Dottrina
e condotta politica sono entrambe coinvolte, con un'interrotta continuità
di impegni e di indirizzi, nel perseguimento della determinazione e
dell'operatività di un disegno complessivo ed organico in economia.
Le strade per questo finalismo sono, come si sa, tante. Alcune di esse
sono state abbandonate o hanno perduto il fascino e le motivazioni primigeni,
altre sono state perseguite con risultati concreti non corrispondenti
al loro costo in termini, oltre che economici, anche politici, altre
infine sono praticate nella ricerca di strumentazioni sempre più
valide.
Quando rivolgiamo lo sguardo all'immediata realtà politico-economica
che ci circonda, vediamo che le strutturazioni possibili sono state
e sono tuttora sperimentate, con la sola eccezione della pianificazione,
sostituita tuttavia da singoli piani o progetti. Bilancio dello Stato
con la correlata legge finanziaria, bilancio economico nazionale, programmazione,
politica del redditi, ecc. costituiscono altrettanti poli di una condotta
economica ispirata ad una univoca metodologia, ad una certa continuità
di risultati, ad un concreto rispetto delle compatibilità e delle
condizioni indispensabili.
Abbiamo detto che la pianificazione esula dal nostro sistema, essendo
l'opposto di quel liberismo economico, pur delimitato, nella contemperanza
della sfera pubblica e di quella privata, che è il fondamento
del nostro quadro politico, sociale ed economico. Nella prassi e nelle
dottrine dominanti la pianificazione comporta l'assunzione di proprietà
da parte dello Stato di tutti i mezzi di produzione, nonché l'identificazione
nello stesso Stato della figura di datore di lavoro. Negazione dell'iniziativa
individuale, della proprietà personale, (fatte salve talune eccezioni
più o meno marginali), incertezza di una retribuzione proporzionata
al lavoro svolto, burocratizzazione, perdita di libertà politica,
ecc. costituiscono i tratti salienti della pianificazione dovunque sia
stata praticata. le esperienze del Sud Europa, che l'ha adottata, sono
ora dirette ad un sostanziale ribaltamento, come promettono gli intenti
e le riforme di Gorbaciov, una sorta di nuova NEP che dovrebbe essere
riparatrice degli errori e delle falle che si sono susseguiti dalla
Rivoluzione di ottobre in poi, alla ricerca oggi di soluzioni che vorrebbero
conciliare la pianificazione con principii liberistici addomesticati
e più o meno epidermici. Il liberismo vero, che indubbiamente
non esiste allo stato puro, è evidentemente tutt'altra cosa,
anche nell'evoluzione che lo distanzia dalle origini e ne determina
l'adeguamento alla realtà di oggi.
Ma se non esistono in Italia forme di pianificazione, si sono avuti
vari Piani (come lo Schema Vanoni, predisposto negli anni '50, o la
progettualità diretta alla valorizzazione del Mezzogiorno con
le molteplici varianti di immagine e di operatività, ecc.) e
altrettanti devono essere registrati in campo internazionale: da quello
Marshall a quello Mansholt per la trasformazione radicale delle strutture
agricole dei Paesi del MEC, da quello Barre, contenente norme ed orientamenti
diretti ad una più stretta collaborazione monetaria fra gli stessi
Paesi, a quello di Horowitz per la distribuzione degli aiuti erogati
ai Paesi sottosviluppati.
Mentre taluni di questi Piani hanno avuto un'operatività limitata,
diretti com'erano a fronteggiare esigenze temporali spesso ispirate
più ad affermazioni di principii che non ad una precisa e vincolante
progettualità, altri si sono più radicalmente confrontati
con la realtà, anche se non 'hanno presentato risultati concreti
positivamente idonei e corrispondenti pure al costo incontrato. Fa spicco
in questo ambito il Piano Beveridge, che nel 1942 ha organizzato il
sistema di sicurezza sociale britannico, per il diritto di assistenza
completa e gratuita a carico dello Stato. l'uomo, cioè, protetto
dalla culla alla bara, con tutta l'insostenibilità ed estrema
gravosità del principio, che oggi, a prescindere dalle formulazioni
fattene in Inghilterra, sta conducendo ad una nuova cultura del Welfare
State.
Comunque, qualche passo innanzi in Italia si ècercato di compiere
su questo terreno con il cosiddetto Progetto '80, predisposto dai tecnici
del nostro Ministero del Bilancio e della Programmazione Economica,
e nel quale erano precisati gli obiettivi sociali ed economici che il
nostro Paese avrebbe dovuto realizzare entro il 1980.
