§ Islam

L'impossibile attesa di un nuovo Saladino




Aldo Bello



L'anno scorso, a luglio, la Siria celebrò con grandi manifestazioni l'ottavo centenario della battaglia di Hattin. Sulla piana assetata di Hattin, che da Nazaret si allarga verso la Tiberiade, appena ondulata da lievi colline, Saladino distrusse in un solo giorno, aiutato dal clima, dalla sete e dalla disorganizzazione dei cristiani, l'esercito e il regna di Gerusalemme. Con questa sola battaglia, mise praticamente fine alla presenza crociata in Terra d'Islam fino al 1917, quando l'impero ottomano, che aveva già perso estesi territori a favore della Francia, dell'Inghilterra, della Russia e dell'Italia, cessò di esistere come forza politica e militare, e dopo qualche anno, con l'eliminazione del califfato da parte di Kemal Ataturk, cessò di esistere anche come sede dei califfi, supreme autorità politiche e religiose dei musulmani.
Di questo eccezionale avvenimento, paragonabile per l'Europa cristiano in guerra con il turco alla battaglia di Lepanto e alla fine dell'assedio di Vienna messi insieme, si parlò poco nello stesso mondo arabo, almeno fino all'invasione dell'Egitto da parte di Napoleone, nel 1798. Da quel momento, il gran fatto d'armi del Saladino si trasformò in un mito che continua a influenzare la vita politica del Medio Oriente. Salah Ed Dinh El Ayubi aveva tutte le qualità per alimentare questo mito. Era nato in Iraq, aveva fatto carriera militare in Siria, era diventato supremo leader musulmano in Egitto. Sebbene non fosse arabo, ma kurdo, fu all'origine di un'unicità politico-militare poi adottata dal movimento nazionale arabo moderno, che in essa vedeva un pan-arabismo originale e precursore. Saladino aveva a che fare con un mondo musulmano diviso o lacerato da particolarismi tribali, i cui esponenti di maggiore spicco reciprocamente si accusavano di tradire la causa dell'Islam e di collaborare col nemico straniero. La sua genialità, dunque, consistette nel saper riunire per la grande battaglia finale contro i Crociati truppe di tutto il mondo musulmano. Ovvio, dunque, che il suo si sia trasformato nel mito perenne della resistenza vittoriosa islamica contro tutti gli infedeli e nel modello che ogni leader mediorientale deve imitare, se vuoi realizzare concrete ambizioni politico-militari. Così fu negli anni '60 nella guerra degli algerini contro i francesi. Così fu ai tempi di Nasser in Egitto. Così. vorrebbero che fosse, oggi, la Siria di Assad o l'Iran di Khomeyni. li che non può essere più.
Il grande errore politico dell'Islam è di ritenere che i Crociati siano una realtà storica permanente. Ciò li porta inesorabilmente a sogni di gloria e di vendetta. La prima identificazione è con gli Ebrei sionisti. Ma che cosa furono i Crociati? Intanto, al contrario degli Ebrei di oggi, furono una minoranza: al momento della massima presenza, raggiunsero le 125.000 unità, contro mezzo milione di musulmani. Inoltre, costituirono un'aristocrazia separata (e odiata) tanto dal gruppo maggioritario musulmano, quanto da quello minoritario cristiano non cattolico locale. I Crociati vivevano asserragliati nei loro castelli e nelle tre principali città, Tiro, San Giovanni d'Acri e Gerusalemme, secondo usi e costumi dei loro Paesi d'origine, parlando la loro lingua, non fondendosi né confondendosi con gli indigeni. Ma era soprattutto il fine che li aveva condotti in Palestina a differenziarli dai sionisti d'oggi.
All'inizio, volevano liberare il Santo Sepolcro. In seguito, intesero scontare con un pellegrinaggio armato i propri peccati e coprirsi di gloria, per poi godere la pace dell'anima e del corpo, tornando nei rispettivi Paesi. Per gli Ebrei sionisti, invece, l'idea centrale del movimento era e resta di costruire una società nuova e "perfetta", rompendo i rapporti culturali e sociali con i Paesi d'origine. Oggi, nella misura in cui l'ideologia sionista è ancora vivente, mira essenzialmente a ripristinare la civiltà ebraica tradizionale nella terra d'origine. Tutto questo fa degli Ebrei un blocco. Mentre il mondo islamico resta un complesso reticolo.
