Gigi Specchia.
Quando, la prima volta, gli ho comunicato che per la mia inchiesta
sugli autori eccessivi non potevo non tener conto di lui, che poteva
ben contare sulla disponibilità di "Sudpuglia", Gigi
ha subito fatto uno dei suoi soliti timidi, ironici e meravigliati
mezzi sorrisi (rare volte sono completi: in queste rare occasioni
ridono con lui anche le lenti!), cercando - è molto bravo in
questo - in qualche modo di sottrarsi alla mia proposta, di eludere,
di riparare altrove. lo ero fermo al suo tavolo: non mi stava andando
quella mattina di ricominciare la solita tiritera, le solite cose
dette e ridette centinaia di volte, dei tipo "devi osare di più",
"devi pensare di più a te" e bla bla.
Poi un po' più sereno, ma sempre pronto a schermirsi, mi fa:
Ma come farai ad inserirmi tra gli eccessivi... Stava cedendo. "Sudpuglia",
mi dice, mi è familiare, per me è diventata quasi un
appuntamento, ma come farai, tra gli eccessivi poi... !
Invece. Gigi Specchia è un eccessivo a tutto tondo. Chi lo
conosce può benissimo testimoniare della sua vita interamente,
non sto esagerando, assorbita dalla pittura. Niente, ma proprio niente,
è più importante di una suggestione cromatica, di una
luce o di una tonalità ottenuto, cercata... niente c'è
di più importante e niente c'è di più bello che
riguardarsi, con una particolare felicità mentale, e, per infinite
volte, le opere e gli autori che ama, Ciardo in testa, seguito da
Martinez, Flora, Gabrieli, altri; niente altro lo appassiona quanto
scoprire letture diverse, tutte sue, delle opere di questi autori
per i quali è in piena adorazione: mi preoccupo di aggiungere
che questa sua adorazione, questa sua ossessione, è da ascrivere
ad una sorto di sconfinato amore per tutto quello che è la
storia dei bello salentino che non ad una sua immaturità o
ad una suo manìa di epigonismo.
Bene. Gigi Specchia abita un incantevole paesino greco del Salento,
Sternatia, paese delle favolose storie di Cesare De Santis e del facilisco,
paese di una disponibilità e di una gentilezza tutta greca,
ancora quasi intatto, che facilmente e incredibilmente si respira
tra le viuzze basolate. Specchia è come incastonato in questo
paese, e al volo esplorativo di un grifone, alla zampa alzata per
mostrare gli artigli, preferisce il tepore materno, la vista a perdita
d'occhio delle sue serre, assaporare la vita e le stagioni che corrono
- chissà da quanto - e si corrompono tra la Porta Filìa
e la chiesetta-cripta di San Pietro, e San Sebastiano e San Vita,
e ancora tra il Palazzo Granafei e il convento del Domenicani, sempre
un po' schivo, solitario, a volte distaccato, a volte incerto. Un
po' anche lui è come Luigi Gabrieli, pittore in Matino, le
decisioni importanti non le prende mai subito o così su due
piedi (di Gabrieli si racconta che quando doveva decidere qualcosa
di grosso, si portava il tutto a casa e lo faceva vagliare dalle due
sorelle: dopo si pronunciava). Può non fare buona impressione
questo suo, di Gigi, modo di affrontare i problemi, addirittura qualcuno
potrebbe scambiarlo per pavidità, ma così non è:
Gigi insegue una sua saggezza, cerca con calma nella sua memoria,
ridicolizza le passioni, dignitoso e attento, artefice comunque in
questa stupenda sua piccola patria. Ecco, di questi tempi, è
eccessivo anche per questo!

I suoi inizi. l'amore per la pittura e per l'arte si perdono nella
sua fanciullezza. Le sue prime esperienze. Milano, per trequattro
anni a partire dal 1978. Notizie così. Ha frequentato i corsi
superiori dell'affresco nella scuola del Castello Sforzesco col maestro
Baragatti di Firenze. Densa e certamente importante esperienza nella
"Bottega degli Artisti" (che a Milano ha raccolto da sempre
artisti di vario genere) col polivalente maestro Vincenzo Gatto, allievo
di Romiti, quest'ultimo amico fraterno di Modigliani. Un elogio di
Francesco Messina su un bozzetto per una "Pietà".
A queste c'è da aggiungere anche altre esperienze di lavoro:
lì a Milano faceva scultura, pieno di una buona cultura, ma
già dipingeva. Un periodo, questo di Milano, importantissimo,
che torna spesso nei suoi discorsi e forse nel suo lavoro. Poi la
grande scelta: tornare nel Sud. E' una scelta d'amore e di rabbia
che costa sempre tantissimo, perciò è scelta grande.