In detto Progetto si consideravano lo spostamento delle forze di lavoro
dall'agricoltura agli altri settori, l'aumento dell'occupazione, la
riduzione degli squilibri settoriali e territoriali, le riforme scolastiche,
sanitaria, fiscale e burocratica, la politica della casa e quella contro
gli inquinamenti. Come si vede, sono problemi di oggi, frequentemente
fin qui solo scalfiti e perciò ricorrenti nei vari programmi
di Governo, come vedremo meglio più oltre.
Interessante in questo Progetto era lo sforzo di ricerca di una certa
strumentazione, con lo stralcio di due piani quinquennali relativi al
periodo 1971-75 ed a quello 1976-80, a loro volta suddivisi in piani
annuali con la formulazione di progetti pilota. Le realizzazioni che
ne sono seguite non sono state tuttavia pari alle ambizioni iniziali,
che certamente ebbero una maggiore enfasi nella primissima fase di applicazione
che non successivamente. E ciò si è verificato più
che altro in conseguenza dell'affievolimento della volontà politica,
con le ricorrenti crisi governative, con la instabilità che ne
è seguita, con un debole decisionismo anche in quelle fasi che
promettevano, ed in parte hanno realizzato, una certa stabilità.
Modelli di
programmazione
E per queste ragioni che la programmazione ha incontrato in Italia
i noti limiti, che si sono spesso tradotti in vere e proprie carenze
di un'organica condotta economica, al tempo stesso strutturale e congiunturale.
Dottrina e prassi ci ricordano a questo riguardo che la programmazione
può essere settoriale, locale e generale. le esperienze che
anche noi registriamo riguardano tutti e tre questi modelli, con la
precisazione dei fini da raggiungere, ma quasi sempre con una certa
vaghezza in merito ai mezzi ed al metodo da impiegare. E questi, come
si sa, comportano la fissazione del termini di tempo da rispettare,
dell'ordine di conseguimento e di messa a punto nella determinazione
delle conseguenti priorità, della identificazione dei mezzi
disponibili e del grado di convenienza loro attribuibile in termini
di costi e di risultati, al cui vertice vi è quello di un complessivo
equilibrato sviluppo.
Sul piano teorico e su quello effettivo, la programmazione può
essere attuata mediante:
- La determinazione dei criteri di massima, che gli operatori sono
invitati a seguire nel loro interesse. E si tratta della cosiddetta
programmazione indicativa, della quale abbiamo testimonianze in molti
Paesi industrializzati, a cominciare dagli USA.
- L'adozione di precise norme da seguire, accompagnate queste da controlli
rigorosi, che danno luogo alla cosiddetta programmazione precettiva,
che rappresenta un generale modo di essere nei Paesi occidentali,
vari dei quali però, mentre sono tassativi nelle formulazioni
a carico dei cittadini, non altrettanto fermi e coerenti sono nella
loro subordinazione ai dettati proclamati. Nasce anche per questa
causale quello che è il distacco, in sistemi fra i quali il
nostro, fra il Paese reale e quello legale.
- La previsione di norme obbligatorie per le imprese pubbliche e non
già per quelle private, essendo queste ultime sottoposte agli
interventi statali di incentivazione o di disincentivazione, con i
quali realizzare le condizioni di convivenza ed auspicabilmente di
collaborazione fra la sfera pubblica e quella privata. Ne deriva la
cosiddetta programmazione impegnativa. Un esempio in questa direzione
è costituito dal nostro IRI, con la tendenza in esso al ripristino
della economicità delle gestioni, alla puntualizzazione nei
settori considerati strategici, all'operatività di una effettiva
managerialità ed anche, con queste premesse, al perseguimento
delle privatizzazioni necessarie (e questa è una politica che
all'estero è perseguita con particolare ampiezza: dall'inghilterra,
dalla Francia, dalla Germania Federale in Europa; dagli Stati Uniti
e dal Giappone nel quadro occidentale extraeuropeo).
- La modifica di parte delle strutture economiche, che dà luogo
alla cosiddetta programmazione strutturale. Quanto a queste strutture,
molti principii derivano dal dettato costituzionale, non sempre tuttavia
compiutamente applicato o reso applicabile dalle carenze legislative
o regolamentari. Il problema si manifesta con urgenza nel nostro Paese,
in un momento in cui si vuoi porre mano a quelle riforme istituzionali,
che sono fin qui considerate nella loro sfera politica, e non già
pure in quella economica e sociale, come è certamente indispensabile,
ad esempio, in termini di rappresentatività: un problema questo
che investe oggi in particolare misura la sfera sindacale.