Il reticolo ha due origini, una religiosa e una nazionale. Anzi, l'origine autentica andrebbe cercata in una serie di problemi storici e politici irrisolti, che si fondano sulle particolarità religiose e nazionali.
I problemi nazionali nascono dalla fine della prima guerra mondiale. Fino allora, tutta la regione si trovava sotto il dominio dell'Impero ottomano, nel quale le differenze nazionali si celavano e fondevano nella Ummà, la comunità universalistica musulmana. I trattati che conclusero quella guerra previdero il riconoscimento solo delle due principali nazionalità dell'ex Impero, quella turca e quella araba, che di fatto ebbero i loro Stati (subito indipendente la Repubblica turca, inizialmente sotto mandato inglese e francese la regione "araba" del Medio Oriente). Due importanti nazionalità vennero "dimenticate": gli Armeni, che durante la guerra subirono in Turchia un vero e proprio genocidio; e i Kurdi. E' vero che il Trattato di Sèvres, del 1920, aveva previsto la creazione di uno Stato kurdo, il Kurdistan, ma esso non fu ratificato, e il Trattato definitivo, quello di Losanna, non fece più menzione del Kurdi.
Il mancato riconoscimento del diritti nazionali di due popoli numericamente e culturalmente tutt'altro che trascurabili (gli Armeni sono sui tre-quattro milioni, i Kurdi sui nove-dieci milioni) è all'origine di una parte almeno del terrorismo che oggi insanguina il Medio Oriente.
I Kurdi sono una popolazione di lingua iranica (ma non identica al persiano) e aderiscono all'Islam di confessione sunnita. L'inimicizia, e spesso l'odio fra Sciiti e Sunniti, è il secondo fattore di destabilizzazione. Basti pensare che su questo contrasto confessionale si basa anche in massima parte la guerra civile che insanguina i Libano. Il conflitto fra i Palestinesi e milizie come "AI Amal" ("L'azione") si fonda, oltre che sull'avversione degli autoctoni per i nuovi venuti, anche sul fatto che la maggioranza del Palestinesi è sunnita, mentre le milizie libanesi sono in gran parte sciite.
La divisione delle due confessioni risale a un conflitto politico-religioso del VII secolo, quando alla morte del quarto "khalif ar-rashid", Ali, la maggioranza sostenne che al califfo bastava come prova di legittimità l'essere della tribù del "Qureisciti", quella di Maometto, mentre una minoranza prese partito per Ali.
Ma nella Siria di nord-ovest il nome di "Alawiti" è dato ad una particolare setta sciita, nota anche come "Nusairi", che attribuisce ad Ali un vero e proprio culto divino, aggiungendo agli elementi islamici anche altri elementi, cristiani, pagani, gnostici, per cui qualcuno nemmeno li considera veri musulmani. Un'altra derivazione dello sciismo sono gli "Ismailiti", presenti in India, in Pakistan e sulle montagne del Pamir sovietico, i quali hanno sviluppato una dottrina esoterica e sono guidati dall'Aga Khan, al quale viene tributata periodicamente una quantità di oro e di preziosi pari al suo peso.
Nella guerriglia libanese fanno parlare di sé i Drusi, spesso indicati come una "setta musulmana". In realtà, si tratta di una religione particolare- anche se derivata da un'eresia islamica. I Drusi, fra l'altro, credono alla trasmigrazione delle anime, dottrina del tutto estranea all'Islam ortodosso. Inoltre, praticano la "Taquya", cioè sono autorizzati a celare la propria fede (i testi sacri, fra l'altro, sono ancora oggi segreti), e a fingersi musulmani coi musulmani, cristiani col cristiani, e via dicendo, quando ciò sia richiesto da motivi di sicurezza o di opportunità.
Esiste in Islam anche una terza confessione, né sunnita né sciita: si tratta del "Kharigiti" (da "kharigi", straniero, estraneo), che nel VII secolo non appoggiarono né i seguaci di Ali né quelli della dinastia rivale degli "Ommiafi". Oggi sono poco più di un milione, stanziati in pratica solo nell'Africa nord-occidentale, nel Maghreb.
Se si pensa che tutti questi gruppi, sottogruppi, sette e fazioni hanno legami triboli, familiari, milizie e persino mafie, si vede che il reticolo diventa un vero e proprio labirinto, che nessun geniale Saladino, in tempi come i nostri, può forse più percorrere, per la riaggregazione dell'universo islamico.


