§ Il corsivo

La Grande Madre




A. P.



L'ultimo convegno del quale abbiamo notizia è stato organizzato a Torino, città che ha dedicato, fra polemiche ancora non sopite, l'intero 1988 alle celebrazioni del diavolo. Il tema della "Grande Madre" continua ad affascinare tutti, e in particolar modo gli esponenti dell'antropologia, della psicologia, della filosofia, della storia delle religioni e, naturalmente, dell'arte e dell'archeologia. Tutti, o quasi tutti, ancora influenzati da quel genio del sapere che è Karoly Kerenyi, il più grande ricostruttore e interprete di miti del nostro tempo: un tempo sempre più propenso a scavare nel passato, nella convinzione che all'origine ci siano ancora immagini primigenie e figure archetipe in grado di gettare un fascio chiarificatore di luce sui nostri giorni e sulla nostra età, che Heidegger non ha esitato a definire "della povertà estrema".
Scavando nei secoli e nella terra, si è scoperto che le rappresentazioni dell'età della pietra ci offrono un'immagine della divinità che archeologi, etnologi e storici delle religioni convengono nel chiamare, appunto, "Grande Madre". Nell'area mediterranea ne sono state scoperte ben cinquantacinque, contro le cinque maschili, queste ultime atipiche e mai fatte, che generalmente rappresentano giovinetti in tenera età. Ciò lascerebbe supporre che la divinità maschile sia subentrata solo in un secondo momento e che il rango della divinità-figlio sia stato conferito solo successivamente alla divinità madre.
Le figure della Grande Madre mettono in evidenza il simbolismo del vaso-pieno nell'accentuazione delle zone centrali del corpo femminile: seni e ventre che molto spesso fanno un grappolo unico. La testa, priva di viso, è inclinata verso il centro del corpo, il femore e le cosce gigantesche culminano in gambe sottili, mentre i piedi sono esili, del tutto incapaci di reggere l'enorme corpo-vaso. Anche le braccia, che con i piedi sono gli elementi attivi dell'azione e del movimento, sono appena accennate.
La mancanza di agilità e la forma fanno assumere alla Grande Madre una postura sedentaria, in stretta aderenza alla terra nella quale in parecchi casi è incorporata. Anche quando sta in piedi, il suo centro di gravitò la spinge verso il basso, verso la terra che, nella sua immobilità, è la sede del genere umano. Seduta, poi, la Grande Madre è la dea troneggiante, e quindi la forma originaria del trono stesso. Non a caso il nome della maggiore Dea Madre del culti primordiali èIside, vale a dire "il seggio", il trono che la dea reca in testa; e il re che prende possesso della terra, ossia della Dea Madre, lo fa sedendosi letteralmente nel suo grembo.
Oltre al simbolismo del vaso, che come il grembo materno contiene l'oscurità primitiva, il cielo notturno generatore, la forza ctonia della terra capace di dare alla luce, la Grande Madre viene rappresentata anche come albero della vita che, saldamente piantato con le sue rodici nella terra che lo nutre, si innalza verso l'alto e, con i suoi rami e con le sue foglie, genera quell'ombra protettiva nella quale la materia vivente trova un ideale rifugio. Non a caso, la parola madera (legno) ha strette parentele con "madre" e "materia", a cui pure si connette il greco maderos (umido, inzuppato), insieme con il latino madidus (madido, bagnato).
Al carattere materno dell'albero appartiene non solo il nutrire, ma anche il generare, e come la madre-vaso diventa, col suo grembo, trono del figlio, così la madrealbero diventa in Cina "l'albero dell'anno", sotto i cui rami si raccolgono gli animali delle dodici costellazioni che presiedono alla nascita di tutte le cose, e in Egitto il pilastro Ded che, conficcato nel monte, è "il legno della vita da cui nascono gli del"; fino alla più recente simbologia giudaico-cristiana, secondo la quale il figlio della Vergine nasce nella mangiatoia di legno e muore sulla croce "albero della vita e della morte". La materia lignea, Infatti, oltre che madre della vita, è anche madre della morte, è il sarcofago divoratore di carne, la cassa che racchiude, nella forma dell'albero-pilastro, Osiride nel suo legno.
Dallo sfondo della terra-madre, di cui la simbologia del vaso e dell'albero sono solo due esempi dei molti che si potrebbero raccogliere, l'umanità si preparò per volgere il proprio sguardo verso il cielo. Quando Platone dice: "Noi non siamo come le piante della terra, perché la nostra patria è il cielo", non fa altro che registrare questa modificazione avvenuta, questo passaggio dalla terra-madre e dai culti delle divinità ctonie al cielo-padre di divinità uraniche.
Il passaggio fu lento e, nelle sue prime espressioni e manifestazioni, persino incerto. Esiodo, ad esempio, ci descrive Ouranos (il cielo) come quella divinità che, "avida d'amore, recando con sé la notte, avvolge la terra"; ma non ci nasconde che la sua fecondità èpericolosa; i suoi figli, infatti, sono mostri dalla statura smisurata e dalla proliferazione incontrollata di braccia, di teste e di occhi, e poiché AI odiava dal primo giorno", li nascose dentro il corpo di Gea (la terra) che soffriva e gemeva. il cielo ha fatto la suo comparsa, ma è ancora dipendente dalla terra per la sua "avidità di amare" e per la sua "necessità di nascondere". Generazione e morte, nascita e sepoltura, questi estremi del cielo tellurico appaiono ancora come i limiti invalicabili dell'azione celeste.