Quali siano o possano essere i modelli di programmazione, fondamentale
è per essi il problema della strumentazione, e cioè
dei vincoli operativi che bisogna farne discendere con una continuità
e logicità di sequenze ed anche con i necessari coordinamenti
fra le varie forme di intervento e fra le varie matrici di esse, che
per l'Italia, ad esempio, comportano pure la saldatura fra i modi
di essere dello Stato e quelli propri delle Regioni. Oggi come oggi,
invece, questi due piani ancora non convergono in funzione di una
finale equilibrata unità. Come si vede, la programmazione in
Italia ha molto cammino da compiere utilmente, proprio in funzione
di ,una globale politica economica il cui avvento viene infatti trasferito
da una legislatura all'altra.
La politica
dei redditi
Da questo complesso bagaglio che abbiamo alle nostre spalle, la prospettiva
è dominata da una parte del grosso complesso delle esigenze
da fronteggiare e dei problemi, talvolta cronici, da risolvere, e
dall'altra, da alcuni possibili sbocchi che la dialettica politica
rende attuali. E' questo il caso della cosiddetta politica del redditi.
In sostanza, essa comporta anzitutto la valutazione dei redditi del
vari soggetti in funzione di un loro corso che globalmente superi
il flusso del beni e del servizi prodotti ed offerti sul mercato.
Con detto flusso deve essere equilibrato il complesso del compensi
attribuibili ai vari fattori della produzione, e cioè rendite,
interessi e profitti, salari. Varie sono, dunque, le angolazioni che
ne derivano, tutte da valutare singolarmente e nelle loro reciproche
interdipendenze, non dovendosi ritenere esaurita o puntualizzata questa
tematica solo nell'ambito delle interrelazioni capitale-lavoro. E
difatti gli obiettivi immanenti sono quelli di uno sviluppo reale,
armonico nelle sue incidenze, generatore di un effettivo progresso.
Il che comporta la piena responsabilizzazione di tutti i fattori politici
ed economici, che fin qui si èavuta senza un generale coinvolgimento,
senza una precisa progettualità, molto spesso solo sulla base
di contingenti occasionalità e con la subalternità della
politica economica a quella monetaria.
Gli impegni che ne discendono comportano scelte che all'insegna della
politica dei redditi vengono a riguardare e condizionare la crescita
del PIL, i consumi delle famiglie, gli investimenti, i conti con l'estero,
il tasso inflazionistico, il fabbisogno pubblico, l'efficienza della
macchina pubblica. E queste sono altrettante voci che mostrano accentuati
segni di delicatezza non solo per l'anno corrente, ma anche per il
prossimo anno, come avvertono gli osservatori congiunturali più
qualificati.
Avverte al riguardo il 49° Rapporto semestrale dell'ISCO al CNEL
che forte è il rischio che la mancanza di un disegno generale
lasci il sistema economico senza timoniere e privo di una rotta ben
definita, con un'inefficienza statale che viene a rappresentare il
vero freno allo sviluppo dell'economia. E' in sostanza sotto accusa
una politica economica incapace di attuare una manovra di rientro
del disavanzo pubblico e di rilancio degli investimenti.
Le scelte fondamentali da attuare sono pertanto quelle inerenti ad
un drastico taglio delle spese correnti, ad una politica fiscale più
equa e produttivistica, ad un'amministrazione dello Stato orientata
all'efficienza (garante pur essa del redditi dei cittadini), ad un
reale sviluppo nel rispetto di tutte le condizioni ad esso necessarie
con la creazione di un conforme contesto operativo. Tutto ciò
ha evidentemente a monte ed a valle proprio una politica del redditi,
globalmente intesa e praticata.