Eppure, visto dall'esterno, ma molto al di là del conflitti che lo lacerano regionalmente, quest'universo lascia intravedere una sua grandiosa unità. Se non politica e militare, certamente culturale e civile. "Questa è un'università più antica della vostra Bologna", mi diceva un poeta, che parlava perfettamente l'italiano, e come tutti gli Arabi aveva quasi un'ansia panica di esprimere amicizia, comunicazione: di rendersi "visibile". Perché per secoli l'universo arabo è rimasto in un cono d'ombra della storia. Ero a Fez, l'antica capitale imperiale del Marocco. L'università di cui parlava l'improvvisata guida era in un'ala degli edifici che formano la grande moschea della casbah: i colonnati, le fontane delle abluzioni, la rotondo, il tempio nudo, e poi le camerette della casa degli studenti, con i giovani sui libri di testo e il Corano su ogni tavolo. Tutt'intorno, il suk, con i quartieri dei venditori di frutta e verdura, di indumenti, di utensili, di oggetti di rame sbalzato, e con quelli dei tintori, dei pellai, dei mobilieri, dei vasai, degli orefici e argentieri, degli speziali, dei cambiavalute, del tessitori di tappeti e degli incantatori di serpenti. li mondo islamico incomincia da qui, e la sua geografia va dal Marocco verso oriente con la prima caratteristica fondamentale, quella di una lindura abbagliante e totale. Nelle città nuove e nelle medine, i quartieri antichi.
Nelle strade all'europea e nei budelli dei mercati e dei bazar. Agadir, Marrakech, Tetuan, i paesi ai piedi dell'Atlas e quelli delle coste mediterranea e atlantica, tutti intorno alle moschee, tutti dentro decine di migliaia di alberi: tutti assolutamente puliti. Fanno eccezione due metropoli portuali, Tangeri e Casablanca, forse perché sono le meno arabe e le più occidentalizzate.
Anche Algeri è linda. E se Fez ha il primato universitario (chissà perché mi faceva venire in mente San Nicola di Casole), e Rabat quello politico-religioso (con gran dispetto di tutti i sovrani e principi ed emiri arabi, re Hassan II si proclama diretto e unica discendente del Profeta), Algeri ha quello della lotta di liberazione. Dalla sua casbah, dai suoi formidabili guerriglieri, dai terrificanti lamenti e ululi notturni delle sue donne, partì la decolonizzazione africana, e il continente nero emerse dal suo Medioevo, per entrare in una storia di autonomie politico-economiche, di slanci ideali, di risorgimenti, ma anche di lotte tribali, di risse con la fame, di neocolonialismi, di affarismi mercenari e di razzismi. Oltre la bianca Tunisi è la bianca - e chiusa - Tripoli. Oltre ancora, è la bianca e immensa Cairo. Come Istanbul. Solo che Il Cairo è divorata dal disordine e maculata dai rifiuti urbani, mentre Istanbul è assediata dallo smog, e se non tira il pazzo vento del Caucaso annega tra i vapori del Bosforo e quelli dell'ossido di piombo. Sotto la gran fascia mediterranea, da Ceuta che vede fluire e rifluire le acque mediterranee e atlantiche, fino a Suez che filtra il Mar Rosso, cambia il colore del cielo e della terra. Il deserto avanza di chilometri quadrati all'anno e divora persino le oasi. I confini diventano incerti: in Sudori per la guerra con i libici, in Etiopia per la guerriglia eritrea, in Sahel per la mobilitò delle tribù e del bestiame decimati dalla fame, nell'Africa australe per le rivolte antirazziste.
L'arretratezza è l'altro emblema. è sorprendente scoprire che metropoli famose per arte e per storia, che diedero vita alle epopee islamiche, poi alla vicenda coloniale, infine a quelle di liberazione, sono oggi un intrico di quartieri moderni e di bidonvilles. Si passa da una strada a un'altra, da un marciapiede, da un vicolo ad un altro, ed è come cambiar mondo di colpo. Le baracche di rottami convivono con i grattacieli di vetro e cemento. Ricchezza e miseria sono ugualmente ostentate. Gli uomini sono uguali solo cinque volte al giorno, quando, al richiamo del muezzin, diffuso per registrazione ormai, proni, rivolgono il viso e la preghiera alla Mecca. Così Damasco, capitale delle sete e dei broccati; così Baghdad, capitale dalle moschee con le cupole d'oro; così Amman, capitale di un Paese desertico: le botteghe artigiane stringono d'assedio palazzi e minareti con le loro strutture di zinco ondulato e con i tetti di legno fissati da pietre e ferraglie. Così lslamabad, capitale di centomila abitanti, per metà in ville immerse nei giardini, per metà in capanne di paglia e mattoni di fango. Così nei due Yemen, che hanno un muro ideologico nel cuore. Per veder cancellata la fame, occorre tornare indietro, in Kuwait, nell'Oman, a Ryad. Una volta, anche a Beirut, che oggi è ridotta ad alcuni grattacieli e a pochi quartieri con barricate, in un paesaggio di macerie fumanti e di cimiteri improvvisati. E così ancora a Gerusalemme, città sacra, come l'ulivo, a tre religioni, e contesa da due imperialismi regionali.
Se non è più di moda chiedersi di quante divisioni disponga il papa, sta diventando sempre più normale fare i conti in tasca a mollah e gruppi islamici vari, per valutarne le reali capacità di offesa. L'integralismo musulmano si è infatti trasformato negli ultimi anni in una categoria strategica indispensabile per la decifrazione degli equilibri delle forze in alcune delle aree più calde del globo. Il rischio, però, è che per questa via si perda la dimensione sociale e culturale del fenomeno. Una dimensione tutt'altro che secondaria, date le sue più o meno dirette ricadute politiche.