E qui nuovi amori, Ciardo, Martinez, Suppressa, Gabrieli (al quale,
mi ripete, non è stato dato quello che merita), altri, e Comi,
Bodini, Pagano, conosciuti per la frequentazione dei primi, e lo stupendo
Totò Toma. Nuovi amori, sì, ma forse anche troppo sole
e troppa solitudine.
Fino a Milano il suo studio, la sua bella avventura, diciamo. A Sternatia
comincia la sua ricerca ("quando ho cominciato a fare ricerca
non son più stato toccato dalle mode"). E allora Ciardo,
che era già un suo punto di riferimento, e allora l'avventura
dei paesaggio. Diciamo che per qualche anno la sua pittura ha avuto
questo come oggetto: il paesaggio, l'aspetto naturalistico. E Ciardo
non poteva essere che la sua scuola.
Altri nomi ancora legati ai suoi discorsi di sempre: Bodini, Corni,
i fratelli Barbieri, D'Andrea, proprio nel cuore della più
autentica cultura salentina e che dal Salento partiva. Il periodo
è notevole per molti, per tutti: c'è chi già
operava e nei contatti diretti ha potuto regolare il suo respiro,
sublimare le sue cose, c'è poi chi ha in seguito operato, siamo
ai nostri giorni, e per i quali la "bella gente" di cui
sopra è stata solo l'inizio, un buon sostrato, la sostanza...
Altri amori ancora. Cagli per esempio (scuola romana), per la sua
poesia, la sua tecnica, la sua bizzarria. Grande rispetto per l'universalità
di Guttuso. Mandorino apprezzato per il suo paesaggio e il suo incantevole
colore, un po' meno quando affronta la figura. Insomma, "Deposizione
tra mito e storia" (1982), "Apocalisse" (1984), "La
cacciata dall'Eden" (1984), non hanno molto a che fare col Mandorino
del paesaggi e delle nature morte, col Mandorino che stupendamente
risolve tutto col colore, con quel pizzico di modernità e mondanità
che ha il suo giallo o il suo blu di prussia. Bene.

Non mi sembra poi tanto sciocco, prima di addentrarmi (per quanto
me lo consentono i miei mezzi) nell'opera di Specchia, parlarvi dei
suoi discorsi e del nomi che in un certo senso hanno fatto la sua
vita. Rispecchiano in fondo le sue scelte: non a caso un discorso
sempre presente è Ciardo (quante volte è andato a Gagliano
ripercorrendone i passi, chiedendo, frugando nella memoria dei vicini
di casa di Don Vincenzino!); non a caso ama Gabrieli, antagonista
di Geremia Re alla scuola d'arte, Gabrieli, un po' come lui, sempre
schivo, solitario, sempre in disparte, mentre Geremia Re sapeva bene
vendere la sua immagine. O non a caso Martinez è uno del suoi
discorsi frequenti, un altro dei salentini che all'arte ha dato tantissimo
ricevendo sempre pochissimo, Martinez che vive solo, come spesso accade,
per cura e testardaggine di un suo nipote, Carlo Minafra, in attesa
che almeno nel centenario della nascita (1992) se ne ricominci a parlare...
I Notturni di Gigi. Naturalmente ha cominciato con Ciardo. Quasi in
contemporanea consumava altre esperienze come la ricerca delle varie
gradazioni di colore nei dodici tasselli della "Vita di un fiore"
(e della sua morte); un "Omaggio all'emigrante" (ma anche
ad un piccolo paese), una tela vastissima di sei-sette anni fa, abbozzata,
disegnata e lasciata incompiuta, anche perché è radicalmente
mutata la sua pittura; ancora: quattro o cinque tramonti sulle serre,
sulle sue serre, che sono subito da inserire in quanto di bello ci
ha dato la scuola paesaggistica salentina. E ancora, tasselli in creta
per una credenza, la progettazione di un caminetto, restauri, ceramica,
ecc. Fu davanti a questa varietà di interessi, a questa operatività
che rischiava di disperdersi in mille temi che Bonea, in visita ai
suoi lavori, pur apprezzando, parlò più o meno di facile
fuga e di meta non chiara. Gigi da quel giorno mutò rotta,
in qualche modo cercò di tenersi sempre al tema (per approdare
a due momenti di cui parlerò dopo), anche se dentro continua
a pungere quel demone che è proprio di certi nostri artisti
(anche una garanzia): il furore artigianale, la paziente e oscura
regola che ha sempre accompagnato (è gente che ho conosciuto
grazie ai "discorsi" di Specchia) il gallipolino Flora,
i galatinesi Toma e Martinez, senza dimenticare poi i leccesi D'Andrea
e Michele Massari e Saponaro e altri.