La normativa
antimonopolistica
Un altro strumento di indirizzo, del quale nella realtà italiana
si parla non sempre con la necessaria avvedutezza e l'osservanza dell'intera
panoramica, è quello della normativa antimonopolistica. Ma
nella sua determinazione varie sono le condizioni da osservare. Il
problema essenziale è quello per noi di conciliare diverse
esigenze, come l'assimilazione a più alto grado possibile e
necessario della normativa europea, con una capacità integrativa
di questa che sia compatibile con la specificità del nostro
sistema; i evitare ogni ambizione protezionistica come è avvenuto
in alcuni Paesi; di disancorarsi da ogni opzione ideologica; di evitare,
sì gli abusi da posizione dominante, ma di perseguire un disegno
complessivo che salvaguardi la presenza privata nell'economia e la
contemperanza della presenza pubblica con quella privata. Senza una
politica economica complessiva si corrono solo rischi di distorsioni
e di inadeguatezza anche a quelle che sono le esigenze di competitività
del nostro sistema.
Tutto ciò è stato dibattuto nella prima parte dell'anno
anche in un convegno indetto dal PRI su privatizzazioni ed antitrust
nell'internazionalizzazione dell'industria italiana. Tre questioni
queste che, come era nell'insegna stessa del convegno, sono strettamente
interdipendenti. In detto convegno si è parlato anche della
composizione e dei compiti della commissione di vigilanza che dovrà
sovraintendere a questa materia.
L'orientamento manifestato al riguardo appare quello della determinazione
di funzioni, non di autorizzazione, ma di istruttoria sui casi di
denuncia di trasgressione, in modo da non creare nuovi lacci e lacciuoli
preventivi, ma di disporre di strumenti prontamente operativi nei
casi indispensabili, con una completa astrazione dagli interessi organizzati,
che, come si sa, non sono soltanto prevalentemente economici, ma anche
frequentemente di natura strettamente politica.
Il condizionamento
del 1992
Sempre nel disegno di una precisa progettualità, incombenti
sono gli sbocchi ed i mezzi offerti dall'appuntamento del 1992, data
per il completamento del mercato interno europeo.
Il costo della non Europa, quale è quello che abbiamo ancora
dinanzi, perché il mercato unico non è stato ancora
realizzato, èparticolarmente elevato. Ha a che fare con le
formalità alle frontiere, che comportano una perdita di 12
miliardi di ECU all'anno (un ECU vale all'incirca 1540-1550 lire);
con il costo fra i 40 e i 50 miliardi di ECU determinato dalla non
armonizzazione di una serie di norme e regole tecniche nazionali applicabili
a vari prodotti; con i costi derivanti dalle ripetizioni delle misure
di controllo e di sorveglianza, o dalle prassi discriminanti del pubblici
poteri nazionali, le cui ordinazioni e le cui aggiudicazioni spesso
privilegiano imprese nazionali, o ancora dalle dimensioni ridotte
dei mercati nazionali che accrescono i costi nazionali di produzione,
ecc.
Gli obiettivi che d'ora innanzi dovranno perseguire le politiche strutturali
comunitarie (e sono chiare le implicazioni che ne derivano per le
attitudini ed i comportamenti delle singole politiche nazionali, da
adeguatamente programmare) sono così riassumibili:
- sviluppo ed adeguamento delle economie regionali in ritardo strutturale
(e qui chiaro èil coinvolgimento del nostro Mezzogiorno in
una realtà nazionale che vede il Nord partecipe dell'area avanzata
della CEE ed il Sud membro di quella arretrata);
- riconversione delle regioni industriali in declino, da intendere
ovviamente non solo nella loro dimensione geografica, ma anche nella
sperequazione esistente fra i vari settori;
- lotta contro la disoccupazione, in un quadro italiano che vede l'agricoltura
assorbire sempre minori unità di lavoro, l'industria in situazione
di stallo dell'occupazione (nella grande industria, in flessione),
il terziario in ascesa;
- la promozione e le facilitazioni dell'inserimento professionale
dei giovani, privilegiando ovviamente quelle fonti e quegli sbocchi
che oggi hanno maggiori capacitò di assorbimento delle esuberanti
energie di lavoro.
Si tratta, come si vede, di una complessa manovra da attuare, alla
quale dobbiamo adeguare la nostra normativa e la nostra capacità
operativa, che presuppongono una corrispondente programmazione, che
questa volta non dovrebbe giungere troppo tardi.
Ma che cosa si muove in questa direzione? Un'indicazione ci viene
a questo riguardo dal programma del Governo De Mita.
Gli obiettivi
del Governo
Questo programma è particolarmente fitto, ma dà più
risalto agli obiettivi da conseguire anziché alla metodologia
ed alla strumentazione necessarie. Nell'ambito della politica economica
e finanziaria, al primo posto è il contenimento della spesa
pubblica. Si tratta di tagliare recisamente. le cifre inizialmente
indicate parlavano di 10.000 miliardi, quelle successive si sono attestate
sui 6-7 mila. Come? Si risponde con l'affermazione che il contenimento
delle spese correnti statali deve essere effettuato entro il tasso
inflazionistico ed il rigoroso controllo dei trasferimenti ai vari
centri di spesa.