Strategicamente, l'integralismo appare come un elemento omogeneo, unificato da una caratteristica precisa: la capacità - se non addirittura la volontà - di influire sugli "interessi occidentali". Invece, in un'ottica diversa, che tenga conto della complessità, anche dal punto di vista storico, del fenomeno, sono le componenti interne a ciascun Paese (o area) ad apparire l'elemento dominante. La caratteristica unificante in questo caso è la "generazione spontanea" dovuta ad esigenze locali. Solo in base ad esse si può capire perché nella Turchia di Kamal Ataturk si prende ad arrestare i testimoni di Geova rei di avere abbandonato la fede islamica.
In Israele, poi, gli arabi creano aree di attesa separate per uomini e donne alle fermate degli autobus, mentre nelle università dei territori occupati i movimenti islamici si pongono al centro della protesta. Nel Maghreb, dove il laico Burghiba (fino a che è rimasto al potere) si affianca un re Hassan che si proclama padre del credenti, i partiti di Dio si moltiplicano. Per non parlare dell'Iran, del Libano, del Pakistan con la sua legge islamica applicata alla lettera.
E' difficile collegare una simile casistica estremamente variegato, in cui le influenze reciproche - se ci sono - appaiono indecifrabili. Né chiarisce la questione l'ovvia considerazione che la miscela prodotta dalla fusione dell'integralismo -una tentazione cui non sfugge alcuna religione e forse alcuna ideologia - con l'Islam risulta, per le caratteristiche "totalizzanti" di quest'ultimo, particolarmente esplosiva. Questa "esplosività" - qui sta il punto - non sarebbe mai stata accolta nell'esclusivo club dell'alta strategia se non fosse stata accompagnata dalla "simultaneità" del revival islamico. Ma se il punto di partenza sono le diversità locali, come si spiega questa simultaneità, talmente unificante da fare scavalcare con un solo balzo la pur secolare e radicata divisione tra sciiti e sunniti? Evidentemente, la chiave di tutto sta nella omogeneità della crisi di identità in cui si muove praticamente tutto il mondo islamico. In passato, le fiammate integraliste restavano incendi isolati, per quanto grande fosse la loro forza di propagazione. Lo stesso scontro con le montanti potenze europee è avvenuto alla spicciolata. Nessuna seria influenza è riscontrabile tra i due poli dell'integralismo del secolo scorso rappresentati dal mahdismo sudanese e dalla senussia libica. Del tutto isolato è poi quello che normalmente viene considerato il primo movimento integralista dell'epoca moderna che abbia profondamente influito sulla storia del mondo islamico: quel wahabismo che, nella fusione con gli interessi espansionistici della tribù saudita, ha finito coi costituirsi in Stato.
Poi, però, le esperienze del vari frammenti del mondo islamico, pur lontanissimi per collocazione geografica e base culturale, sono divenute sempre più simili, anche nelle dinamiche temporali, a causa della comune soggezione al colonialismo.
Non a caso la cosiddetta seconda generazione degli integralisti dell'epoca moderna, quella che ha i suoi più noti esponenti in Hassan el Bannah (fondatore della Fratellanza musulmana), Sayed Kotb e Abu el Ala Mawdoudi, assume un peso politico più o meno nel medesimo periodo, gli anni dei primi fermenti indipendentistici. E, ai nostri giorni, quello che non ha fatto il colonialismo lo ha fatto il mercato internazionale del lavora, unito - forse - alla rivoluzione tecnologica. I processi storici, pur differenziati nelle origini e nelle manifestazioni locali, sono stati omogeneizzati dall'unica dinamica che pervade il villaggio-mondo.
D'altra parte, la storia insegna che una delle caratteristiche dell'integralismo islamico è la sua ciclicità. Esso diviene una forza politica propulsiva quando si manifesta una crisi socio-economica. Proprio questa ciclicità rende ragione della contraddizione di fondo dell'integralismo, che oggi come ieri appare perennemente in bilico tra reazione e rivoluzione. Esso può sparire e ritornare proprio perché non è né l'uno né l'altro: a meglio, è sia l'uno sia l'altro, come è perfettamente naturale per chi si pone dalla parte dell'assoluto e non si preoccupa affatto del "senso della storia". Un atteggiamento, questo, che è la conseguenza della tensione intellettuale cui va soggetto l'Islam fin dalle sue origini. Ha il pregio di ignorare i fallimenti e il difetto di impedire la elaborazione di un progetto concreto, ovvero storicizzato, di società, nonché valide tattiche di lotta: ogni battaglia, anche congiunturale e parziale, viene intrapresa come se si trattasse di un combattimento finale, totale e definitivo.
Lo scivolamento verso il terrorismo - e altre forme di fanatismo - copre almeno in parte questa realtà. Qui sta la corica destabilizzante cui gli esperti di strategia guardano con preoccupazione. Ma c'è dell'altro. C'è, per esempio, che ogni ritorno ciclico non corrisponde perfettamente - e come potrebbe? - e quello precedente. Così oggi e solo oggi, 1400 anni dopo l'Égira, l'Islam si coniuga, ufficialmente e programmaticamente, con l'idea di rivoluzione. Sembra, insomma, che Dio "voglia" il cambiamento, radicale e violento, dell'ordine sociale e di tutto ciò che a tale cambiamento si oppone.
