§ MEZZOGIORNO E MOVIMENTO CONTADINO

Il vento del Sud (5)




Maria Rosaria Pascali



Anno 1920. Di fronte alla crisi dello stato liberale, che va sfaldandosi sotto i colpi della reazione proletaria, la classe borghese vede sfuggire di mano il potere. D'altra parte, un ritorno al vecchio stato di cose diventa sempre più difficile. I consueti metodi di repressione non bastano. Resta solo la violenza clandestina di carattere brigantesco. Nel Nord, in particolare, l'offensiva è davvero aspra. Teatro di scontri: la fabbrica. Gli operai chiedono aumenti salariali e migliori condizioni di vita sui posti di lavoro. Scioperi e occupazioni di fabbriche paralizzano le attività produttive e mettono in serio pericolo le sorti del capitalismo industriale.
Nel Mezzogiorno, invece, il movimento di protesta, guidato dai contadini, non riesce a superare il livello delle agitazioni isolate e provinciali. Due sono i punti deboli: sul piano organizzativo, mancano leaders in grado di orientare le sommosse verso obiettivi definiti; sul piano operativo, viene sottovalutata la possibilità di un'unione di forze tra contadini del Sud e operai del Nord. Né gli uni né gli altri, malgrado la lezione di Salvemini e di Gramsci, comprendono che, in fondo, capitalisti e agrari sono due facce della stessa medaglia. Il nemico, quindi, è uno solo. Peraltro, numerose, in questo periodo, sono le conquiste parziali ottenute dai contadini meridionali. Si tratta di piccole vittorie che non intaccano le basi del latifondismo, ma che, comunque, permettono di spezzare la catena di soprusi e angherie perpetrati nelle campagne. l'imposizione del "contratto collettivo" rappresenta l'inizio di un vero e proprio processo di umanizzazione nei rapporti di lavoro. Ora non è più il proprietario che fissa le condizioni contrattuali: esse sono il risultato di trattative condotte con l'organizzazione contadina e trovano legittimazione in un "contratto unico", valido per tutti i lavoratori di una certa zona. Vengono così soppresse le più inique forme di sfruttamento legate al patto individuale. Ricordiamo, tra queste, la "terzeria", in base alla quale il coltivatore poteva trattenere solo un terzo del prodotto della terra: il resto doveva essere consegnato al proprietario, senza che questi contribuisse, neanche in minima parte, alle spese di produzione. Alla "terzeria" si aggiungevano poi numerosissime tasse, le cosiddette "appendici", che rafforzavano lo stato di soggezione di mezzadri e piccoli coltivatori verso i datori di lavoro. Grazie al "contratto collettivo", tutti questi residui feudali cadono. Il latifondista, inoltre, è costretto a sopportare metà delle spese della coltivazione e non può, alla scadenza, sfrattare i coloni senza motivi validi. Sempre in questo periodo, nasce una fitta rete di cooperative, che abbracciano ogni ramo della produzione agricola, e alle quali lo Stato è tenuto a concedere prestiti a tasso agevolato. E il "decreto Visocchi" del 1919 rende possibile ai contadini senza terra, organizzati in cooperative, di occupare le campagne incolte o mai coltivate, per un periodo di tempo prestabilito. Sempre nel 1920, infine, con le elezioni amministrative generali, i Comuni, giù in parte conquistati dai contadini nell'anno precedente, vengono totalmente sottratti al controllo della borghesia fondiaria. Per i latifondisti è un grosso smacco.
Non è il Sud che partorisce il fascismo. Il fascismo nasce nella pianura padana, nell'Emilia, nella Toscana: luoghi dove, lo ripetiamo, la reazione popolare è ben più temibile degli sporadici e stanchi tentativi di rivolta attuati nel Mezzogiorno.
