esperienza nella "Bottega degli Artisti" (che a Milano ha raccolto da sempre artisti di vario genere) col polivalente maestro Vincenzo Gatto, allievo di Romiti, quest'ultimo amico fraterno di Modigliani. Un elogio di Francesco Messina su un bozzetto per una "Pietà". A queste c'è da aggiungere anche altre esperienze di lavoro: lì a Milano faceva scultura, pieno di una buona cultura, ma già dipingeva. Un periodo, questo di Milano, importantissimo, che torna spesso nei suoi discorsi e forse nel suo lavoro. Poi la grande scelta: tornare nel Sud. E' una scelta d'amore e di rabbia che costa sempre tantissimo, perciò è scelta grande. E qui nuovi amori, Ciardo, Martinez, Suppressa, Gabrieli (al quale, mi ripete, non è stato dato quello che merita), altri, e Comi, Bodini, Pagano, conosciuti per la frequentazione dei primi, e lo stupendo Totò Toma. Nuovi amori, sì, ma forse anche troppo sole e troppa solitudine.
Fino a Milano il suo studio, la sua bella avventura, diciamo. A Sternatia comincia la sua ricerca ("quando ho cominciato a fare ricerca non son più stato toccato dalle mode"). E allora Ciardo, che era già un suo punto di riferimento, e allora l'avventura dei paesaggio. Diciamo che per qualche anno la sua pittura ha avuto questo come oggetto: il paesaggio, l'aspetto naturalistico. E Ciardo non poteva essere che la sua scuola.
Altri nomi ancora legati ai suoi discorsi di sempre: Bodini, Corni, i fratelli Barbieri, D'Andrea, proprio nel cuore della più autentica cultura salentina e che dal Salento partiva. Il periodo è notevole per molti, per tutti: c'è chi già operava e nei contatti diretti ha potuto regolare il suo respiro, sublimare le sue cose, c'è poi chi ha in seguito operato, siamo ai nostri giorni, e per i quali la "bella gente" di cui sopra è stata solo l'inizio, un buon sostrato, la sostanza...
Altri amori ancora. Cagli per esempio (scuola romana), per la sua poesia, la sua tecnica, la sua bizzarria. Grande rispetto per l'universalità di Guttuso. Mandorino apprezzato per il suo paesaggio e il suo incantevole colore, un po' meno quando affronta la figura. Insomma, "Deposizione tra mito e storia" (1982), "Apocalisse" (1984), "La cacciata dall'Eden" (1984), non hanno molto a che fare col Mandorino del paesaggi e delle nature morte, col Mandorino che stupendamente risolve tutto col colore, con quel pizzico di modernità e mondanità che ha il suo giallo o il suo blu di prussia. Bene.