Ciò non significa che l'anima rivoluzionaria dell'integralismo prevalga su quella reazionaria (per esempio, la reale portata dei cambiamenti sociali prodotti dalla "rivoluzione" khomeinista è ancora in grandissima parte da scoprire). Piuttosto fa pensare che non è possibile separare l'integralismo di oggi dall'altro grande movimento che ha scosso l'Islam nell'ultimo secolo: il modernismo.
Proprio il modernismo ci insegna che il riferimento alla purezza dell'Islam non è antitetico al desiderio di spalancare quella "porta dell'innovazione" su cui si arrovellano da secoli i pensatori musulmani, i "grandi" del modernismo, da Jamal ed-Din Al Afghani a Muhammad Abdoh, a Rashid Redha, che compresero l'importanza della scienza, dell'educazione di massa, del progresso e del benessere sociale, così come l'esperienza del mondo cristiano-occidentale indicava; e che intuirono che il punto di partenza doveva essere il risveglio islamico, la rivitalizzazione cioè - in chiave esplicitamente di lotta anticoloniale e antimperialista - della presenza storica del Corano. D'altra parte, per combattere l'intrusione straniera era indispensabile rafforzare la saldezza morale della comunità islamica; e questo obiettivo poteva essere realizzato solo attraverso un'azione religiosa. Un'azione, diceva Al Afghani, come quella sollecitata da Lutero, che fu essenziale per favorire lo sviluppo del capitalismo in Europa.
Anche quella di Lutero era una rivoluzione, ma calata nella realtà di oggi sarebbe davvero destabilizzante? O piuttosto è una strada obbligata nella battaglia - ancora in gran parte da combattere - contro il sottosviluppo, senza determinanti cadute di ordine militare o strategico? E' importante che l'interrogativo resti aperto e non venga risolto con semplicistiche (e talvolta razziste) generalizzazioni.
Il risveglio islamico non è un fuoco di paglia. Da un capo all'altro del 70 Paesi in cui sono presenti, gruppi musulmani caratterizzati dall'intransigenza religiosa o da rivendicazioni di identità stanno minando ideologie e poteri. Quel che sorprende gli occidentali è la capacitò dei musulmani di mobilitarsi sulle stesse parole d'ordine, di muoversi in sintonia, malgrado le enormi distanze sociali, politiche, razziali, economiche e geografiche che li separano. Dal cuore dell'Urss a quello dell'Africa e agli arcipelaghi del Pacifico, dal fellah poverissimo al petroliere miliardario, i seguaci dell'Islam sono uniti da un nuovo legame, che non sembra esistere fra i cristiani. Risvegli di coscienza islamica non sono stati infrequenti in passato. Ma questa volta, nell'anno dell'Égira 1366, il fenomeno ha assunto proporzioni planetarie, senza precedenti.
Ci troviamo, dunque, per la prima volta nella storia, di fronte a un movimento ponislamico sempre più potente ed esteso, che per molti versi può essere paragonato ai movimenti ponslavisti e pangermanisti del secolo scorso in Europa. Popoli e nazioni diversi cercano nell'Islam una loro identità culturale, e ritrovano una loro unità di fronte ai nemici comuni, occidentali e orientali. i quali, dal canto loro, hanno opposto fino. ad oggi una diffusa ignoranza sull'Islam, perché hanno alle spalle tutta una tradizione di studi islamici, 60 mila opere scritte tra il 1800 e il 1950, imbevute di distorsioni storiche, di pregiudizi e di odiose falsità.
Il problema è capire l'Islam e farsi capire dall'Islam. Altrimenti, non si verrà a capo di nulla. Non si risolverò, cioè, la natura dirompente della risoluzione islamica che pretende di impersonarsi nel khomeynismo e nella sua versione più aggressiva. I cannoni non hanno mai risolto alcunché. Possono solo esaltare, fino a che glielo consentiranno, il fanatismo degli hezbollah o la disponibilità al "sacro martirio" del pasdaran, delusi dal comportamento ritenuto flaccido e rinunciatario degli Sciiti e in genere dell'arabismo fatalista e rassegnato alla sua sorte. Ma oltre non si andrà.
La vera minaccia, in prospettiva storica, è questa. L'Occidente non può fare molto per aiutare i Paesi arabi a resistere ai soprassalti di integralismo armato. Ma è in gioco la sorte di circa un quinto dell'umanità: che è come dire la sorte di tutti. Occorreranno molta pazienza, molta attenzione e molta cautela per disinnescare questo tipo di minaccia, che si gioca tutta all'interno di un mondo che rimane sostanzialmente piuttosto lontano, se non proprio estraneo, alla cultura occidentale. Vi è quindi un altro tipo di sminamento che dovrà essere effettuato: ma questo solo i musulmani - Sunniti e Sciiti, Drusi e Alauyti, e quant'altri ci siano, tutti insieme - potranno portare a termine, restituendo all'Islam la sua dimensione di grande religione che unisce quasi un miliardo di uomini, ma separandolo dall'Islam politico, che non può che essere "laico": questa può essere la più grande rivoluzione musulmano, la sola che sia in grado di cancellare le tentazioni delle teocrazie militari e del "divino Stato guerriero", che sono cose del passato, e che nella memoria storica devono rientrare, per restarvi per sempre. E se possibile, diventare di sale: come la moglie di Lot.

