§ Grandangolo

Sviluppo? All'italiana




M. C. M., F. A.



I livelli retributivi degli operai stanno diventando sempre meno importanti nella competizione planetaria. La produttività ha sempre un ruolo di rilievo, anzi, questo ruolo è continuamente in crescita. La qualità, il design, l'assistenza, l'innovazione, il marketing, tutte queste cose divengono più importanti. Ma i salari degli operai come costo diretto rappresentano sempre più un fattore secondario.
Il motivo è che il costo sostenuto per gli operai non è più, rispetto ai costi globali, così rilevante da concedere un grosso vantaggio a chi paga bassi salari. Una regola ormai consolidata stabilisce che la produzione all'estero deve essere più economica almeno del 5%, e probabilmente del 7,5% rispetto a quella domestica per compensare i notevoli costi dovuti alla distanza: trasporto, comunicazioni, viaggi, assicurazione, finanza. E se il costo del lavoro rappresenta il 15% del costo totale, occorre a parità di produttività del lavoro un differenziale retributivo del 50% per controbilanciare i costi dovuti alla distanza; il che è praticamente fuori discussione, almeno nei Paesi sviluppati.
I costi della manodopera nell'industria statunitense raggiungono il 18% dei costi complessivi. Ma sono scesi rispetto al 23% di qualche anno fa. Al loro rapido declino fa da contrappunto una discreta ascesa della produttività. Un'industria o un'impresa che oggi operi con un costo per gli operai superiore al 15% è già piuttosto indietro. La Generai Motors ha ancora un costo della manodopera operaia che raggiunge il 30%, in buona parte a causa della restrittiva regolamentazione del lavoro contenuta nei suoi accordi con i sindacati. Ma Toyota e Honda, pur mantenendo gli stessi livelli salariali, hanno un costo del lavoro inferiore al 20% nei loro impianti statunitensi, e si aspettano di ridurlo al 15% entro un decennio, come peraltro la Ford.
Le acciaierie integrate hanno ancora un costo del 25% per le tute blu, mentre le mini-acciaierie già lo hanno ridotto al 10% o meno: oggi producono un quinto di tutto l'acciaio americano, ma probabilmente ne produrranno ben oltre la metà entro i prossimi dieci anni. L'industria tessile sostiene che le importazioni dei Paesi a bassi costi di manodopera la stanno soffocando. Ma circa la metà di questa industria opera in effetti a costi già perfettamente competitivi con quelli degli altri produttori a più bassi salari, come ad esempio la Malaysia o l'Indonesia. Queste imprese, soprattutto quelle più grosse, hanno abbassato il loro costo del lavoro fino a un 10-12% del totale, e non soltanto per i semilavorati come il filato, ma in molti casi anche per prodotti finiti, come blue jeans o abbigliamento casual.
In questa ristrutturazione, nel corso della quale i salari della manodopera hanno smesso di rappresentare il fattore-chiave della capacità concorrenziale, l'industria americana e quella giapponese hanno dato vita a una competizione motto serrata. I giapponesi sono molto più avanti per quel che riguarda la riduzione del costo del lavoro nelle industrie tradizionali (automobile e pneumatici, per esempio), aiutate dal fatto che i loro sindacati non impongono norme troppo rigide. Nelle industrie più innovative e a forte crescita (farmaceutica, chimica fine, biotecnologie, comunicazioni e computer) e in qualche altra industria tradizionale come quelle della carta e delle turbine, gli Stati Uniti sono in vantaggio. l'Europa, tutto considerato, può ritenersi agli inizi. Ma si sta svegliando.


Una conseguenza di ciò è che i produttori americani, poco per volta, stanno riportando in patria le attività produttive estere, proprio perché non sono tenuti a ripristinare i livelli occupazionali della manodopera operaia che avevano soppresso al tempo del loro trasferimento all'estero una decina di anni fa. Un'altra conseguenza - e questa paradossale -è che l'occupazione nell'industria manifatturiera statunitense ha potuto aumentare la produzione così in fretta da mantenere stabile in termini assoluti l'occupazione operaia.
Si tratta di performance addirittura migliore di quella giapponese, che appare in stridente contrasto con quanto accaduto nell'Europa occidentale, dove le tute blu dell'industria sono oggi circa cinque milioni in meno rispetto a dieci anni fa. Si è realizzato così il passaggio da industrie con costi del lavoro di ieri (automobili e acciaio, ad esempio) a industrie con costi del lavoro di domani, come le telecomunicazioni e la farmaceutica.
Nonostante la forte riduzione del potere d'acquisto del dollaro sui mercati internazionali, l'industria americana sta aumentando gli investimenti diretti all'estero e, contrariamente a quanto per lo più si crede, ciò avviene in misura quasi uguale al fenomeno opposto, cioè agli investimenti diretti stranieri negli Stati Uniti. Adesso sono Europa e Giappone a trasferire la produzione all'estero nei Paesi sviluppati, dove si trovano i loro mercati (gli europei soprattutto negli Usa, i giapponesi negli Usa e in Europa occidentale). Il motivo ufficiale per gli acquisti di impianti o la costruzione dei medesimi da parte del giapponesi negli Stati Uniti è la "paura del protezionismo". Ma si tratta essenzialmente di "pubbliche relazioni" ad uso e consumo interno dei giapponesi. Il vero motivo è che i bassi salari operai si stanno rivelando un vantaggio concorrenziale sempre più insignificante, mentre i costi dovuti alla distanza dal mercato divengono sempre più onerosi.