Possiamo anzi affermare che il padronato meridionale, malgrado le novità del 1920, non abbia ancora sostanziale bisogno di aiuto. Così, quando il fascismo cala nel Sud, il primo problema che si pone agli agrari e ai borghesi è quello di adattarsi al nuovo regime senza perdere i propri privilegi e il proprio dominio. Obiettivo questo che, per un momento, sembra essere compromesso dalla "linea dell'intransigenza" seguita dal Padovani, "ras" di Napoli. Ma è solo un momento. Non c'è coscienza che vinca la logica del potere. E la tesi del Padovani è troppo reazionaria e provocatoria. Troppo per un partito che voglia conquistarsi le simpatie dei più potenti. Eppure, non dimentichiamo che l'ideologia fascista della prim'ora aveva carattere riformistico, di quel riformismo tecnocratico proprio del Nitti. I temi focali si imperniavano sul perseguimento di una pianificazione nazionale, di un rilancio della produzione accompagnato da minori consumi e, soprattutto, di una nuova linea politica, tesa al superamento degli interessi di parte. Un'ideologia che non poteva, però, trovare consensi in un Sud retrivo ad ogni elemento di novità. Da qui l'accantonamento del programma iniziale e l'elaborazione di uno nuovo, che inquadrasse il movimento fascista nella logica delle grandi gerarchie feudali del Sud. L'idealismo sincero dei Padovani cade, quindi, sotto i colpi di questo processo di adattamento. le sue dichiarazioni ("Soltanto l'intransigenza riuscirà a rendere efficace il fascismo nel Mezzogiorno") - stridono con la realtà: il fascismo si afferma, infatti, proprio con la sconfessione di queste idee. Così, agrari meridionali e grande borghesia, di fronte alla promessa fascista di mantenere inalterati i vecchi rapporti agrari, non esitano ad indossare la camicia nera, proprio come, tempo prima, non avevano esitato ad aderire al governo Giolitti. D'altra parte, come abbiamo visto, le rivendicazioni
Compito del fascismo è quello di devastare le sedi delle organizzazioni proletarie del Nord e di reprimere le sommosse conpulistiche, lo smembramento interno dei partiti, la mancanza di leaders in grado di guidare in modo omogeneo la protesta, lo stesso carattere isolato delle agitazioni rurali, che non riescono ad allacciarsi alle lotte operaie del Nord, sono tutti elementi di debolezza che consentono al fascismo una penetrazione nel tessuto sociale meridionale priva o quasi di elementi di forte opposizione.
Le "squadracce" fasciste, finanziate sottobanco dagli agrari e dalla Confindustria, seminano terrore ovunque covi il malcontento popolare. Ma le elezioni del 1924 sono ormai vicine. Mussolini comprende che non ha solide basi per vincere. Sui suoi progetti di potere incombe la minaccia di una controffensiva popolare. I ceti proletari e le masse contadine hanno superato l'iniziale fase di disorientamento e si stanno riorganizzando. Ma i fascisti schivano il pericolo con l'elaborazione di una legge elettorale truffaldina, famosa come "legge Acerbo": è un modo illegale per trasformare la minoranza fascista in maggioranza assoluta di governo. E la legge passa, nonostante gli sforzi compiuti dai deputati del l'opposizione. La campagna propagandistica pre-elettorale si svolge in un clima di violenza e di intimidazione. I ceti operai e contadini vengono presi di mira dalle squadre d'azione e "convertiti" alla causa fascista con gli ormai tristemente noti strumenti del mestiere: manganello e olio di ricino. Tutta la stampa è orientata a creare una "barriera di conoscenza" tra l'opinione pubblica. Si esaltano gli aspetti positivi del nuovo regime e si crea un ambiente idilliaco, in tutto favorevole all'avanzato fascista. la vittoria è assicurata. Il 31 maggio 1924, Giacomo Matteotti, deputato socialista, con una coraggiosa oratoria, denuncia gli arbìtri e la truffa perpetrati ai danni del popolo italiano e chiede al Parlamento di annullare i risultati elettorali. Dieci giorni dopo, egli muore, assassinato da una spedizione punitiva. Il paese è profondamente sdegnato. Ma non si può più tornare indietro. Il 3 gennaio 1925, Mussolini annuncia la perdita di ogni libertà da parte dei cittadini. Tutti i partiti d'opposizione vengono soppressi.