I Fratelli musulmani

Di integralismo musulmano si parla sempre più spesso, e il più delle volte il riferimento è a gruppi o movimenti parapolitici, qualche volta addirittura terroristici, impegnati a modificare o persino sovvertire l'ordinamento statale del Paesi in cui operano. Egitto, Tunisia e Libano hanno conosciuto negli ultimi tempi il fenomeno di un integralismo islamico a volte particolarmente aggressivo.
Per l'Egitto, senza tornare indietro fino al mortale attentato a Sadat, è sufficiente ricordare la rivolta degli agenti di polizia ad Alessandria e al Cairo e l'attentato, di poco successivo, al ministro degli Interni. Due sintomi di un malessere sociale, provocato dalla grande povertà di vasti strati della popolazione che non trova sfogo nei canali istituzionali tradizionali. L'attentato al ministro è stato seguito da un'ondata di arresti che ha colpito proprio l'integralismo islamico militante, quello dei "Fratelli musulmani". Fonte di ispirazione - non solo ideale, si dice - l'Iran. Anche nella "rivolta del pane" scoppiato in Tunisia due anni fa hanno trovato acqua abbondante per nuotarvi i "Fratelli musulmani".
Le piaghe della società - e la Tunisia ne ha parecchie, per la caduta del prezzo del petrolio e del fosfati - offrono un nutrimento sostanzioso e abbondante ai delusi dell'ideologia. Queste piaghe aperte lasciano facilmente che il malessere sociale e la voglia di cambiamento si incanalino lungo i binari del fondamentalismo. Dalle moschee e dalle università i "Fratelli musulmani" fanno sentire la loro voce con forza crescente.
In Libano, l'integralismo ha assunto un ruolo politico e militare del tutto particolare. Il movimento sciita, espressione - anche armata -della massa di diseredati libanesi esclusi fino a ieri dal potere, negli ultimi sei anni ha spesso imposto le sue scelte anche agli occupanti israeliani e siriani. A farne le spese sono stati però soprattutto i palestinesi, che insieme con i cristiani si erano spartito per lungo tempo il potere. Gli "hezbollah" (i diseredati) e gli uomini di "Amal islamica", assieme ad altri gruppi minori, hanno ripetutamente riempito le cronache, legando il loro nome ad atti di terrorismo e di guerriglia. Solo come in Iran, in Libano il movimento dell'integralismo musulmano non opera nella clandestinità, e riceve aperto appoggio da Teheran. Un caso a parte, quello della Turchia, dove la spinto dell'integralismo islamico non ha raggiunto i livelli esplosivi dell'Egitto e della Tunisia. Il fenomeno della riscoperta religiosa, dalla nascita della Turchia moderno di Ataturk negli anni '20, è comunque in netto ripresa, soprattutto tra i giovani. In questo, un aiuto l'ha dato anche il regime militare nato col golpe dell'82. I finanziamenti che giungono - si dice - da Paesi arabi e dal confinante Iran, servono a dare nutrimento alle organizzazioni del "Fratelli musulmani" radicati anche qui. Nessuno ècomunque in grado di valutare attualmente la pericolosità del fenomeno. La Turchia ha rodici profonde nell'Islam, ma il corpo, per la sua storia recente, è in Europa. L'integralismo islamico troverebbe qui un terreno certamente fertile, ma non sembra per ora esserci quel malessere sociale diffuso, indispensabile ad una sua espansione su vasta scala.

