§ Filosofia dinamica della programmazione economica

Conoscere per decidere




Gennaro Pistolese



Dottrina e condotta politica sono entrambe coinvolte, con un'interrotta continuità di impegni e di indirizzi, nel perseguimento della determinazione e dell'operatività di un disegno complessivo ed organico in economia. Le strade per questo finalismo sono, come si sa, tante. Alcune di esse sono state abbandonate o hanno perduto il fascino e le motivazioni primigeni, altre sono state perseguite con risultati concreti non corrispondenti al loro costo in termini, oltre che economici, anche politici, altre infine sono praticate nella ricerca di strumentazioni sempre più valide.
Quando rivolgiamo lo sguardo all'immediata realtà politico-economica che ci circonda, vediamo che le strutturazioni possibili sono state e sono tuttora sperimentate, con la sola eccezione della pianificazione, sostituita tuttavia da singoli piani o progetti. Bilancio dello Stato con la correlata legge finanziaria, bilancio economico nazionale, programmazione, politica del redditi, ecc. costituiscono altrettanti poli di una condotta economica ispirata ad una univoca metodologia, ad una certa continuità di risultati, ad un concreto rispetto delle compatibilità e delle condizioni indispensabili.
Abbiamo detto che la pianificazione esula dal nostro sistema, essendo l'opposto di quel liberismo economico, pur delimitato, nella contemperanza della sfera pubblica e di quella privata, che è il fondamento del nostro quadro politico, sociale ed economico. Nella prassi e nelle dottrine dominanti la pianificazione comporta l'assunzione di proprietà da parte dello Stato di tutti i mezzi di produzione, nonché l'identificazione nello stesso Stato della figura di datore di lavoro. Negazione dell'iniziativa individuale, della proprietà personale, (fatte salve talune eccezioni più o meno marginali), incertezza di una retribuzione proporzionata al lavoro svolto, burocratizzazione, perdita di libertà politica, ecc. costituiscono i tratti salienti della pianificazione dovunque sia stata praticata. le esperienze del Sud Europa, che l'ha adottata, sono ora dirette ad un sostanziale ribaltamento, come promettono gli intenti e le riforme di Gorbaciov, una sorta di nuova NEP che dovrebbe essere riparatrice degli errori e delle falle che si sono susseguiti dalla Rivoluzione di ottobre in poi, alla ricerca oggi di soluzioni che vorrebbero conciliare la pianificazione con principii liberistici addomesticati e più o meno epidermici. Il liberismo vero, che indubbiamente non esiste allo stato puro, è evidentemente tutt'altra cosa, anche nell'evoluzione che lo distanzia dalle origini e ne determina l'adeguamento alla realtà di oggi.
Ma se non esistono in Italia forme di pianificazione, si sono avuti vari Piani (come lo Schema Vanoni, predisposto negli anni '50, o la progettualità diretta alla valorizzazione del Mezzogiorno con le molteplici varianti di immagine e di operatività, ecc.) e altrettanti devono essere registrati in campo internazionale: da quello Marshall a quello Mansholt per la trasformazione radicale delle strutture agricole dei Paesi del MEC, da quello Barre, contenente norme ed orientamenti diretti ad una più stretta collaborazione monetaria fra gli stessi Paesi, a quello di Horowitz per la distribuzione degli aiuti erogati ai Paesi sottosviluppati.
Mentre taluni di questi Piani hanno avuto un'operatività limitata, diretti com'erano a fronteggiare esigenze temporali spesso ispirate più ad affermazioni di principii che non ad una precisa e vincolante progettualità, altri si sono più radicalmente confrontati con la realtà, anche se non 'hanno presentato risultati concreti positivamente idonei e corrispondenti pure al costo incontrato. Fa spicco in questo ambito il Piano Beveridge, che nel 1942 ha organizzato il sistema di sicurezza sociale britannico, per il diritto di assistenza completa e gratuita a carico dello Stato. l'uomo, cioè, protetto dalla culla alla bara, con tutta l'insostenibilità ed estrema gravosità del principio, che oggi, a prescindere dalle formulazioni fattene in Inghilterra, sta conducendo ad una nuova cultura del Welfare State.