Allora. Graduale passaggio dai Notturni, diciamo 'alla Ciardo', a
certi paesaggi pieni di luce ma anche di drammaticità. E poi
la luna, Gigi in cerca della Luna, Gigi che esce di sera ad aspettar
la Luna (una Luna materna) e a chiedere a Lei chissà che cosa,
ossessivamente la Luna. Forse una Luna che lassù in alto gioca
col facilisco; forse Gigi, sempre più meravigliato e stupito,
che osserva i loro inseguimenti. Forse. Forse.
Una mostra intera sulla Luna, allora, in febbraio '87 alla Biblioteca
Provinciale di Lecce, "La Luna del Borboni sulle terre salentine":
una tappa, dei suoi Notturni dove Ciardo era stato sì ben assimilato
ma anche un po' allontanato, oli strapieni di luce lunare, e blu oltremare,
e diverse tonalità di blu, e una luna sempre presente messa
lì a dare nobiltà ma anche a tiranneggiare sui paesaggi
e le piazze salentine. Appartato, serio e ironico, Gigi, che viveva
la mostra come fosse cosa non sua...
Altra fortuna per Specchia: Sternatia. E' un paese di una colossale
serenità dove può anche accadere che degli amministratori
s'innamorino delle cose della Cultura e le favoriscano in ogni modo.
Per esempio, l'impresa compiuta cinque anni fa dall'Amministrazione
comunale guidata da Giorgio Tarantino: un volume di Cesare De Santis,
"Col Tempo e con la paglia"; poeta in griko, Cesare, genuino
e bizzarro custode dei segreti e dei folletti e delle favole di una
cultura contadina (morto due anni fa, corrispondente del Rohlfs).
E non sporadiche mostre e dibattiti, e le manifestazioni culturali
dell'Estate Sternatese, ecc. E Gigi è sempre coinvolto in queste
iniziative, dà spessissimo una mano, anche se preferisce non
stare mai in primo piano: suoi compagni di cordata e suoi accorti
amici e interlocutori sono da sempre Giuseppe Tarantino, che poi è
anche il vicesindaco, e Massimo Manera che intanto si fa le ossa a
Bologna e che spesso da Bologna porta nuove. (Può anche accadere
che un paese corra dietro un sogno: una masseria bianca all'interno
dell'abitato che quanto prima dovrebbe trasformarsi per metà
in Centro per gli anziani, l'altra metà in Museo d'arte contemporanea.
Ci sono degli ostacoli. Superabili).
E il facilisco? Eppure una storia ci deve essere, ci deve essere stata.
Qualcuno forse ne sa qualcosa ma, credetemi, è facile qui nascondersi
dietro un buon rosso, o in una stanza allegra e vociante affascinare
e portare fuori strada il forestiero che con tanta insistenza chiede
dei facilisco. Ma è quello che è scolpito sulla bocca
di quella cisterna, o quello su quell'angolo di muro verso la piazza?

Divaghiamo ancora un attimo. Una storia ci deve essere, però.
Senza cantori ufficiali ma ci deve essere. Grifone, drago o chimera,
chiamatelo come volete, ma non può il facilisco non aver angosciato
e poi protetto e poi terrorizzato generazioni e generazioni di Sternatia.
Oppure il facilisco è solo un folletto dell'aria, una purissima
forma che insegue e si fa inseguire dalla Luna ogni volta che Gigi
alza il naso al cielo?
Ma torniamo a Specchia pittore. Eravamo tutti sulla luna. Da qui un
balzo e allora l'ultima esperienza. Stavolta è la figura al
centro del suo interesse. Lo scenario è quello otrantino, ma
non è il martirio cristiano che lui canta, èsemmai lo
strazio, l'epopea dello strazio, e Otranto con i suoi abitanti e le
sue occasioni. Otranto: non poteva non approdarci. Ogni buon autore
legato al Salento s'è cimentato con Otranto, basti pensare
alla Corti, a Bene, a Bodini, a Della Notte, allo stesso Mandorino,
ecc. Lo scenario è quello otrantino, dicevamo, che lo porta,
lo avvicina ad una sorta di barbarie umana, ad una sorta di storia
del dolore universale (quello che dipinge e disegna può benissimo
essere adottato all'invasione afgana come a qualsiasi altra invasione
o tragedia), la barbarie dei turchi come barbarie anche moderna, come
barbarie anche nei campi di calcio, perché no, o nelle metropoli
affollate o nella vita che dovunque soffoca.