Islam
Un codice barbaro

I ribelli o gli infedeli che profanano il tempio della Mecca violano un luogo sacro e "seminano la corruzione". Devono essere puniti con lo "smembramento". E' il Corano stesso a prevedere la pena da infliggere.
Ma oltre al Corano, considerato troppo sintetico, i musulmani, per amministrare la giustizia, si servono della "Shari'a", un sofisticato sistema di giurisprudenza che raccoglie 1.400 anni di esperienze e di continui aggiornamenti. Ogni possibile reato e pena sono previsti. Quando si presenta un caso nuovo, si giudica col criterio dell'analogia. Così, la falsa testimonianza è giudicata alla stregua dell'ubriachezza, in quanto entrambe presumono uno stato di "falsità", e sono punite con 80 frustate. Sono proprio le pene corporali (il taglio della mano per i ladri abituali, la lapidazione per le adultere) a far giudicare da molti la "Shari'a" un sistema medioevale.
I giuristi islamici difendono il loro codice sostenendo che offre numerose garanzie (per condannare una vedova ci vogliono quattro testimoni presenti al fatto; non si punisce il ladro spinto dalla necessità), ma resta il fatto che in Iran la reintroduzione della "Shari'a" ha corrisposto a un brutto colpo per i diritti conquistati dalle donne anche in tempi recenti. La legge islamica, che tollera la poligamia maschile e il ripudio della moglie con una semplice dichiarazione, obbliga invece la donna alla "modestia" del vestire e a particolari limitazioni sessuali e di eredità. Ulamà e sostenitori della "Shari'a" affermano tuttavia che le leggi islamiche varate da Maometto sono state all'avanguardia in un'epoca in cui le donne erano considerate pure e semplici proprietà.


15 secoli col Profeta

La notizia non ha avuto ampia diffusione in Europa, eppure è di rilevanza planetaria. Siamo entrati nel quindicesimo secolo dell'Islam, mentre tutto lasciava credere che questo sarebbe stato proprio il nuovo, grande secolo dell'Islam. I presupposti non mancavano certamente: il mondo musulmano possiede spazio, uomini, ricchezza e una carica interna che lo spinge ad ampliarsi, come se la Conquista fosse ancora un procedimento in atto.
Ma l'Islam vive di contraddizioni: parallelamente ai successi, gli viene meno la determinazione. Allora subentra il dubbio, il desiderio di interrogarsi e di chiudersi in se stesso. E' sotto i nostri occhi, ed ècronaca quotidiana, il dramma dei musulmani, quello di sempre: combattuti tra il desiderio di vivere il Duemila e di tornare alle origini, trovando un compromesso senza dannarsi l'anima. Progresso e Islam - ma anche progresso e Cattolicesimo - non sempre vanno d'accordo.
Non è solo una questione politica. Il Corano non è esigente e tollera, fianco a fianco, repubbliche liberali, monarchie tribali, regni costituzionali, sovranità beduine, Stati teocratici, dittature comuniste, dispotismi locali. Solo gli Sciiti manifestano intransigenza: ma per gli Sciiti - una ridotta minoranza fra i musulmani - tutti i regimi sono illegali o, nella migliore e più benevola delle ipotesi, in libertà vigilata. Quello che accomuna l'Islam è la rivolta al potere politico anticlericale, se non addirittura ateo: ne sanno qualcosa il pakistano Alì Bhutto o l'indonesiano Sukarno. C'è un solo esempio di ateizzazione di uno Stato musulmano: la Turchia. Ci riuscì Ataturk, ma l'Islam ha la memoria lunga. La guerra tra Iran e Iraq, le continue tensioni tra Egitto e Libia, la guerriglia tra i Sunniti libanesi e gli hezbollah di parte sciita, le guerriglie del mujaheddin afghani, sono tutti segnali della crisi interna dell'Islam, della perdita di quella che è sempre stata l'arma decisiva del mondo islamico: la coesione. Nel momento in cui la ricchezza del petrolio e gli eccellenti risultati del proselitismo in Africa nera sembrava avessero dato all'Islam un nuovo irresistibile impulso, è subentrato la crisi, che non è solo quella del prezzo del greggio.