Purtroppo molti interventi si tradurranno in aumenti di entrate fiscali.
Aumenteranno l'IVA e le imposte sulla casa, ma, su questa, estese
sono le riserve nella stessa maggioranza. Le indicazioni per la riduzione
della spesa con la previsione di un attestamento del disavanzo sui
115 mila miliardi e con una formulazione che investe la diversa contrattazione
sindacale nel pubblico impiego, la riforma della procedura di approvazione
del bilancio dello Stato, le modifiche del regolamenti parlamentari
per rendere snello l'iter della legge finanziaria non sembrano tuttavia
suscettibili di produrre effetti a più o meno breve scadenza.
E ciò per il prevedibile travaglio connesso all'iter relativo
e per il fatto che si tratta di elementi che potranno trovare solo
indirettamente i loro sbocchi positivi e così mediatamente
sprigionare i loro effetti.
Due altri capisaldi della politica economica vengono a riguardare
il Mezzogiorno e la funzione dell'industria pubblica.
Circa il primo punto, il noto e consueto finalismo (per fronteggiare
un problema che condiziona l'intero sistema nazionale) si accompagna
alle dichiarazioni di intenti riguardanti l'orientamento meridionalistico
e di tutta la politica economica, gli investimenti industriali nel
Sud, le deroghe alle normative amministrative vigenti per snellire
l'intervento nel Mezzogiorno ed infine la promozione di accordi fra
imprenditori e sindacati.
Quanto poi al ruolo dell'industria pubblica, mentre si sottolinea
la necessità di ridefinire il contenuto strategico delle partecipazioni
statali, si afferma che sono escluse politiche di dismissione di attività.
il che diventa pregiudiziale come si vede per la stessa determinazione
del ruolo.
Queste sono le principali intenzioni, che nelle valutazioni espresse
dagli operatori economici, trovano altre opportune integrazioni in
merito a quanto occorre fare perché dai programmi si passi
agli impegni di una programmazione. Dicono in sostanza gli operatori
che occorre una maggiore attenzione rivolta a:
- i fattori di competitività;
- il superamento degli elementi di debolezza che gravano in particolare
misura sulle piccole imprese;
- una politica di infrastrutture che spazi dagli investimenti più
tradizionali a quelli in beni immateriali;
- una politica economica che privilegi la valorizzazione del capitale
umano;
- condizioni propizie alla vitalità dell'impresa, così
da rendere possibili nuove iniziative e la crescita dimensionale i
quelle esistenti.
Il tutto, dunque, per una maggiore concorrenzialità della nostra
economia, per un'organica riforma fiscale, la piena agibilità
di un credito mirato in relazione a fini di potenziamento dello sviluppo,
della ricerca e del l'innovazione, ecc.
Tratti del
contesto indispensabile
Una programmazione così ispirata, se deve puntare sulla soluzione
dei suddetti complessi problemi, deve pur anche agire sul generale
contesto, nel quale in propizie condizioni può e deve esplicarsi
lo sforzo di tutti i soggetti.
In questo ambito trova rilievo, come si sa, quello relativo all'ambiente,
che rappresenta pure l'habitat dell'attività economica, oltre
che del vivere civile. In detto ambito si registrano molteplici interventi
che ora occorre meglio coordinare e rendere efficaci, utilizzando
al meglio le esperienze compiute negli altri Paesi industrializzati,
che non sono tutte positive, e perciò fonte di esperienze da
sempre meglio vagliare in termini conoscitivi ed operativi nelle loro
implicazioni dirette ed indirette. Ma un'altra esigenza, sempre più.
pressante, si manifesta nel nostro contesto economico ed è
quella cui oggi sono puntati maggiormente gli occhi degli operatori,
degli stessi politici, dell'opinione pubblica. Si tratta della regolamentazione
del diritto di sciopero, che costituisce un altro indispensabile mezzo
di miglioramento e salvaguardia del contesto operativo delle attività
produttive. Come?
Il Governo Goria nella persona del suo Presidente aveva tentato un
disegno di normativa per i servizi di maggiore interesse pubblico,
ma il tentativo fu subito bloccato alle sue origini, sia per le riserve
procedurali manifestate da qualche partito della stessa maggioranza,
sia per la netta opposizione dei Sindacati.