Non mi sembra poi tanto sciocco, prima di addentrarmi (per quanto me lo consentono i miei mezzi) nell'opera di Specchia, parlarvi dei suoi discorsi e del nomi che in un certo senso hanno fatto la sua vita. Rispecchiano in fondo le sue scelte: non a caso un discorso sempre presente è Ciardo (quante volte è andato a Gagliano ripercorrendone i passi, chiedendo, frugando nella memoria dei vicini di casa di Don Vincenzino!); non a caso ama Gabrieli, antagonista di Geremia Re alla scuola d'arte, Gabrieli, un po' come lui, sempre schivo, solitario, sempre in disparte, mentre Geremia Re sapeva bene vendere la sua immagine. O non a caso Martinez è uno del suoi discorsi frequenti, un altro dei salentini che all'arte ha dato tantissimo ricevendo sempre pochissimo, Martinez che vive solo, come spesso accade, per cura e testardaggine di un suo nipote, Carlo Minafra, in attesa che almeno nel centenario della nascita (1992) se ne ricominci a parlare...
I Notturni di Gigi. Naturalmente ha cominciato con Ciardo. Quasi in contemporanea consumava altre esperienze come la ricerca delle varie gradazioni di colore nei dodici tasselli della "Vita di un fiore" (e della sua morte); un "Omaggio all'emigrante" (ma anche ad un piccolo paese), una tela vastissima di sei-sette anni fa, abbozzata, disegnata e lasciata incompiuta, anche perché è radicalmente mutata la sua pittura; ancora: quattro o cinque tramonti sulle serre, sulle sue serre, che sono subito da inserire in quanto di bello ci ha dato la scuola paesaggistica salentina. E ancora, tasselli in creta per una credenza, la progettazione di un caminetto, restauri, ceramica, ecc. Fu davanti a questa varietà di interessi, a questa operatività che rischiava di disperdersi in mille temi che Bonea, in visita ai suoi lavori, pur apprezzando, parlò più o meno di facile fuga e di meta non chiara. Gigi da quel giorno mutò rotta, in qualche modo cercò di tenersi sempre al tema (per approdare a due momenti di cui parlerò dopo), anche se dentro continua a pungere quel demone che è proprio di certi nostri artisti (anche una garanzia): il furore artigianale, la paziente e oscura regola che ha sempre accompagnato (è gente che ho conosciuto grazie ai "discorsi" di Specchia) il gallipolino Flora, i galatinesi Toma e Martinez, senza dimenticare poi i leccesi D'Andrea e Michele Massari e Saponaro e altri.
Allora. Graduale passaggio dai Notturni, diciamo 'alla Ciardo', a certi paesaggi pieni di luce ma anche di drammaticità. E poi la luna, Gigi in cerca della Luna, Gigi che esce di sera ad aspettar la Luna (una Luna materna) e a chiedere a Lei chissà che cosa, ossessivamente la Luna. Forse una Luna che lassù in alto gioca col facilisco; forse Gigi, sempre più meravigliato e stupito, che osserva i loro inseguimenti. Forse. Forse.
Una mostra intera sulla Luna, allora, in febbraio '87 alla Biblioteca Provinciale di Lecce, "La Luna del Borboni sulle terre salentine": una tappa, dei suoi Notturni dove Ciardo era stato sì ben assimilato ma anche un po' allontanato, oli strapieni di luce lunare, e blu oltremare, e diverse tonalità di blu, e una luna sempre presente messa lì a dare nobiltà ma anche a tiranneggiare sui paesaggi e le piazze salentine. Appartato, serio e ironico, Gigi, che viveva la mostra come fosse cosa non sua...
Altra fortuna per Specchia: Sternatia. E' un paese di una colossale serenità dove può anche accadere che degli amministratori s'innamorino delle cose della Cultura e le favoriscano in ogni modo. Per esempio, l'impresa compiuta cinque anni fa dall'Amministrazione comunale guidata da Giorgio Tarantino: un volume di Cesare De Santis, "Col Tempo e con la paglia"; poeta in griko, Cesare, genuino e bizzarro custode dei segreti e dei folletti e delle favole di una cultura contadina (morto due anni fa, corrispondente del Rohlfs). E non sporadiche mostre e dibattiti, e le manifestazioni culturali dell'Estate Sternatese, ecc. E Gigi è sempre coinvolto in queste iniziative, dà spessissimo una mano, anche se preferisce non stare mai in primo piano: suoi compagni di cordata e suoi accorti amici e interlocutori sono da sempre Giuseppe Tarantino, che poi è anche il vicesindaco, e Massimo Manera che intanto si fa le ossa a Bologna e che spesso da Bologna porta nuove. (Può anche accadere che un paese corra dietro un sogno: una masseria bianca all'interno dell'abitato che quanto prima dovrebbe trasformarsi per metà in Centro per gli anziani, l'altra metà in Museo d'arte contemporanea. Ci sono degli ostacoli. Superabili).
E il facilisco? Eppure una storia ci deve essere, ci deve essere stata. Qualcuno forse ne sa qualcosa ma, credetemi, è facile qui nascondersi dietro un buon rosso, o in una stanza allegra e vociante affascinare e portare fuori strada il forestiero che con tanta insistenza chiede dei facilisco. Ma è quello che è scolpito sulla bocca di quella cisterna, o quello su quell'angolo di muro verso la piazza?


Divaghiamo ancora un attimo. Una storia ci deve essere, però. Senza cantori ufficiali ma ci deve essere. Grifone, drago o chimera, chiamatelo come volete, ma non può il facilisco non aver angosciato e poi protetto e poi terrorizzato generazioni e generazioni di Sternatia. Oppure il facilisco è solo un folletto dell'aria, una purissima forma che insegue e si fa inseguire dalla Luna ogni volta che Gigi alza il naso al cielo?
Ma torniamo a Specchia pittore. Eravamo tutti sulla luna. Da qui un balzo e allora l'ultima esperienza. Stavolta è la figura al centro del suo interesse. Lo scenario è quello otrantino, ma non è il martirio cristiano che lui canta, èsemmai lo strazio, l'epopea dello strazio, e Otranto con i suoi abitanti e le sue occasioni. Otranto: non poteva non approdarci. Ogni buon autore legato al Salento s'è cimentato con Otranto, basti pensare alla Corti, a Bene, a Bodini, a Della Notte, allo stesso Mandorino, ecc. Lo scenario è quello otrantino, dicevamo, che lo porta, lo avvicina ad una sorta di barbarie umana, ad una sorta di storia del dolore universale (quello che dipinge e disegna può benissimo essere adottato all'invasione afgana come a qualsiasi altra invasione o tragedia), la barbarie dei turchi come barbarie anche moderna, come barbarie anche nei campi di calcio, perché no, o nelle metropoli affollate o nella vita che dovunque soffoca.