Ouranos scomparve dal culto prima del tempi storici e fu sostituito da Zeus, che rivela nel suo stesso nome l'essenza celeste. La traccia etimologica ci porta alla radice indoeuropea deiwos (cielo), presente nei termini che indicano il dio. Da Dyaus, il dio indoeuropeo del cielo che nei Veda compare con l'attributo di cielo-padre (Dyauspiter), deriva lo Zeus greco e deriva lo Juppiter latino. Il senso della parola èda rintracciare nello "splendore del giorno" contrapposto all'"oscurità della notte" di cui si alimentano le immagini ctonie della Grande-Madre-Terra. In sanscrito, infatti, deva significa "splendore"; così anche per l'iraniano div, per il lituano diewas, per l'antico germanico tivar, mentre i Cretesi chiamavano il giorno dia, affine tanto a dios quanto al latino dies.
Il cielo è una regione superiore inaccessibile all'uomo; la dimensione dell'altezza, per cui l'"Altissimo" sarò uno degli attributi divini, genera nell'immaginazione primitiva esseri sovrumani, vale a dire al di là dell'umano, quindi trascendenti. Il passaggio dalla religione ctonia alla religione uranica comporta da parte dell'uomo una ridefinizione di sé.
Questo significa collocare altrove te radici dell'uomo, non più nella terra "come le piante", ma, come ci ricorda sempre Platone, nel cielo "nostra patria, dove fu l'origine prima dell'anima e dove Dio tiene sospesa la nostra testa". Qui è la dimora delle idee che, prima di essere pensieri, sono visioni, rese possibili dalla luce diurna del cielo. La radice id, sulla quale è costruita la parola idea, è infatti la stessa che rintracciamo nel verbo vedere e nel suo antecedente latino (video) e greco (orao, opsomai, eidon).
L'altezza del cielo porta in alto lo sguardo, al di sopra delle cose che popolano la terra, al di là. La trascendenza oltrepassa l'impronta della terra, ossia lo spessore di materia che dà corpo alle cose, per coglierne l'essenza pura, non costretta nei limiti della materia. Non dunque questo terreno più o meno triangolare, questa casa più o meno quadrata, ma il triangolo e il quadrato in se stessi, forme pure, di cui il terreno triangolare e la casa quadrata sono soltanto delle copie.
"Tenendo sospesa la nostra testa, ossia la nostra radice, Dio tiene sospeso l'intero nostro corpo, che per questo motivo è eretto". Con queste parole conclude Platone quel brano del Timeo nel quale si va alla ricerca della natura dell'uomo. A differenza di tutti gli animali, infatti, l'uomo è eretta, e per effetto di questa sua posizione corporea ha innanzi a sé un orizzonte, oppure, se si preferisce, un panorama, parola nella quale è la traccia di quel "vedere", in greco appunto orao, senza il quale non c'è visione o idea alcuna. La posizione eretta fa dell'uomo un destinato a vedere, non solo le cose della terra che vedono anche gli animali, ma l'essenza delle cose, depurate dalla materia terrena che Platone chiama idee, che colloca sopra il cielo (uperuranio), dov'è la nostra origine prima, e dov'è la nostra radice.
Dalla terra al cielo è dunque l'itinerario compiuto dall'uomo nel suo lento passare dalla visione sensibile delle cose, cariche di materia, a quella intelligibile della loro essenza depurato dalla materia.
Il mito racconta le cose come sono veramente andate: il lento passaggio dai culti della Grande Madre ai culti degli altri Dei, quelli uranici; la filosofia coglie il senso di questo passaggio che è nella natura dell'uomo originariamente aperta alla visione.
In questa apertura originaria, ci sono gli uomini che si fermano alle apparenze sensibili delle cose, alla loro sembianza (doxa), e ci sono quelli che invece apprendono alla natura intelligibile delle cose, alla loro verità (aletheia). Platone chiama i primi filodoxoi e i secondi filosofi. Sia gli uni sia gli altri hanno riconosciuto la loro radice nel cielo e, abbandonato l'oscurità della terra, ci sono lasciati ospitare nel mondo uranico della luce. Ma mentre i filodoxoi si trattengono nelle apparenze che sono il primo dono della luce, i filosofi oltrepassano questa incerta sembianza ("l'apparenza inganna"), per giungere a quel sapere che niente può mai far oscillare (episteme).
Nasce la scienza, e con la scienza la civiltà dell'Occidente, che probabilmente si è distanziato troppo dalla terra, bandendo a a propria cultura ogni oscurità e mistero dove ancora possono essere custodite parole in grado di parlare al lato notturno della nostra vita, -ai nascondigli della nostra anima. Nei dibattiti contemporanei sulla Grande Madre si tenta di evocare queste parole con l'incertezza, con la passione e col dolore di chi scava nel profondo e porta alla luce tutto ciò che ha il sapore dell'inquietante.

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