Comunque, qualche passo innanzi in Italia si ècercato di compiere su questo terreno con il cosiddetto Progetto '80, predisposto dai tecnici del nostro Ministero del Bilancio e della Programmazione Economica, e nel quale erano precisati gli obiettivi sociali ed economici che il nostro Paese avrebbe dovuto realizzare entro il 1980.
In detto Progetto si consideravano lo spostamento delle forze di lavoro dall'agricoltura agli altri settori, l'aumento dell'occupazione, la riduzione degli squilibri settoriali e territoriali, le riforme scolastiche, sanitaria, fiscale e burocratica, la politica della casa e quella contro gli inquinamenti. Come si vede, sono problemi di oggi, frequentemente fin qui solo scalfiti e perciò ricorrenti nei vari programmi di Governo, come vedremo meglio più oltre.
Interessante in questo Progetto era lo sforzo di ricerca di una certa strumentazione, con lo stralcio di due piani quinquennali relativi al periodo 1971-75 ed a quello 1976-80, a loro volta suddivisi in piani annuali con la formulazione di progetti pilota. Le realizzazioni che ne sono seguite non sono state tuttavia pari alle ambizioni iniziali, che certamente ebbero una maggiore enfasi nella primissima fase di applicazione che non successivamente. E ciò si è verificato più che altro in conseguenza dell'affievolimento della volontà politica, con le ricorrenti crisi governative, con la instabilità che ne è seguita, con un debole decisionismo anche in quelle fasi che promettevano, ed in parte hanno realizzato, una certa stabilità.

Modelli di programmazione
E per queste ragioni che la programmazione ha incontrato in Italia i noti limiti, che si sono spesso tradotti in vere e proprie carenze di un'organica condotta economica, al tempo stesso strutturale e congiunturale.
Dottrina e prassi ci ricordano a questo riguardo che la programmazione può essere settoriale, locale e generale. le esperienze che anche noi registriamo riguardano tutti e tre questi modelli, con la precisazione dei fini da raggiungere, ma quasi sempre con una certa vaghezza in merito ai mezzi ed al metodo da impiegare. E questi, come si sa, comportano la fissazione del termini di tempo da rispettare, dell'ordine di conseguimento e di messa a punto nella determinazione delle conseguenti priorità, della identificazione dei mezzi disponibili e del grado di convenienza loro attribuibile in termini di costi e di risultati, al cui vertice vi è quello di un complessivo equilibrato sviluppo.
Sul piano teorico e su quello effettivo, la programmazione può essere attuata mediante:
- La determinazione dei criteri di massima, che gli operatori sono invitati a seguire nel loro interesse. E si tratta della cosiddetta programmazione indicativa, della quale abbiamo testimonianze in molti Paesi industrializzati, a cominciare dagli USA.
- L'adozione di precise norme da seguire, accompagnate queste da controlli rigorosi, che danno luogo alla cosiddetta programmazione precettiva, che rappresenta un generale modo di essere nei Paesi occidentali, vari dei quali però, mentre sono tassativi nelle formulazioni a carico dei cittadini, non altrettanto fermi e coerenti sono nella loro subordinazione ai dettati proclamati. Nasce anche per questa causale quello che è il distacco, in sistemi fra i quali il nostro, fra il Paese reale e quello legale.
- La previsione di norme obbligatorie per le imprese pubbliche e non già per quelle private, essendo queste ultime sottoposte agli interventi statali di incentivazione o di disincentivazione, con i quali realizzare le condizioni di convivenza ed auspicabilmente di collaborazione fra la sfera pubblica e quella privata. Ne deriva la cosiddetta programmazione impegnativa. Un esempio in questa direzione è costituito dal nostro IRI, con la tendenza in esso al ripristino della economicità delle gestioni, alla puntualizzazione nei settori considerati strategici, all'operatività di una effettiva managerialità ed anche, con queste premesse, al perseguimento delle privatizzazioni necessarie (e questa è una politica che all'estero è perseguita con particolare ampiezza: dall'inghilterra, dalla Francia, dalla Germania Federale in Europa; dagli Stati Uniti e dal Giappone nel quadro occidentale extraeuropeo).