Una volta al potere, il fascismo si rivela per quello che veramente è: un grosso affare per industriali e agrari. L'appoggio che questi ultimi hanno dato al partito viene abbondantemente ricambiato. Tra i provvedimenti che tendono ad agevolarli ricordiamo il ritiro della legge sul controllo fiscale del patrimonio azionario, l'eliminazione dell'imposta di successione, l'aumento del dazio sul grano, l'accordo con la Confindustria per il rinnovo delle tariffe doganali, l'abrogazione del "decreto Visocchi".
Anche il mondo cattolico entra a far parte del ristretto circolo dei privilegiati del regime. Conosciamo bene il ruolo che la Chiesa ha da sempre assunto nel quadro degli equilibri politici del Paese, e nel Mezzogiorno in particolare: quaggiù, la sua capacità di persuasione delle masse è stata fondamentale. Il fascismo non può lasciarsi sfuggire questo potente alleato e accantona così le velleità laiche della prima ora. Il programma di "fascistizzazione" della Chiesa parte da alcune disposizioni che prevedono l'obbligatorietà dell'insegnamento religioso nelle scuole, l'aggravio delle pene previste contro le offese alla religione e al clero, la ricostituzione del corpo di cappellani militari nell'esercito nazionale; e si conclude l'11 febbraio 1929, con la stipulazione dei Patti Lateranensi.
Grazie alla convenzione finanziaria contenuta nel trattato, al Vaticano affluiscono 750 milioni di lire in contanti e un miliardo di lire in titoli del prestito Consolidato. "Meritatamente", quindi, Mussolini si conquista l'appellativo di "Uomo della Provvidenza".
Il nuovo regime cerca di rivalutare l'industria meridionale. Così almeno pare. In realtà, si tratta di un vero e proprio tentativo di colonizzazione da parte del Nord. La logica seguita consiste nell'avviare un processo di ristrutturazione industriale, attraverso la concentrazione delle imprese esistenti.
Condizione essenziale, però, per garantire occupazione ad un pressante numero di disoccupati, è che i complessi industriali così creati convivano con piccole e medie imprese. Purtroppo, come prevedibile del resto, queste ultime non riescono a svilupparsi. La mentalità prevalente nel Sud, infatti, è ben lontana dal comprendere e far proprio lo spirito imprenditoriale capitalista. Le cosiddette "cattedrali nel deserto" finiscono così per dominare un paesaggio in tutto feudale, effimeri simboli di un progresso che il Sud non ha mai partorito.
Con il fascismo cade, inoltre, ogni speranza di emancipazione per le masse rurali del meridione. La promessa della "terra ai contadini" era servita solo per "drogare" i soldati al fronte. Il "decreto Visocchi", del 2 settembre 1919, che dava la possibilità ai contadini di riunirsi in cooperative e lavorare le terre incolte, si era arenato nelle difficoltà giuridiche sollevate dal padronato. Con subdoli pretesti, gli agrari erano poi ricorsi alla forza pubblica per scacciare i braccianti dalle terre occupate.
Il fascismo al potere dà il colpo di grazia alla già disastrosa situazione. Con un decreto del '23, che dichiara illegali le occupazioni già avvenute delle terre, vengono vanificate quelle poche conquiste che il "decreto Visocchi" aveva permesso di ottenere. Ma l'ostilità delle masse al fascismo non è aperta. Esse accettano le nuove regole del gioco con passività e fatalismo; anche se non si può non cogliere lo stato di profondo malcontento covato "sottocenere". Mussolini stesso, parlando del proletariato, lo definisce "in gran parte lontano e, se non più contrario, come una volta assente".
