So che l'idea
di un'Europa unita e del mercato aperto non è condivisa dal
cento per cento dell'opinione pubblica britannica, anzi da molti è
guardata con sospetto.
Per superare questa diffidenza, parlando del 1992, inizierò
con una frase tratta proprio dal Rapporto inglese "Europe's domestic
markets": "Il rischio è evidente: che molta retorica
produca modesti risultati". è un rischio vero: in Italia,
per esempio, due anni fa, subito dopo l'emanazione del "Single
European Act", vi era molto scetticismo sul reale cambiamento
reso possibile dalla prospettiva 1992.
Oggi il clima è molto cambiato, almeno in Italia: politici,
imprenditori, economisti si riferiscono sempre più spesso al
1992, caricano questa data di aspettative fin troppo numerose e impegnative.
Sorge qualche volta il dubbio che si stia creando una sorta di nuova
retorica. è una sensazione: ma se fosse vero, sarebbe un rischio
grande.
Il fatto nuovo non è l'aver fissato un obiettivo (il mercato
unico) e una scadenza (il '92): gran parte di ciò che si vuoi
realizzare con il mercato unico era già previsto dai Trattati
di Roma e avrebbe potuto essere realizzato in precedenza, proprio
sulla base di quei Trattati.
Il fatto nuovo consiste in un'idea-forza, sostenuta da due pilastri:
- la consapevolezza creatasi soprattutto negli ambienti economici
della necessità di "più Europa" per fronteggiare
il peso o il dinamismo crescente degli Stati Uniti, del Giappone e
dei Paesi di nuova industrializzazione;
- il modo intelligente in cui si è mossa la Commissione Cee,
che ha saputo coinvolgere direttamente il mondo delle imprese, del
mass media, dei grands commis delle amministrazioni degli Stati membri,
con una sempre maggior partecipazione agli obiettivi tracciati dal
libro bianco sul completamento del mercato unico.
A questo punto, si è messo in moto un circolo virtuoso, fatto,
questo, eccezionalmente positivo. Ma ovviamente la virtù da
sola non basta: gli ideali vanno sorretti da precise considerazioni
di natura economica: maggiori economie di scala e prezzi più
bassi; maggiori produttività, redditività e stimoli
agli investimenti; più rapido avanzamento tecnologico e produttivo
con conseguente migliore specializzazione internazionale.
Partendo dunque dalla constatazione che il 1992 apre precise opportunità,
che possono però essere colte bene, meno bene, o perse quasi
del tutto, vorrei fare alcune riflessioni. E concludere con alcune
proposte di priorità.
Partecipiamo al confronto mondiale in condizioni di debolezza. le
stesse "compagnie di bandiera", o national champions, che
a livello nazionale sembrano una forza, e che perciò ricevono
fin troppo e ingiustificato aiuto dai loro governi, a livello mondiale
non sono altro che medie aziende. Non solo, ma abbiamo assistito in
questi anni ad accordi numerosi tra imprese europee e imprese americane
e nipponiche. Tutto bene, in linea di principio: siamo e continueremo
sempre ad essere a favore della più piena libertà di
ogni impresa di stringere gli accordi con i partners che preferisce.
Ma, se dal piano del principi scendiamo a quello della realtà
concreta, ci accorgiamo che una parte di questi accordi - forse la
maggioranza - è costituita da accordi "subìti":
per superare stati di grave crisi, oppure per accedere a tecnologie
avanzate (non disponibili in proprio e non acquistabili) o per penetrare
in mercati che non si era in grado di raggiungere con le proprie forze.
Scegliere partners europei o non europei è un falso problema:
ciò che conta è che gli accordi siano accordi veri e
non forme più o meno mascherate di resa. Ciò può
avvenire soltanto quando la forza dei partners è sostanzialmente
equilibrata. Dare priorità ad accordi industriali intereuropei
èspesso l'unico modo per creare raggruppamenti significativi,
in grado di competere o collaborare con gli altri su un terreno di
equal portnership.
Non dimentichiamo poi che se è vero che la Cee vuole continuare
ad essere una comunità commerciale "aperta" e non
diventare un profeta disarmato, deve anche pretendere da Stati Uniti,
Giappone e Nics condizioni di reciprocità ed equilibrio: finora
è sempre stato difficile trovare tra i Dodici una coesione
sufficiente per far valere in concreto tali necessità e tali
regole nelle negoziazioni con le altre grandi aree Ocde. Una nascente
industria europea che intenda acquisire posizioni di eccellenza, e,
pertanto, necessiti di adeguati spazi di sviluppo, renderà
più urgente e quindi più probabile una migliore coesione
tra gli Stati membri, nonché posizioni più chiare, più
autorevoli, più forti verso l'esterno della Comunità.
Nel breve periodo da qui al '92, è dunque importante che la
Comunità faciliti joint ventures comunitarie e altre forme
di collaborazione rese possibili e opportune dalla crescente interdipendenza
delle economie nazionali e del mercati finanziari. Ma più in
particolare occorre una strategia che favorisca una riorganizzazione
qualitativa della struttura produttiva europea. E questa una condizione
indispensabile per consentire all'industria comunitaria di partecipare
in termini di equal partnership ad intese produttive transcontinentali.