Questi orientamenti indicano che la competizione tra i produttori nei Paesi sviluppati è diventata molto più dura: una competizione basata non più sui differenziali retributivi, ma sulla competenza manageriale e sulla produttività in termini di conoscenza, lavoro e denaro, tecnologie produttive, gestione dei cambi e rischi connessi, qualità, design, assistenza, innovazione, marketing.
Nei Paesi sviluppati queste tendenze intensificheranno al massimo grado l'integrazione in atto già da qualche tempo, almeno da quando gli americani diedero il via alla "multinazionalizzazione", una trentina di anni fa. Ma per i Paesi in via di sviluppo questo andamento congiunturale sembra precludere la via più agevole per un rapido sviluppo economico: quello derivante dalle esportazioni fondate sul lavoro a basso costo.
Il più spettacolare sviluppo del secondo dopoguerra è stato quello giapponese, seguito dalle "Quattro Tigri" del Sud-Est asiatico: Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong e Singapore (una quinta Tigre le sta raggiungendo, la Thailandia). Ciò che questi Paesi hanno fatto è assolutamente innovativo. Hanno copiato un'invenzione americana della seconda guerra mondiale, denominata "training" - che aveva permesso agli Stati Uniti, durante il periodo bellico, di convertire persone non specializzate, di livello preindustriale, in lavoratori efficienti ad alta produttività - e hanno tramutato la propria gente inesperta e poco pagata in operai estremamente produttivi e tuttavia ancora a basso costo, tanto che i loro prodotti potevano allora essere competitivi sui mercati sviluppati. Probabilmente, nessuna delle due strade indicate resterà aperta in futuro. Sono rimasti pochi i Paesi importatori netti di generi alimentari. Tra i Paesi sviluppati, solo il Giappone mostra ancora un disavanzo nel settore alimentare: (quasi) tutti gli altri Paesi sviluppati non comunisti hanno eccedenze alimentari, mentre la produzione industriale è sempre meno imperniata sulle materie prime. Il prodotto caratteristico degli anni Venti, l'automobile, conteneva materie prime quasi per il 50%; il prodotto tipico degli anni Ottanta, il semiconduttore, solo per l'1%. Il contenuto in termini di materia prima e di energia di un cavo in fibra di vetro è di circa il 12%; il cavo di rame che lo ha preceduto ne conteneva circa il 50%; e così via.
Dunque, il Brasile è stato forse l'ultimo Paese a finanziare il proprio sviluppo alla maniera del diciannovesimo secolo, pagando le importazioni di beni capitali con le esportazioni di generi alimentari e di materie prime. E l'attuale crisi dell'economia brasiliana è in larga misura la conseguenza del crollo del prezzi delle materie prime e del generi alimentari sui mercati mondiali, crollo indotto dal passaggio da scarsità ad eccesso di produzione alimentare e dalla conversione dell'industria manifatturiera da un modello ad alta intensità di materie prime a un modello ad alta intensità di conoscenza.
Ma la possibilità di sviluppo economico mediante esportazioni basate sulla produttività di manodopera a basso costo può anch'essa venir meno, se i salari non costituiscono più una parte rilevante del costi complessivi. Gli apporti manageriali allora decisivi sono proprio in quei settori dove per un Paese povero è più difficile essere competitivo. Per i produttori del Paesi sviluppati, questa nuova tendenza significa una domanda crescente nei settori nei quali comunque avrebbero una posizione di forza. Mentre il Terzo Mondo deve, ad ogni costo, individuare nuove strategie di sviluppo poggiate probabilmente sui propri mercati interni, vale a dire sulla liberalizzazione e le incentivazioni di mercato per i coltivatori e per i piccoli imprenditori locali ("allergici" alle tasse). Così l'Italia del Nord e l'india, più che il Giappone, possono diventare i modelli di sviluppo per il domani.


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