E' il segno non netto che in questa ultima fase di Specchia esprime
la drammaticità. Il colore completa. Qualche chiazza di luce
riporta ai Notturni. E' il segno, stavolta, a lasciare tracce dello
sconforto, della disillusione, dell'infelicità, della paura,
dell'ossessione, dei grido che forse non esce, di scivoloni immensi
e patetici, del facilisco che morde a casaccio, delle fughe tentate,
delle impalature le più bizzarre, le più plateali. E'
il segno, in questi ultimi lavori sul dolore di Otranto, che narra
la perfidia, la scontentezza, la nudità devastata, la lusinga,
l'inganno, l'improvviso bagliore, le ore stupide, i giorni lividi,
il falso idolo, le più segrete arricciature. Gigi Specchia
con la tragedia otrantina ha trovato il suo tema. Non lo abbandonerà
tanto facilmente.
Chi conosce bene Gigi sa anche della sua totale disponibilità,
della sua fede nell'arte, a qualunque costo, sa del suo stupore, sa
della sua solitudine creativa, so che è molto facile per lui
- di notte, mentre guarda la Luna -confondersi col facilisco, essere
come lui, silenzioso, agilissimo, con la nascosta capacità
di meravigliare, sconcertare, ossessionare.
Le trasformazione più impensobili, più radicali, sono
possibilissime quando uno, di notte, sulle serre, guarda la Luna inseguita
dal facilisco, che, a detta di Borges, ha la paternità dei
primi re, è causa di venti e piogge, detentore di tesori immensi,
del destino dell'uomo, del corso del fiumi e del ruscelli; il facilisco
comanda alle montagne, vive in palazzi scintillanti, si nutre di opali
e perle, ha la barba, un'armatura di squame, coda pelosa, bocca sempre
aperta, lingua lunga e denti affilati. Ancora (è sempre Borges
che parla: e molto probabilmente ha tenuto conto dei facilisco di
Sternatia prima di stendere la voce drago nel suo "Libro degli
esseri immaginari"): il fiato del facilisco lessa i pesci, arrostiti
poi dalle esalazioni dei suo corpo; il facilisco è immortale,
provoca vortici e tifoni e bufere che scoperchiano le case e inondano
le campagne. Eccetera, eccetera.

E questo solo quando, di notte, Gigi guarda la luna mentre combatte
col facilisco. Di giorno, invece, quando non guarda la Luna, è
il bravo artista che conosciamo, il grosso disegnatore ("se non
si è grossi disegnatori non si sarà mai dei buoni pittori",
suona così uno del suoi primi comandamenti) e l'artigiano ingegnoso
di buona tradizione. Quando non guarda la Luna è anche di una
ospitalità eccezionale, è pronto alle burle purissime,
dell'incertezza fa una virtù, è disposto a perdere la
sua abituale calma se qualcuno si interessa alle sue opere, indugia
facilmente e piacevolmente (permettiamoglielo), e amorevolmente, sui
suoi Ciardo, Martinez, Gabrieli, Bodini, Corni, ecc., eroi dei paesaggio,
dell'armonia, della trasfigurazione, della lusinga, dei paradosso,
della povertà aristocratica, eroi di fughe e di scivoloni,
eroi della nudità e di un numero incredibile di ossessioni.
Intanto. Mi accorgo che Gigi Specchio preferisce lavorare duro alla
sua epopea otrantina piuttosto che mettermi a conoscenza di due quasi-inviti:
Atene e Palazzo Reale a Milano. Sternatia e l'intera sua Amministrazione
corre dietro al sogno della masseria bianca. Cesare se n'è
andato. Ed era avido di vita. Massimo dice che Bologna non è
più quella di una volta, Giuseppe briga con la vita, però
trova il tempo per chiedere in giro del facilisco.
E il facilisco? Boh, qui nessuno ne sa niente, e i pochi che potevano
dare una risposta ormai non ci sono più. Solo tensione verso
l'alto, comunione col sole e col fuoco, purissima forma. Solo i poeti
sanno. E Gigi sa. Gigi sa perché è in lui il segreto
delle serre, o forse perché è in lui lo sconforto e
la menzogna e la solitudine della gente otrantina.
E i vecchi? Niente, loro non sanno niente del facilisco. Però
non è forse ci caso che quando domandi loro qualcosa, continuino,
muti, a guardare nel cielo correre le nuvole.