E' la via per la selezione e il rafforzamento delle nostre strutture
produttive. Il caso dello sviluppo dell'industria europea in campo
aeronautico e spaziale (Airbus e Agenzia Spaziale Europea) conferma
come la realizzazione di sinergie di ricerca, finanziarie, commerciali,
permetta di contrastare posizioni dominanti già affermate sul
piano mondiale.
Attenzione: questa logica non deve riguardare soltanto i settori cosiddetti
"di punta". Essa è più che mai vitale negli
altri settori, che costituiscono pur sempre l'asse portante dell'industria
europea manifatturiera e che in virtù dell'innovazione continua
(di prodotto e di processo) sono uno stimolo altrettanto importante
alla ricerca e all'ingegnerizzazione dell'innovazione tecnologica.

Sicuramente l'Europa ha oggi, in questo campo, medesime possibilità,
se non maggiori, di quelle dei nostri concorrenti internazionali:
sarebbe interessante verificarlo anche solo in termini di potenziale
in R&T se si potesse coordinare e ottimizzare a livello europeo
investimenti e decisioni attualmente diversificate e parcellizzate
a livello nazionale.
Probabilmente, l'Europa non ha dibattuto a sufficienza questi aspetti.
Altro elemento determinante è quello dell'organizzazione di
un mercato moderno, il quale non può essere concepito solo
come punto d'incontro di una domanda e di un'offerta. E invece è
anche lo spazio sul quale insistono politiche pubbliche con interventi
nei confronti della domanda, dell'offerta e del loro modo di incontrarsi.
Senza governo dell'economia, quindi, il mercato sarebbe anarchico.
Dobbiamo guardare senza complessi all'esempio del mercato continentale
degli Stati Uniti che si è sviluppato, prima del nostro, su
un'area pluristatale. Guardando al caso americano, possiamo comprendere
come "mercato interno europeo" significa affermazione di
una domanda continentale non frazionata dall'impiego di segni monetari
diversi. Significa creare una struttura europeo dell'offerta stimolata
da una strategia comunitaria di ricerca e sviluppo tecnologico articolata
in alcuni grandi programmi (telecomunicazioni, spazio, ambiente, difeso),
da programmi infrastrutturali europei e nazionali collegati tra loro,
capaci di attivare una domanda pubblica europea rivolta ad aggregare
cooperazioni industriali europee. Significa un mercato finanziario
e una fiscalità diretta omogenea per le imprese. Per cogliere
le opportunità occorrono quindi una visione strategica e strumenti
di governo: strumenti di governo quanto meno simili a quelli di cui
dispongono le altre due grandi aree Ocde. Mi riferisco:
- a una politica commerciale esterna altrettanto efficace di quella
Usa e giapponese, in grado di far rispettare le regole del gioco e
di difendere il mercato unico. Perché, va detto con molta chiarezza,
molto più di quanto si sia fatto finora, che il mercato unico
deve innanzitutto venire a vantaggio delle imprese europee.
E' un messaggio che dobbiamo ribadire senza esitazioni. Sappiamo che
il mercato offrirò alle imprese americane e giapponesi nuovi
sostanziosi vantaggi reali. A questo punto, prima di concedere loro
un ingresso illimitato, la Comunità deve definire al proprio
interno una strategia industriale europea di lungo respiro e contrattare
con Usa, Giappone e Nics ben precise contropartite. La Cee è
già oggi il mercato più aperto e vogliamo che resti
tale: ma deve essere chiaro che non dobbiamo offrirlo su di un piatto
d'argento ai nostri concorrenti. Dobbiamo poterci difendere, sul piano
della concorrenza, ponendo le basi per uno sviluppo di gruppi europei
di imprese e produzioni qualificate e competitive.
- Secondo aspetto determinante è un bilancio capace di attivare
una rilevante spesa di ricerca strategica in funzione di progetti
capaci di stimolare cooperazioni industriali europee con un coordinamento
dei grandi progetti infrastrutturali che debbono assumere sempre più
veste europea e dimensione continentale.
- Infine, si è aperto un dibattito sulla moneta europea: un
mercato interno europeo deve avere una moneta comune. Il grande mercato
finanziario europeo è una sfida per il sistema finanziario
privato e per la finanza pubblica. La stabilità valutaria tra
i partners comunitari è una condizione per poter compiere scelte
strategiche sugli investimenti produttivi e avere trasparenti confronti
di competitività nell'ambito del mercato europeo integrato.
Abbiamo avuto interventi autorevoli a favore della creazione di una
Banca centrale europea ed è stato impostato il problema di
una gestione collegiale della politica monetaria. Ciò pone
a tutti un sacrificio: ma io credo che si avranno, nel medio termine,
benefici ben più sostanziosi.
Lo scetticismo non deve prevalere. Il mio auspicio è che tra
qualche anno Londra possa diventare per l'Ecu quello che oggiNew York
è per il dollaro.