Nel 1926, Mussolini inaugura la famosa "battaglia del grano", allo scopo di assicurare al paese l'autoapprovvigionamento del cereale. E' l'inizio dell'autarchia nel settore agricolo. Il grano cresce ovunque. E la spiga matura diventa il simbolo stesso del fascismo. L'incremento notevole di questa coltura èottenuto a scapito dello sviluppo di altri comporti, soprattutto di quello zootecnico. Gli unici a trarne vantaggio sono gli agrari, mentre nulla cambia per i braccianti. Infatti, con questa politica, il regime mette a disposizione del potere baronale, che sulla cerealicoltura basa la propria forza, le più progredite tecniche colturali. E così facendo, finisce per sconvolgere l'intero sistema cooperativistico contadino e la piccola proprietà, i cui metodi di produzione restano arretrati. Migliaia di piccole proprietà non tardano a fallire. Ridotte ad una misera economia di autoconsumo e impossibilitate a pagare l'imposta fondiaria, esse finiscono per essere incamerate dal fisco e poi rivendute all'asta per valori irrisori. Gli acquirenti latifondisti vedono così aumentare a dismisura la proprietà. E, mentre le terre si ricoprono del colore dorato tipico della coltura granaria, ai braccianti resta una magra consolazione: l'atteggiamento paternalistico del regime, che si traduce nell'imposizione di mano d'opera ai grandi proprietari terrieri.
Elusa la riforma fondiaria, promessa dal fascismo nel 1921, il Mezzogiorno continua a vivere, dunque, in pieno feudalesima. le piazze pullulano di uomini in attesa di essere ingaggiati "a giornata" dai signorotti locali, mentre dall'alto arrivano "consolanti" comunicati statistici: grazie alla "battaglia del grano", il volume di importazioni si è ridotto di ben il 75%. Ma cosa può importare questo a braccianti e giornalieri di campagna? Gente rinsecchita dalla fame e dalla sete. Servi della gleba. Bestie da lavoro. Con una condanna sulle spalle: fare tutto ciò che è meglio per il destino della nazione. E questo significa annullare la propria personalità; asservirsi completamente nei confronti di chi la nazione rappresenta. D'altra parte, la rassegnazione è totale. Il terrore di essere segnati sulle "liste nere", tenute dai feudatari, paralizza la protesta. Neanche la miseria va ostentata. E poi, manca la forza. La mente è intorpidita. La fame ha preso il sopravvento. L'unico sogno: un pezzo di pane.
Il crollo di Wall Street del'29 coinvolge anche l'Italia nella recessione economica mondiale. La crisi, però, non raggiunge le dimensioni drammatiche degli altri paesi capitalistici. Il carattere cooperativistico dello Stato italiano evita il crollo del capitale con l'acquisto, al valore nominale, delle azioni fortemente svalutate. Si tratta di una spesa che sottopone il popolo a notevoli sacrifici. Il tenore di vita nazionale si riduce in maniera paurosa. Ed è un tenore di vita che Mussolini intende mantenere anche quando, ormai, la crisi è solo un ricordo. Dal'33 in poi, enormi ricchezze affluiscono al cosiddetto "tesoro di guerra". Nel Mezzogiorno, intanto, la popolazione aumenta a vista d'occhio. la crescita demografica, già alta quaggiù, è ulteriormente incoraggiata dal duce, con l'elargizione di un premio in danaro per ogni figlio nato. In poco tempo la popolazione triplica. Ma la miseria resta. E non c'è più neanche lo sbocco dell'emigrazione.
Nel 1935, le truppe italiane attaccano l'Etiopia e, in questo modo, contravvengono al patto di amicizia stipulato con l'Abissinia. Ciò provoca l'immediata reazione del Consiglio della Società delle Nazioni, che dichiara l'Italia "Stato aggressore" e applica nei suoi confronti pesanti sanzioni economiche. Ma quella che doveva essere una severa punizione viene accolta con entusiasmo da Mussolini. La chiusura del mercato internazionale all'Italia gli consente, infatti, di agire senza scrupoli in politica estera e, nello stesso tempo, di completare la politica autarchica in atto nel Paese. Gli effetti sono disastrosi. Il Paese è carente di capitali e l'industria è male organizzata. I prodotti vengono a costare il doppio, se non il triplo, rispetto al loro valore reale. Ma niente viene fatto per ristrutturare l'economia e renderla competitiva. Lo scarso afflusso di reddito è destinato ad incrementare la produzione bellica. La politica dei lavori pubblici viene abbandonata. Stessa fine tocca alle "grandi opere" del regime. Gli interventi a favore dell'agricoltura si riducono, fino a mancare del tutto. In questa situazione, satura di miseria e di sacrificio, la prospettiva di una guerra imperialistica assume, ormai, un carattere di impellente necessità. Così, quando il duce dà inizio alla propaganda coloniale e incita i cittadini ad arruolarsi, in migliaia rispondono al suo appello. Il 6 maggio 1936, il generale Badoglio, a capo di un esercito di disperati alla ricerca di "un posto al sole", entra nella capitale dell'Abissinia, Addìs Abebà. Le terre conquistate vengono distribuite tra i soldati. Alla resa dei conti, però, anche la guerra si rivela una soluzione insufficiente. Il Paese è ben lontano dal riprendersi. Con lo scoppio della seconda guerra mondiale la catastrofe è completa. Anche se sarà proprio la guerra a risvegliare le coscienze del popolo e a segnare la fine del fascismo.