Ora il Governo De Mita così si esprime programmaticamente a
questo riguardo: "C'è la necessità di conferire
efficacia generale ed un'eventuale normativa sull'esercizio del diritto
di sciopero, e ciò mediante i seguenti punti: negli accordi
sindacali vanno previste norme dirette a prevenire e comporre i conflitti,
regolamentazione legislativa dello sciopero nei servizi pubblici,
sanzioni per eventuali violazioni".
Nell'indirizzo del Governo si sottolinea altresì la necessità
di rimuovere le cause dei conflitti attribuibili ad inefficienze e
ritardi delle autorità e del responsabili delle aziende, dovendo
le regole valere per tutte e due le parti in causa, e cioè
datori di lavoro e dipendenti. Fra i punti meno chiari figura, poi,
ad esempio, quello di evitare con cura l'introduzione di regole e
di misure che direttamente o indirettamente possano incidere sulla
sfera della rappresentatività e della titolarità a tutela
degli interessi del lavoratori, come sulla nascita di nuovi soggetti
di rappresentanza sindacale. I Sindacati prendono posizione contro
queste impostazioni, che condurrebbero, a loro detta, ad una soluzione
equivoca ed in contraddizione con la proposta sindacale, contraria
alla pura regolamentazione per legge, prevedendo un mix di interventi.
In sostanza si scarta la necessità di ricorrere ad una legge
o ad un atto equiparato per conferire efficacia erga omnes alle regole
limitative dell'esercizio del diritto di sciopero, scaturenti dalla
autodisciplina, in forza del fatto che l'inserimento dei cosiddetti
codici all'interno del contratti collettivi ne determinerebbe indirettamente
l'efficacia generale obbligatoria. Ma quale sarebbe il destino di
una siffatta soluzione, anche per i firmatari dei vari contratti,
oltre che per quanti alla loro formulazione non hanno partecipato?
La Costituzione nell'articolo 40 non parla di legge anziché
di mere regole contrattuali?
Qualche cosa ora si sta muovendo al Senato, dove sono in esame varie
proposte di legge presentate dai partiti, ai quali si è,aggiunto
recentemente quello comunista. Questo ha come elemento caratterizzante
una riforma della precettazione, di un istituto cioè al quale
viene affidato il compito Ai garantire, in caso di scioperi, la continuità
delle prestazioni che sono indispensabili per assicurare l'effettività
del diritti costituzionali garantiti della persona: sicurezza ed incolumità
pubblica, salute, circolazione delle persone, dei beni ed energie
di prima necessità, comunicazione ed informazione, nei limiti
e nelle forme che la rendono improrogabile, prestazioni previdenziali
e pensionistiche.
Nella valutazione di queste varie proposte l'orientamento senatoriale
sembra ispirarsi ai seguenti principii: riforma dell'istituto della
precettazione, istituzione di nuovi strumenti per gestire più
razionalmente i conflitti, determinazione delle sanzioni per chi viola
le regole, elenco o riferimento ai servizi giudicati essenziali. Queste
le intenzioni, ma l'impressione è che al momento si è
ancora in una fase prevalentemente dialettica. la realtà ci
ricorda, fra l'altro, che nel corso delle legislature fin qui trascorse
le proposte di legge presentate in Parlamento per l'attuazione, sia
pure parziale, dell'articolo 40 sono state all'incirca un centinaio.
34 anni fa De Gasperi affermava: "Per tre volte i Governi da
me presieduti presentarono disegni di legge per regolare il diritto
di sciopero, e tutte le volte i rappresentanti sindacali fecero valere
le loro obiezioni". Il fatto è che ora la realtà
incalza, che le dichiarazioni di intenti non bastano, che le renitenze
di fronte alla gravità delle regolamentazioni delle astensioni
dal lavoro non pagano, che il Paese, dopo 40 anni dalla Costituzione,
attende l'effettiva applicazione del dettato costituzionale. Si parla
oggi di un dosaggio da realizzare fra gli impegni assunti autonomamente
fra le parti sociali e le norme prescritte da una legge. Ma oltre
il dosaggio ciò che occorre è la concretezza e la chiarezza
dell'enunciazione ed il rigore della relativa valida applicazione.