E' il segno non netto che in questa ultima fase di Specchia esprime la drammaticità. Il colore completa. Qualche chiazza di luce riporta ai Notturni. E' il segno, stavolta, a lasciare tracce dello sconforto, della disillusione, dell'infelicità, della paura, dell'ossessione, dei grido che forse non esce, di scivoloni immensi e patetici, del facilisco che morde a casaccio, delle fughe tentate, delle impalature le più bizzarre, le più plateali. E' il segno, in questi ultimi lavori sul dolore di Otranto, che narra la perfidia, la scontentezza, la nudità devastata, la lusinga, l'inganno, l'improvviso bagliore, le ore stupide, i giorni lividi, il falso idolo, le più segrete arricciature. Gigi Specchia con la tragedia otrantina ha trovato il suo tema. Non lo abbandonerà tanto facilmente.
Chi conosce bene Gigi sa anche della sua totale disponibilità, della sua fede nell'arte, a qualunque costo, sa del suo stupore, sa della sua solitudine creativa, so che è molto facile per lui - di notte, mentre guarda la Luna -confondersi col facilisco, essere come lui, silenzioso, agilissimo, con la nascosta capacità di meravigliare, sconcertare, ossessionare.
Le trasformazione più impensobili, più radicali, sono possibilissime quando uno, di notte, sulle serre, guarda la Luna inseguita dal facilisco, che, a detta di Borges, ha la paternità dei primi re, è causa di venti e piogge, detentore di tesori immensi, del destino dell'uomo, del corso del fiumi e del ruscelli; il facilisco comanda alle montagne, vive in palazzi scintillanti, si nutre di opali e perle, ha la barba, un'armatura di squame, coda pelosa, bocca sempre aperta, lingua lunga e denti affilati. Ancora (è sempre Borges che parla: e molto probabilmente ha tenuto conto dei facilisco di Sternatia prima di stendere la voce drago nel suo "Libro degli esseri immaginari"): il fiato del facilisco lessa i pesci, arrostiti poi dalle esalazioni dei suo corpo; il facilisco è immortale, provoca vortici e tifoni e bufere che scoperchiano le case e inondano le campagne. Eccetera, eccetera.


E questo solo quando, di notte, Gigi guarda la luna mentre combatte col facilisco. Di giorno, invece, quando non guarda la Luna, è il bravo artista che conosciamo, il grosso disegnatore ("se non si è grossi disegnatori non si sarà mai dei buoni pittori", suona così uno del suoi primi comandamenti) e l'artigiano ingegnoso di buona tradizione. Quando non guarda la Luna è anche di una ospitalità eccezionale, è pronto alle burle purissime, dell'incertezza fa una virtù, è disposto a perdere la sua abituale calma se qualcuno si interessa alle sue opere, indugia facilmente e piacevolmente (permettiamoglielo), e amorevolmente, sui suoi Ciardo, Martinez, Gabrieli, Bodini, Corni, ecc., eroi dei paesaggio, dell'armonia, della trasfigurazione, della lusinga, dei paradosso, della povertà aristocratica, eroi di fughe e di scivoloni, eroi della nudità e di un numero incredibile di ossessioni.
Intanto. Mi accorgo che Gigi Specchio preferisce lavorare duro alla sua epopea otrantina piuttosto che mettermi a conoscenza di due quasi-inviti: Atene e Palazzo Reale a Milano. Sternatia e l'intera sua Amministrazione corre dietro al sogno della masseria bianca. Cesare se n'è andato. Ed era avido di vita. Massimo dice che Bologna non è più quella di una volta, Giuseppe briga con la vita, però trova il tempo per chiedere in giro del facilisco.
E il facilisco? Boh, qui nessuno ne sa niente, e i pochi che potevano dare una risposta ormai non ci sono più. Solo tensione verso l'alto, comunione col sole e col fuoco, purissima forma. Solo i poeti sanno. E Gigi sa. Gigi sa perché è in lui il segreto delle serre, o forse perché è in lui lo sconforto e la menzogna e la solitudine della gente otrantina.
E i vecchi? Niente, loro non sanno niente del facilisco. Però non è forse ci caso che quando domandi loro qualcosa, continuino, muti, a guardare nel cielo correre le nuvole.


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