Il vento del Sud/ 1
Grano e bonifica integrale

Bonifica integrale condotta dall'Opera Nazionale Combattenti dal 1931 al 1939. La bonifica idraulica venne integrata da una complessa trasformazione fondiaria, dalla costruzione di abitazioni per i coloni, di "centri aziendali", di nuovi borghi (Piave, Mantello, Pasupio, Montenero, Vodice, San Michele, ecc.) e di cinque moderne città: Littoria (1932), oggi Latina, dal 1934 capoluogo della nuova provincia; Sabaudia (1934); Pontinia (1935); Aprilia (1937); Pomazia (1939). I centri furono collegati da una rete di comunicazioni stradali e di servizi civili. Il ripopolamento rurale, con coloni provenienti in massima parte dal Veneto e dalla Romagna, mutò il volto della regione.
Già dominio di sterpeti e acquitrini malarici, l'Agro Pontino divenne fertilissima zona agricola, con diffusi e razionali allevamenti zootecnici. Nel 1939 erano stati complessivamente bonificati oltre 180.000 ettari di terreno, appoderati 65. 000 ettari, costruite 4.000 case coloniche, installati 18 impianti idrovori e creata un'enorme e funzionale rete di canali principali, secondari e di collettori terziari. I lavori, giganteschi, contribuirono ad alleviare la disoccupazione, che era passata da 300.000 unità nel 1929 a oltre un milione di unità nel 1932-33. Questa fu la più fortunata e positiva fra le bonifiche condotte anche in Veneto, Emilia, Toscana, Campania, Puglia, Calabria, Sicilia e Sardegna; anche se oggi sono contestate duramente per l'alterazione degli equilibri ecologici. La riconquista delle terre incolte, oltretutto, si inquadrava nella politica di "ruralizzazione" della società italiana, imposta anche dall'autarchia e dalla battaglia del grano.

Il vento del Sud/2
Fascismo e lavori pubblici

Abbiamo già accennato a come il fascismo, prima di giungere al potere, abbia astutamente mascherato i propri intenti. Così, mentre da un lato inveiva contro i soprusi dei proprietari terrieri, dall'altro inviava nelle campagne "squadristi" e "mazzieri", per ripristinare l'antica egemonia. E mentre istigava gli inquilini contro i proprietari, si adoperava, nel contempo, ad attuare lo sblocco del fitti. Mentre prometteva ai contadini la riforma agraria e la bonifica integrale delle terre paludose, di fatto, niente che potesse intaccare il potere dei latifondisti aveva luogo. Una volta al potere, il fascismo avvia una propaganda ufficiale mistificante: la "questione meridionale", problema che lo Stato liberale non aveva saputo risolvere, grazie al fascismo non esiste più. li popolo del Sud, quindi, non può e, soprattutto, non deve lamentarsi. Tale atteggiamento avrebbe, infatti, un solo significato: ingratitudine verso il regime, che tanto si è prodigato per quelle genti e per le loro terre con un'imponente politica di opere pubbliche. "Si deve a tale politica se le ultime barriere di preconcetti fra Nord e Sud sono cadute definitivamente; se le grandi distanze esistenti, ancora fino ad alcuni anni fa, tra le condizioni di vita delle regioni dell'Italia settentrionale e di quelle meridionali e isolane, sono andate gradatamente diminuendo; ( ... ) Si deve a tale politica se finalità economiche e sociali sono state poste a base di ogni attività tecnica; se l'azione distributrice di benefici è giunto, in armonica visione perequatrice, sia nelle metropoli sia nei piccoli villaggi". Quanto c'è di vero? Cosa è stato risolto?