E' solo su questo terreno che si possono valutare e verificare le
ancora vaghe intenzioni di oggi, da rendere risolutive con un disegno
progettuale, e quindi anche di programmazione, che realizzi un'organica
politica del lavoro, nei suoi contenuti di ordine economico e normativo,
di incentivazione del l'occupazione, di formazione professionale,
di correntezza del mercato del lavoro e così via.
Verifiche e confronti devono essere intensificati a questo riguardo;
dovranno essere certamente istituzionalizzati, comporteranno precise
cadenze e localizzazioni, dopo che la prassi finora seguita ha dato
frutti solo molto parziali. Probabilmente nelle tematiche di riforme
istituzionali anche questo aspetto dovrà essere adeguatamente
inquadrato.
Spazialità
della programmazione
Come si vede, la spazialità di una politica di programmazione
è molto ampia, riguarda il modo di essere di una politica economica
che non sia contingente, ma lineare, organica, capace di incidere,
oltre il contingente congiunturale, sulle strutture stesse. Oggi invece
sono premiate le scelte interessanti questo o quell'aspetto istituzionale
settoriale e sono eluse quelle di fondo e permanenti concernenti la
vita economica.
Occorre invece maggiore chiarezza in merito a:
- i fini mediati ed immediati che lo Stato deve proporsi con i suoi
interventi nell'attività economica;
- le funzioni fondamentali di ciascun componente del sistema;
- le conseguenze degli interventi pubblici.
In un suo studio, che compare nel Dizionario di Economia Politica,
il prof. Bacchi Andreoli così riassume gli specifici modi di
essere di una politica economica discendente da una precisa progettualità,
e quindi impegnata sul terreno della programmazione e delle interrelazioni
da rispettare fra le varie sequenze:
- politica della piena occupazione, con l'individuazione del provvedimenti
rivolti a conseguire e mantenere la piena occupazione della forza
lavoro o, per usare un'espressione diffusa, rivolti a "conseguire
e mantenere un alto e stabile livello di occupazione". E non
staremo a ricordare i coinvolgimenti che ne derivano per i livelli
salariali, per incentivazioni necessarie, per la dinamica di investimenti
mirati e così via;
- politica anticiclica, con lo scopo di moderare le fluttuazioni cicliche
dell'attività economica. Tale politica è spesso confusa,
in caso di depressione, con la politica della piena occupazione. Una
definizione oggi più pertinente e corrente è quella
di politica congiunturale, contraddistinta da impostazioni ed indirizzi
che devono agire sia per contenere e riequilibrare gli effetti delle
fasi sfavorevoli, sia per accrescere sintomi e risultati delle fasi
favorevoli. D'altra parte, nessuna congiuntura si distingue per la
totalità dei suoi aspetti, nell'uno e nell'altro caso;
- politica del lavoro, comprendente i provvedimenti rivolti a disciplinare
i rapporti giuridici ed economici fra i lavoratori ed i possessori
degli altri fattori produttivi, e ciò nell'ottica di cui si
è detto prima e con le concatenazioni con una politica sociale,
e cioè l'insieme dei provvedimenti rivolti ad elevare il tenore
di vita delle classi lavoratrici, mediante le assicurazioni sociali,
la regolamentazione delle ore di lavoro, la disciplina del lavoro
delle donne e dei bambini, ecc.;
- politica agraria nella molteplicità delle possibili incidenze
in campo produttivo, di commercializzazione, di flussi di lavoro,
di adeguamento ambientale, di interrelazioni con gli altri settori,
ecc.;
- politica industriale, che si occupa dei provvedimenti relativi alla
organizzazione, alla disciplina ed al controllo
dell'attività industriale, con specificazioni interessanti
tutti i settori nei quali lo Stato ritiene di dover intervenire. Esiste
o non esiste, quindi, una politica siderurgica, una politica energetica,
una politica edilizia, una politica mineraria e così via, che
poi altro non dovrebbero essere se non programmazione. Gran parte
di queste materie è essenziale per la nostra realtà
economica ed è alla ricerca del suo ubi consistam proprio in
termini di una programmazione, da inquadrare in una politica generale
per tutta l'industria, della quale si hanno gli abbozzi da condurre
allo sbocco finale dell'organicità e dell'applicazione;
- politica dei trasporti, diretta all'organizzazione ed alla gestione
del trasporti e comprensiva quindi della politica dei trasporti ferroviari
(con le testimonianze che essa oggi offre con la riforma delle Ferrovie
dello Stato), del trasporti marittimi, dei trasporti aerei, dei trasporti
automobilistici, ecc.;
- politica monetaria, con i provvedimenti inerenti a scelte interne
ed ai condizionamenti internazionali, agli impegni conseguenti, alle
interdipendenze operative che ne derivano;
- politica del credito, in termini sia di regolamentazione, sia di
correntezza della sua gestione e delle sue erogazioni;
- politica commerciale, che si occupa della distribuzione dei beni
e servizi all'interno;
- politica commerciale internazionale, diretta a rendere equilibrata
la situazione degli scambi e del pagamenti con gli altri Paesi, con
riguardo ai vari capitoli in cui essa confluisce e perciò con
applicazioni interessanti la politica doganale e quella valutaria.