- La modifica di parte delle strutture economiche, che dà luogo alla cosiddetta programmazione strutturale. Quanto a queste strutture, molti principii derivano dal dettato costituzionale, non sempre tuttavia compiutamente applicato o reso applicabile dalle carenze legislative o regolamentari. Il problema si manifesta con urgenza nel nostro Paese, in un momento in cui si vuoi porre mano a quelle riforme istituzionali, che sono fin qui considerate nella loro sfera politica, e non già pure in quella economica e sociale, come è certamente indispensabile, ad esempio, in termini di rappresentatività: un problema questo che investe oggi in particolare misura la sfera sindacale.
Quali siano o possano essere i modelli di programmazione, fondamentale è per essi il problema della strumentazione, e cioè dei vincoli operativi che bisogna farne discendere con una continuità e logicità di sequenze ed anche con i necessari coordinamenti fra le varie forme di intervento e fra le varie matrici di esse, che per l'Italia, ad esempio, comportano pure la saldatura fra i modi di essere dello Stato e quelli propri delle Regioni. Oggi come oggi, invece, questi due piani ancora non convergono in funzione di una finale equilibrata unità. Come si vede, la programmazione in Italia ha molto cammino da compiere utilmente, proprio in funzione di ,una globale politica economica il cui avvento viene infatti trasferito da una legislatura all'altra.

La politica dei redditi
Da questo complesso bagaglio che abbiamo alle nostre spalle, la prospettiva è dominata da una parte del grosso complesso delle esigenze da fronteggiare e dei problemi, talvolta cronici, da risolvere, e dall'altra, da alcuni possibili sbocchi che la dialettica politica rende attuali. E' questo il caso della cosiddetta politica del redditi.
In sostanza, essa comporta anzitutto la valutazione dei redditi del vari soggetti in funzione di un loro corso che globalmente superi il flusso del beni e del servizi prodotti ed offerti sul mercato. Con detto flusso deve essere equilibrato il complesso del compensi attribuibili ai vari fattori della produzione, e cioè rendite, interessi e profitti, salari. Varie sono, dunque, le angolazioni che ne derivano, tutte da valutare singolarmente e nelle loro reciproche interdipendenze, non dovendosi ritenere esaurita o puntualizzata questa tematica solo nell'ambito delle interrelazioni capitale-lavoro. E difatti gli obiettivi immanenti sono quelli di uno sviluppo reale, armonico nelle sue incidenze, generatore di un effettivo progresso. Il che comporta la piena responsabilizzazione di tutti i fattori politici ed economici, che fin qui si èavuta senza un generale coinvolgimento, senza una precisa progettualità, molto spesso solo sulla base di contingenti occasionalità e con la subalternità della politica economica a quella monetaria.
Gli impegni che ne discendono comportano scelte che all'insegna della politica dei redditi vengono a riguardare e condizionare la crescita del PIL, i consumi delle famiglie, gli investimenti, i conti con l'estero, il tasso inflazionistico, il fabbisogno pubblico, l'efficienza della macchina pubblica. E queste sono altrettante voci che mostrano accentuati segni di delicatezza non solo per l'anno corrente, ma anche per il prossimo anno, come avvertono gli osservatori congiunturali più qualificati.
Avverte al riguardo il 49° Rapporto semestrale dell'ISCO al CNEL che forte è il rischio che la mancanza di un disegno generale lasci il sistema economico senza timoniere e privo di una rotta ben definita, con un'inefficienza statale che viene a rappresentare il vero freno allo sviluppo dell'economia. E' in sostanza sotto accusa una politica economica incapace di attuare una manovra di rientro del disavanzo pubblico e di rilancio degli investimenti.
Le scelte fondamentali da attuare sono pertanto quelle inerenti ad un drastico taglio delle spese correnti, ad una politica fiscale più equa e produttivistica, ad un'amministrazione dello Stato orientata all'efficienza (garante pur essa del redditi dei cittadini), ad un reale sviluppo nel rispetto di tutte le condizioni ad esso necessarie con la creazione di un conforme contesto operativo. Tutto ciò ha evidentemente a monte ed a valle proprio una politica del redditi, globalmente intesa e praticata.