Di Napoli si esalta il grande porto che "ha raggiunto nell'era fascista la sua piena efficienza, il suo maggior sviluppo"; mentre ingenti somme continuano ad essere versate per l'attuazione della Direttissimo Roma-Napoli: opere importanti, certo, ma decisamente insufficienti per risollevare una città ridotta a tugurio, il cui vero problema è demografico ed economico.
Bari, "perla dell'Adriatico", si distingue per il suo grandioso lungomare e per i suoi imponenti, quanto terribili, palazzacci, realizzati unicamente per soddisfare le voglie di grandezza del regime: ma il decreta di risanamento della città vecchia viene decisamente messo da parte. E mentre in Puglia, come in tutto il Sud del resto, notevole sviluppo hanno i trasporti e le linee di comunicazione, la legge di bonifica integrale è resa inservibile dall'abolizione della clausola che prevedeva la confisca delle terre ai proprietari assenteisti e inadempienti. L'unico provvedimento che si può accreditare al fascismo in questa regione è il completamento dell'acquedotto pugliese: un'opera che risponde ad una precisa esigenza e che mette fine, se non alla miseria, alla "grande sete" delle Puglie. E ancora, di quali interventi può vantarsi il regime nella Basilicata? Nonostante i pressanti appelli di Ciccotti per soccorrere la più povera e malarica terra del Sud, tutte le promesse si riducono a due provvedimenti, economicamente irrilevanti: la divisione della regione in due province, Potenza e Matera, e il ripristino dell'antica dizione "Lucania".
E cosa è cambiato per le masse rurali della Calabria? Qui di grandi opere non si può parlare. I tratti inservibili delle Ferrovie calabro-lucane stridono con le esigenze della popolazione. Esigenze cui si cerca di far fronte con rimedi inadeguati, come il nuovo patta agrario, che si rivela un ennesimo imbroglio ai danni dei contadini.
Per il Molise, poi, nessuna promessa. li suo privilegio è, appunto, quello di restare povero. Parere questo chiaramente espresso da Mussolini nel 1937: "Dai dati statistici risulta che la provincia di Campobasso è la più rurale d'Italia. le genti del Molise devono considerare questa posizione un privilegio di cui devono essere, e certamente sono, fierissime. Tale privilegio deve essere conservato per gli interessi del Molise e per quelli della Patria". Per quanto riguarda la Sicilia, a sentire il prefetto Mori, grazie al fascismo la mafia è stata distrutta e anche del latifondo non resterò più alcuna traccia. La realtà, però, è tutta un'altra cosa: "Il latifondo rimane intatto, i notabili continuano ad essere notabili, la mafia continua ad essere mafia" (G. Tarozzi).