L'efficienza
dello Stato
Ma c'è ancora un capitolo da aggiungere e riguarda il sostanziale
ripensamento della funzionalità dei servizi pubblici, che è
quanto dire quell'assetto dello Stato che costituisce, anche programmaticamente,
un obiettivo invano finora perseguito, nonostante i propositi dei
Governi che si sono fin qui susseguiti, taluni anche all'insegna della
funzione pubblica da risanare.
Come le cose vadano attualmente è sotto gli occhi di tutti.
Il 93% degli italiani, secondo un'indagine Doxa, sa che gestire male
i servizi pubblici, come oggi purtroppo si verifica, significa aggravare
i problemi socio-economici del Paese. Ad analoga percentuale si può
fare ammontare il numero di quanti considerano cattivo l'andamento
del servizi pubblici. Ma soprattutto la quasi totalità degli
interpellati dall'indagine Doxa sa non solo che un cattivo uso dei
servizi pubblici serve a frenare lo sviluppo, cioè ad inceppare
ogni assetto soprattutto se non programmato, ma anche che paga sufficienti
tasse ed imposte per pretendere, giustamente, di più. Al 70%
degli interpellati ammontano quanti ritengono di ricevere meno benefici
rispetto a ciò che pagano. Il che vuoi sottolineare che il
Paese reale intende urgentemente la gravità del problema, più
di quanto non sia rivelato dal "potere".
Con quale svolta? Con quella appunto di un'idonea programmazione,
che riveda anche i limiti entro i quali lo Stato può e dovrà
operare. Secondo l'indagine Doxa solo in 34, su 100, pensano che i
servizi debbano essere forniti dallo Stato. Il che significa che lo
Stato stesso che deve pensare a tutto è divenuto obsoleto,
perché da una parte il cittadino sa quello che deve fare per
conto suo (gli sviluppi della previdenza volontaria stanno fra l'altro
ad indicarlo) e, dall'altra, sa quello che può attendersi dallo
Stato, e che naturalmente pretende sia effettuato in maniera adeguata.
Lo sbocco di questa realtà secondo gli operatori dovrebbe essere
guidato dai seguenti principii: restituzione al mercato di molte delle
attività non efficacemente gestite dal settore pubblico, ricerca
ed attuazione di nuove formule per realizzare con logiche privatistiche
la gestione del servizi, netta separazione fra il controllo pubblico
e la gestione operativa dei servizi, promozione di accordi fra pubblico
e privati. Una programmazione così intesa e localizzata ha,
come si vede, un grande spazio da utilizzare e da inquadrare in una
metodologia progettuale, che al momento tarda a farsi strada.
Il lungo cammino
da percorrere
Vari sono gli autori che si sono esercitati nella tematica delle scelte
organiche da effettuare. Bacchi Andreoli cita, fra gli altri, Bresciani
Turroni, Robbins, Vito, Ropke, Boulding, Einaudi.
Quest'ultimo si distingue - come avverte Federico Caffè nella
sua prefazione al volume di Einaudi Lezioni di Politica Sociale -
con la sua disposizione a segnalare "la via da scansare a quella
da percorrere". Il che, anche in un economista guidato dai principii
ispiratori dell'economia di mercato, comporta una chiara e coerente
progettualità di comportamenti.
Diceva Einaudi che per decidere bisogna conoscere. La programmazione
costituisce la migliore ed effettiva formula di sintesi fra il conoscere
ed il decidere. Nel rispetto dell'incitamento dello stesso Einaudi
a "perfezionare e riformare le istituzioni, i costumi, le leggi,
allo scopo di toccare più ali di vita". E questo è
il lungo cammino da compiere, anche nell'ottica della specifica angolazione
da noi fin qui considerata.
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