La normativa antimonopolistica
Un altro strumento di indirizzo, del quale nella realtà italiana si parla non sempre con la necessaria avvedutezza e l'osservanza dell'intera panoramica, è quello della normativa antimonopolistica. Ma nella sua determinazione varie sono le condizioni da osservare. Il problema essenziale è quello per noi di conciliare diverse esigenze, come l'assimilazione a più alto grado possibile e necessario della normativa europea, con una capacità integrativa di questa che sia compatibile con la specificità del nostro sistema; i evitare ogni ambizione protezionistica come è avvenuto in alcuni Paesi; di disancorarsi da ogni opzione ideologica; di evitare, sì gli abusi da posizione dominante, ma di perseguire un disegno complessivo che salvaguardi la presenza privata nell'economia e la contemperanza della presenza pubblica con quella privata. Senza una politica economica complessiva si corrono solo rischi di distorsioni e di inadeguatezza anche a quelle che sono le esigenze di competitività del nostro sistema.
Tutto ciò è stato dibattuto nella prima parte dell'anno anche in un convegno indetto dal PRI su privatizzazioni ed antitrust nell'internazionalizzazione dell'industria italiana. Tre questioni queste che, come era nell'insegna stessa del convegno, sono strettamente interdipendenti. In detto convegno si è parlato anche della composizione e dei compiti della commissione di vigilanza che dovrà sovraintendere a questa materia.
L'orientamento manifestato al riguardo appare quello della determinazione di funzioni, non di autorizzazione, ma di istruttoria sui casi di denuncia di trasgressione, in modo da non creare nuovi lacci e lacciuoli preventivi, ma di disporre di strumenti prontamente operativi nei casi indispensabili, con una completa astrazione dagli interessi organizzati, che, come si sa, non sono soltanto prevalentemente economici, ma anche frequentemente di natura strettamente politica.

Il condizionamento del 1992
Sempre nel disegno di una precisa progettualità, incombenti sono gli sbocchi ed i mezzi offerti dall'appuntamento del 1992, data per il completamento del mercato interno europeo.
Il costo della non Europa, quale è quello che abbiamo ancora dinanzi, perché il mercato unico non è stato ancora realizzato, èparticolarmente elevato. Ha a che fare con le formalità alle frontiere, che comportano una perdita di 12 miliardi di ECU all'anno (un ECU vale all'incirca 1540-1550 lire); con il costo fra i 40 e i 50 miliardi di ECU determinato dalla non armonizzazione di una serie di norme e regole tecniche nazionali applicabili a vari prodotti; con i costi derivanti dalle ripetizioni delle misure di controllo e di sorveglianza, o dalle prassi discriminanti del pubblici poteri nazionali, le cui ordinazioni e le cui aggiudicazioni spesso privilegiano imprese nazionali, o ancora dalle dimensioni ridotte dei mercati nazionali che accrescono i costi nazionali di produzione, ecc.
Gli obiettivi che d'ora innanzi dovranno perseguire le politiche strutturali comunitarie (e sono chiare le implicazioni che ne derivano per le attitudini ed i comportamenti delle singole politiche nazionali, da adeguatamente programmare) sono così riassumibili:
- sviluppo ed adeguamento delle economie regionali in ritardo strutturale (e qui chiaro èil coinvolgimento del nostro Mezzogiorno in una realtà nazionale che vede il Nord partecipe dell'area avanzata della CEE ed il Sud membro di quella arretrata);
- riconversione delle regioni industriali in declino, da intendere ovviamente non solo nella loro dimensione geografica, ma anche nella sperequazione esistente fra i vari settori;
- lotta contro la disoccupazione, in un quadro italiano che vede l'agricoltura assorbire sempre minori unità di lavoro, l'industria in situazione di stallo dell'occupazione (nella grande industria, in flessione), il terziario in ascesa;
- la promozione e le facilitazioni dell'inserimento professionale dei giovani, privilegiando ovviamente quelle fonti e quegli sbocchi che oggi hanno maggiori capacitò di assorbimento delle esuberanti energie di lavoro.
Si tratta, come si vede, di una complessa manovra da attuare, alla quale dobbiamo adeguare la nostra normativa e la nostra capacità operativa, che presuppongono una corrispondente programmazione, che questa volta non dovrebbe giungere troppo tardi.
Ma che cosa si muove in questa direzione? Un'indicazione ci viene a questo riguardo dal programma del Governo De Mita.