Il vento del Sud/3
Calabria e fascismo

La Calabria rappresenta in piccolo la condizione agraria dell'intero Mezzogiorno. Il diffuso malessere è diventato un pericoloso indice di instabilità, e quindi di precarietà, per gli arcaici rapporti esistenti nelle campagne. Qui ritroviamo "la più micidiale manifestazione del diritto di proprietà": il latifondo. I protagonisti sono sempre gli stessi: il proletariato agricolo da una parte, la proprietà assenteista dall'altra. Tra i due si inseriscono, poi, loschi personaggi, che assumono un ruolo di mediazione ed operano per conto dei grandi proprietari. Essi, grossi fittavoli e fattori, sono dotati di ampi poteri ed esercitano sulle classi rurali ogni forma di arbitrio e di sfruttamento. Già nel 1919, le tensioni erano sfociate in un imponente movimento di occupazione delle terre. Ma la situazione è destinata a peggiorare negli anni successivi. Né c'è possibilità di accordo. I proprietari sono arroccati sulle proprie posizioni. Nessuna concessione, sia pur minima, deve esser fatto. Solo la
"linea dura" può tenere i "cafoni" legati alla terra. Ma il malumore che serpeggia nelle campagne è più grave del previsto. Con o senza concessioni, i contadini sono più che mai intenzionati a rompere il circolo vizioso del latifondismo. Il fascismo della prim'ora prende atto di ciò e cerca di convincere il patronato dell'inesorabilità di una riforma agraria. Nell'aprile del '23, si tiene una riunione dei maggiori esponenti della grande proprietà, ai quali il prefetto comunica l'intenzione del governo "di affrontare e di risolvere sollecitamente il problema del latifondo, del bonificamento agrario e delle colonizzazioni ... ". Ma i latifondisti, dopo una prima reazione ostile al regime, riescono a sfruttare gli originari intenti del fascismo a loro esclusivo vantaggio. I nuovi patti agrari, infatti, sono un modo astuto per raggirare le masse e per riconfermare la vecchia scala gerarchica. Il principio a cui si ispirano è la "necessità sociale di rendere il contadino compartecipe alla produzione della terra". In virtù di questi patti, il colono divento socio del concedente. Ma si tratta di una qualifica "sui generis", che solo in apparenza gratifica il contadino. In realtà, è sempre il proprietario che dirige l'impresa agricola e ne regola i rapporti di produzione. Il contratto di partecipazione serve solo per scaricare parte dei rischi di impresa sul lavoratore. Per il resto, quest'ultimo deve accettare incondizionatamente le decisioni del padrone. Ed è un rapporto altamente precario, dato che il patto può essere in qualsiasi momento revocato, in caso di inadempienza del con-socio. Nonostante il suo carattere profondamente iniquo, il patto agrario diventa un aspro terreno di disputa, che disgrego il blocco contadino, a tutto vantaggio dei latifondisti. La solidarietà di classe, elemento fondamentale nella lotta contro il padronato, viene meno ed ha inizio una vera e propria "guerra tra poveri". Si avvicinano, intanto, le elezioni del 1924, in un clima di rinnovato tensione. Le masse rurali considerano il patto "troppo complicato" e chiedono di coltivare la terra per proprio conto. Ma le concessioni non superano il 3,11% della superficie agraria e riguardano esclusivamente terreni marginali, di scarso valore economico. Preoccupazione del fascismo, in questa delicata fase politica, è di evitare che il malumore delle campagne offuschi l'immagine del partito. Fallito il tentativo di risolvere in modo equo la questione agraria, il problema della terra viene posto in termini di salvaguardia dell'ordine pubblico ed è affrontato attraverso i consueti metodi di repressione. Il quadro che si ottiene è lucidamente esposto dal prefetto di Catanzaro, il 3 maggio del 1924: "E', questa, una situazione che tiene di continuo gli animi malcontenti, impedisce la collaborazione di classe e consente ai sobillatori di instillare nei cittadini sentimenti di odio per i proprietari, diffidenza contro le autorità e il Governo, con una permanente minaccia di invasione di terre... Tutti i tentativi fatti per risolvere tale problema... sono serviti soltanto a comporre vertenze singole, temporaneamente, con espedienti varii sotto la preoccupazione dell'ordine pubblico e delle elezioni politiche; la questione nella sua sostanza, nella sua interezza, è rimasta e rimane insoluta poiché ... occorrono provvedimenti legislativi, senza del quali non sarà mai possibile indurre molti proprietari e più ancora molti dei cosiddetti industrianti (i fittavoli) a patti equi ed onesti con la classe dei contadini". Ma gli appelli del prefetto non vengono ascoltati. Le proteste continuano ad essere represse.
Il blocco dell'emigrazione consente ai proprietari di praticare una politica di bassi salari. Tutto come prima, quindi. Anche se il crollo del latifondo è solo rimandato. Le vicende della guerra, prima, la disfatta del fascismo e l'avvento della repubblica, poi, chiuderanno uno dei capitoli più tristi della storia agraria del Mezzogiorno.


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