Gli obiettivi del Governo
Questo programma è particolarmente fitto, ma dà più risalto agli obiettivi da conseguire anziché alla metodologia ed alla strumentazione necessarie. Nell'ambito della politica economica e finanziaria, al primo posto è il contenimento della spesa pubblica. Si tratta di tagliare recisamente. le cifre inizialmente indicate parlavano di 10.000 miliardi, quelle successive si sono attestate sui 6-7 mila. Come? Si risponde con l'affermazione che il contenimento delle spese correnti statali deve essere effettuato entro il tasso inflazionistico ed il rigoroso controllo dei trasferimenti ai vari centri di spesa.
Purtroppo molti interventi si tradurranno in aumenti di entrate fiscali. Aumenteranno l'IVA e le imposte sulla casa, ma, su questa, estese sono le riserve nella stessa maggioranza. Le indicazioni per la riduzione della spesa con la previsione di un attestamento del disavanzo sui 115 mila miliardi e con una formulazione che investe la diversa contrattazione sindacale nel pubblico impiego, la riforma della procedura di approvazione del bilancio dello Stato, le modifiche del regolamenti parlamentari per rendere snello l'iter della legge finanziaria non sembrano tuttavia suscettibili di produrre effetti a più o meno breve scadenza. E ciò per il prevedibile travaglio connesso all'iter relativo e per il fatto che si tratta di elementi che potranno trovare solo indirettamente i loro sbocchi positivi e così mediatamente sprigionare i loro effetti.
Due altri capisaldi della politica economica vengono a riguardare il Mezzogiorno e la funzione dell'industria pubblica.
Circa il primo punto, il noto e consueto finalismo (per fronteggiare un problema che condiziona l'intero sistema nazionale) si accompagna alle dichiarazioni di intenti riguardanti l'orientamento meridionalistico e di tutta la politica economica, gli investimenti industriali nel Sud, le deroghe alle normative amministrative vigenti per snellire l'intervento nel Mezzogiorno ed infine la promozione di accordi fra imprenditori e sindacati.
Quanto poi al ruolo dell'industria pubblica, mentre si sottolinea la necessità di ridefinire il contenuto strategico delle partecipazioni statali, si afferma che sono escluse politiche di dismissione di attività. il che diventa pregiudiziale come si vede per la stessa determinazione del ruolo.
Queste sono le principali intenzioni, che nelle valutazioni espresse dagli operatori economici, trovano altre opportune integrazioni in merito a quanto occorre fare perché dai programmi si passi agli impegni di una programmazione. Dicono in sostanza gli operatori che occorre una maggiore attenzione rivolta a:
- i fattori di competitività;
- il superamento degli elementi di debolezza che gravano in particolare misura sulle piccole imprese;
- una politica di infrastrutture che spazi dagli investimenti più tradizionali a quelli in beni immateriali;
- una politica economica che privilegi la valorizzazione del capitale umano;
- condizioni propizie alla vitalità dell'impresa, così da rendere possibili nuove iniziative e la crescita dimensionale i quelle esistenti.
Il tutto, dunque, per una maggiore concorrenzialità della nostra economia, per un'organica riforma fiscale, la piena agibilità di un credito mirato in relazione a fini di potenziamento dello sviluppo, della ricerca e del l'innovazione, ecc.

Tratti del contesto indispensabile
Una programmazione così ispirata, se deve puntare sulla soluzione dei suddetti complessi problemi, deve pur anche agire sul generale contesto, nel quale in propizie condizioni può e deve esplicarsi lo sforzo di tutti i soggetti.
In questo ambito trova rilievo, come si sa, quello relativo all'ambiente, che rappresenta pure l'habitat dell'attività economica, oltre che del vivere civile. In detto ambito si registrano molteplici interventi che ora occorre meglio coordinare e rendere efficaci, utilizzando al meglio le esperienze compiute negli altri Paesi industrializzati, che non sono tutte positive, e perciò fonte di esperienze da sempre meglio vagliare in termini conoscitivi ed operativi nelle loro implicazioni dirette ed indirette. Ma un'altra esigenza, sempre più. pressante, si manifesta nel nostro contesto economico ed è quella cui oggi sono puntati maggiormente gli occhi degli operatori, degli stessi politici, dell'opinione pubblica. Si tratta della regolamentazione del diritto di sciopero, che costituisce un altro indispensabile mezzo di miglioramento e salvaguardia del contesto operativo delle attività produttive. Come?
Il Governo Goria nella persona del suo Presidente aveva tentato un disegno di normativa per i servizi di maggiore interesse pubblico, ma il tentativo fu subito bloccato alle sue origini, sia per le riserve procedurali manifestate da qualche partito della stessa maggioranza, sia per la netta opposizione dei Sindacati.
Ora il Governo De Mita così si esprime programmaticamente a questo riguardo: "C'è la necessità di conferire efficacia generale ed un'eventuale normativa sull'esercizio del diritto di sciopero, e ciò mediante i seguenti punti: negli accordi sindacali vanno previste norme dirette a prevenire e comporre i conflitti, regolamentazione legislativa dello sciopero nei servizi pubblici, sanzioni per eventuali violazioni".
Nell'indirizzo del Governo si sottolinea altresì la necessità di rimuovere le cause dei conflitti attribuibili ad inefficienze e ritardi delle autorità e del responsabili delle aziende, dovendo le regole valere per tutte e due le parti in causa, e cioè datori di lavoro e dipendenti. Fra i punti meno chiari figura, poi, ad esempio, quello di evitare con cura l'introduzione di regole e di misure che direttamente o indirettamente possano incidere sulla sfera della rappresentatività e della titolarità a tutela degli interessi del lavoratori, come sulla nascita di nuovi soggetti di rappresentanza sindacale. I Sindacati prendono posizione contro queste impostazioni, che condurrebbero, a loro detta, ad una soluzione equivoca ed in contraddizione con la proposta sindacale, contraria alla pura regolamentazione per legge, prevedendo un mix di interventi. In sostanza si scarta la necessità di ricorrere ad una legge o ad un atto equiparato per conferire efficacia erga omnes alle regole limitative dell'esercizio del diritto di sciopero, scaturenti dalla autodisciplina, in forza del fatto che l'inserimento dei cosiddetti codici all'interno del contratti collettivi ne determinerebbe indirettamente l'efficacia generale obbligatoria. Ma quale sarebbe il destino di una siffatta soluzione, anche per i firmatari dei vari contratti, oltre che per quanti alla loro formulazione non hanno partecipato? La Costituzione nell'articolo 40 non parla di legge anziché di mere regole contrattuali?
Qualche cosa ora si sta muovendo al Senato, dove sono in esame varie proposte di legge presentate dai partiti, ai quali si è,aggiunto recentemente quello comunista. Questo ha come elemento caratterizzante una riforma della precettazione, di un istituto cioè al quale viene affidato il compito Ai garantire, in caso di scioperi, la continuità delle prestazioni che sono indispensabili per assicurare l'effettività del diritti costituzionali garantiti della persona: sicurezza ed incolumità pubblica, salute, circolazione delle persone, dei beni ed energie di prima necessità, comunicazione ed informazione, nei limiti e nelle forme che la rendono improrogabile, prestazioni previdenziali e pensionistiche.
Nella valutazione di queste varie proposte l'orientamento senatoriale sembra ispirarsi ai seguenti principii: riforma dell'istituto della precettazione, istituzione di nuovi strumenti per gestire più razionalmente i conflitti, determinazione delle sanzioni per chi viola le regole, elenco o riferimento ai servizi giudicati essenziali. Queste le intenzioni, ma l'impressione è che al momento si è ancora in una fase prevalentemente dialettica. la realtà ci ricorda, fra l'altro, che nel corso delle legislature fin qui trascorse le proposte di legge presentate in Parlamento per l'attuazione, sia pure parziale, dell'articolo 40 sono state all'incirca un centinaio.
34 anni fa De Gasperi affermava: "Per tre volte i Governi da me presieduti presentarono disegni di legge per regolare il diritto di sciopero, e tutte le volte i rappresentanti sindacali fecero valere le loro obiezioni". Il fatto è che ora la realtà incalza, che le dichiarazioni di intenti non bastano, che le renitenze di fronte alla gravità delle regolamentazioni delle astensioni dal lavoro non pagano, che il Paese, dopo 40 anni dalla Costituzione, attende l'effettiva applicazione del dettato costituzionale. Si parla oggi di un dosaggio da realizzare fra gli impegni assunti autonomamente fra le parti sociali e le norme prescritte da una legge. Ma oltre il dosaggio ciò che occorre è la concretezza e la chiarezza dell'enunciazione ed il rigore della relativa valida applicazione.
E' solo su questo terreno che si possono valutare e verificare le ancora vaghe intenzioni di oggi, da rendere risolutive con un disegno progettuale, e quindi anche di programmazione, che realizzi un'organica politica del lavoro, nei suoi contenuti di ordine economico e normativo, di incentivazione del l'occupazione, di formazione professionale, di correntezza del mercato del lavoro e così via.
Verifiche e confronti devono essere intensificati a questo riguardo; dovranno essere certamente istituzionalizzati, comporteranno precise cadenze e localizzazioni, dopo che la prassi finora seguita ha dato frutti solo molto parziali. Probabilmente nelle tematiche di riforme istituzionali anche questo aspetto dovrà essere adeguatamente inquadrato.

Spazialità della programmazione
Come si vede, la spazialità di una politica di programmazione è molto ampia, riguarda il modo di essere di una politica economica che non sia contingente, ma lineare, organica, capace di incidere, oltre il contingente congiunturale, sulle strutture stesse. Oggi invece sono premiate le scelte interessanti questo o quell'aspetto istituzionale settoriale e sono eluse quelle di fondo e permanenti concernenti la vita economica.
Occorre invece maggiore chiarezza in merito a:
- i fini mediati ed immediati che lo Stato deve proporsi con i suoi interventi nell'attività economica;
- le funzioni fondamentali di ciascun componente del sistema;
- le conseguenze degli interventi pubblici.
In un suo studio, che compare nel Dizionario di Economia Politica, il prof. Bacchi Andreoli così riassume gli specifici modi di essere di una politica economica discendente da una precisa progettualità, e quindi impegnata sul terreno della programmazione e delle interrelazioni da rispettare fra le varie sequenze:
- politica della piena occupazione, con l'individuazione del provvedimenti rivolti a conseguire e mantenere la piena occupazione della forza lavoro o, per usare un'espressione diffusa, rivolti a "conseguire e mantenere un alto e stabile livello di occupazione". E non staremo a ricordare i coinvolgimenti che ne derivano per i livelli salariali, per incentivazioni necessarie, per la dinamica di investimenti mirati e così via;
- politica anticiclica, con lo scopo di moderare le fluttuazioni cicliche dell'attività economica. Tale politica è spesso confusa, in caso di depressione, con la politica della piena occupazione. Una definizione oggi più pertinente e corrente è quella di politica congiunturale, contraddistinta da impostazioni ed indirizzi che devono agire sia per contenere e riequilibrare gli effetti delle fasi sfavorevoli, sia per accrescere sintomi e risultati delle fasi favorevoli. D'altra parte, nessuna congiuntura si distingue per la totalità dei suoi aspetti, nell'uno e nell'altro caso;
- politica del lavoro, comprendente i provvedimenti rivolti a disciplinare i rapporti giuridici ed economici fra i lavoratori ed i possessori degli altri fattori produttivi, e ciò nell'ottica di cui si è detto prima e con le concatenazioni con una politica sociale, e cioè l'insieme dei provvedimenti rivolti ad elevare il tenore di vita delle classi lavoratrici, mediante le assicurazioni sociali, la regolamentazione delle ore di lavoro, la disciplina del lavoro delle donne e dei bambini, ecc.;
- politica agraria nella molteplicità delle possibili incidenze in campo produttivo, di commercializzazione, di flussi di lavoro, di adeguamento ambientale, di interrelazioni con gli altri settori, ecc.;
- politica industriale, che si occupa dei provvedimenti relativi alla organizzazione, alla disciplina ed al controllo
dell'attività industriale, con specificazioni interessanti tutti i settori nei quali lo Stato ritiene di dover intervenire. Esiste o non esiste, quindi, una politica siderurgica, una politica energetica, una politica edilizia, una politica mineraria e così via, che poi altro non dovrebbero essere se non programmazione. Gran parte di queste materie è essenziale per la nostra realtà economica ed è alla ricerca del suo ubi consistam proprio in termini di una programmazione, da inquadrare in una politica generale per tutta l'industria, della quale si hanno gli abbozzi da condurre allo sbocco finale dell'organicità e dell'applicazione;
- politica dei trasporti, diretta all'organizzazione ed alla gestione del trasporti e comprensiva quindi della politica dei trasporti ferroviari (con le testimonianze che essa oggi offre con la riforma delle Ferrovie dello Stato), del trasporti marittimi, dei trasporti aerei, dei trasporti automobilistici, ecc.;
- politica monetaria, con i provvedimenti inerenti a scelte interne ed ai condizionamenti internazionali, agli impegni conseguenti, alle interdipendenze operative che ne derivano;
- politica del credito, in termini sia di regolamentazione, sia di correntezza della sua gestione e delle sue erogazioni;
- politica commerciale, che si occupa della distribuzione dei beni e servizi all'interno;
- politica commerciale internazionale, diretta a rendere equilibrata la situazione degli scambi e del pagamenti con gli altri Paesi, con riguardo ai vari capitoli in cui essa confluisce e perciò con applicazioni interessanti la politica doganale e quella valutaria.

L'efficienza dello Stato
Ma c'è ancora un capitolo da aggiungere e riguarda il sostanziale ripensamento della funzionalità dei servizi pubblici, che è quanto dire quell'assetto dello Stato che costituisce, anche programmaticamente, un obiettivo invano finora perseguito, nonostante i propositi dei Governi che si sono fin qui susseguiti, taluni anche all'insegna della funzione pubblica da risanare.
Come le cose vadano attualmente è sotto gli occhi di tutti. Il 93% degli italiani, secondo un'indagine Doxa, sa che gestire male i servizi pubblici, come oggi purtroppo si verifica, significa aggravare i problemi socio-economici del Paese. Ad analoga percentuale si può fare ammontare il numero di quanti considerano cattivo l'andamento del servizi pubblici. Ma soprattutto la quasi totalità degli interpellati dall'indagine Doxa sa non solo che un cattivo uso dei servizi pubblici serve a frenare lo sviluppo, cioè ad inceppare ogni assetto soprattutto se non programmato, ma anche che paga sufficienti tasse ed imposte per pretendere, giustamente, di più. Al 70% degli interpellati ammontano quanti ritengono di ricevere meno benefici rispetto a ciò che pagano. Il che vuoi sottolineare che il Paese reale intende urgentemente la gravità del problema, più di quanto non sia rivelato dal "potere".
Con quale svolta? Con quella appunto di un'idonea programmazione, che riveda anche i limiti entro i quali lo Stato può e dovrà operare. Secondo l'indagine Doxa solo in 34, su 100, pensano che i servizi debbano essere forniti dallo Stato. Il che significa che lo Stato stesso che deve pensare a tutto è divenuto obsoleto, perché da una parte il cittadino sa quello che deve fare per conto suo (gli sviluppi della previdenza volontaria stanno fra l'altro ad indicarlo) e, dall'altra, sa quello che può attendersi dallo Stato, e che naturalmente pretende sia effettuato in maniera adeguata.
Lo sbocco di questa realtà secondo gli operatori dovrebbe essere guidato dai seguenti principii: restituzione al mercato di molte delle attività non efficacemente gestite dal settore pubblico, ricerca ed attuazione di nuove formule per realizzare con logiche privatistiche la gestione del servizi, netta separazione fra il controllo pubblico e la gestione operativa dei servizi, promozione di accordi fra pubblico e privati. Una programmazione così intesa e localizzata ha, come si vede, un grande spazio da utilizzare e da inquadrare in una metodologia progettuale, che al momento tarda a farsi strada.

Il lungo cammino da percorrere
Vari sono gli autori che si sono esercitati nella tematica delle scelte organiche da effettuare. Bacchi Andreoli cita, fra gli altri, Bresciani Turroni, Robbins, Vito, Ropke, Boulding, Einaudi.
Quest'ultimo si distingue - come avverte Federico Caffè nella sua prefazione al volume di Einaudi Lezioni di Politica Sociale - con la sua disposizione a segnalare "la via da scansare a quella da percorrere". Il che, anche in un economista guidato dai principii ispiratori dell'economia di mercato, comporta una chiara e coerente progettualità di comportamenti.
Diceva Einaudi che per decidere bisogna conoscere. La programmazione costituisce la migliore ed effettiva formula di sintesi fra il conoscere ed il decidere. Nel rispetto dell'incitamento dello stesso Einaudi a "perfezionare e riformare le istituzioni, i costumi, le leggi, allo scopo di toccare più ali di vita". E questo è il lungo cammino da compiere, anche nell'ottica della specifica angolazione da noi fin qui considerata.


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