Petrolio e sottosviluppo

C'è la cosiddetta carta del dannati della terra. Questa carta si identifica, con poche eccezioni, con la carta dell'islam. Negli ultimi anni la geografia del sottosviluppo è mutata parecchio, in Estremo Oriente e in Sudamerica. Per quanto rapace e distorto, lo sviluppo può sconfiggere, quando vuole, l'arretratezza. Nella grande fascia islamica (con l'aggiunta delle aree non islamiche dell'Africa e dell'India), si verifica il contrario. la ricchezza esplosa nel '74 col petrolio non viene a capo di nulla. èconcentrata in pochi Paesi, spesso molto piccoli, che non ne hanno gran bisogno. Ridistribuirla è difficile, o meglio, impossibile. Il Terzo e il Quarto Mondo, insomma, sono in gran parte lslam.
Il petrolio islamico è tanto. Dall'indonesia all'Algeria, le riserve ammontano a 37 miliardi di tonnellate. Sono il 41% di tutte le riserve di petrolio disponibile per il mercato planetario. Oltre ai Paesi islamici, pochi altri esportano greggio: Nigeria, Venezuela, Messico, Inghilterra, Norvegia. Questo petrolio, che conta molto già adesso, in tempi di nucleare in crisi, sarà indispensabile per tutti gli anni Novanta. Negli ultimi cinque anni ha generato un afflusso di ricchezza di 900 miliardi di dollari. Dal '69 al '73, prima del primo shock, aveva prodotto solo 15 miliardi di dollari. Nel prossimo decennio, la sua importanza crescerà, perché diminuirà la produzione in altri Paesi, quali gli Stati Uniti e il Canada.


Ma l'Islam ricco di petrolio è desertico, con l'eccezione dell'Indonesia e, in parte, dell'Algeria e dell'Iraq. L'Islam che non ne ha, o che ne ha poco, è sovrappopolato: accalcate lungo il Nilo o sotto i monsoni, masse sterminate crescono a un ritmo superiore al 3% all'anno, raddoppiando ad ogni generazione. Sono i popoli del deserto e delle alluvioni. La responsabilità dell'arretratezza è attribuita allo sfruttamento dell'imperialismo. Ma è dubbio che l'Occidente abbia fatto più guasti di quanti se ne sia inflitti il mondo islamico stesso con lo schiavismo, con la "fiscalità negativa" degli Ottomani, con l'inerzia, con i conflitti tribali, con l'integralismo religioso, con gli armamenti. La verità è che l'Islam è stato finora parte consenziente del mondo afroasiatico, adagiato da un millennio nell'immobilismo, al carro dell'"industrialismo" occidentale.
Il decentramento di tante produzioni che le multinazionali hanno avviato negli ultimi anni, sfruttando l'operosità degli affamati, ha trovato echi molto limitati nel mondo islamico. Cinesi, coreani, malaysiani, filippini, persino gli indios sudamericani hanno fatto e fanno di tutto a poco prezzo: tessuti, abbigliamento, scarpe, borse, radio, televisori, pile, orologi, ecc. Hanno lavorato sodo, e hanno accumulato capitali con i quali hanno cominciato a impiantare piccoli e medi ateliers che incominciano a produrre in proprio, ad esportare in proprio, a guadagnare in proprio. Tra poco, ci soppianteranno. Poco o nulla di tutto questo nel mondo islamico. Qualche cosa s'è mossa in Tunisia e in Marocco, nella Turchia nemica dell'integralismo islamico. Punto e basta.
E la solidarietà resta sempre contenuto. I progetti per mettere a frutto i petrodollari sviluppando le aree arretrate sono tutti occidentali, e non hanno suscitato che diffidenze. Qualche successo ha avuto una decina di anni fa il tentativo del saudita re Feisal di annegare il radicalismo arabo nel grande Islam. Una Conferenza islamica, che si riunisce periodicamente dal 1969, nel '74 ha dato origine a una Banca per lo Sviluppo islamico. La Banca ha creato una nuova moneta, il "dinaro islamico", (corrispondente al Diritto Speciale di Prelievo del Fondo Monetario Internazionale), e si è dato un capitale di due miliardi di "dinari islamici". Più della metà è stata già versata, e la Banca ha incominciato a dare prestiti senza interessi. Questo è tutto. E dove mai si potrà arrivare?

Il ritorno dell'Islam

Uno del fenomeni di maggior rilievo intervenuti negli ultimi decenni sulla scena internazionale è stato, insieme con la decolonizzazione, il risorgere dell'Islam come fattore condizionante delle relazioni fra Stati. Questa rinascita comporta la reintegrazione di una realtà storica e religiosa, dominatrice per molti secoli di un vasto spazio geografico, che in epoca coloniale era stata affrettatamente giudicata conclusa.
L'Islam non è soltanto una religione scaturita da una predicazione che riafferma in forma solenne una assoluta fede monoteista; né può considerarsi un arcaico codice morale proprio delle società semitiche primitive che vela e reclude le donne e mozza le mani ai ladri. E' soprattutto una concezione globale del mondo e delle relazioni umane che nella scala del valori non privilegia l'individuo, la cui personalità si annulla nella "Ummà", cioè nella comunità dei credenti presi nel loro insieme, di cui l'uomo è una semplice monade o cellula.
Oltre che una religione universale, l'Islam quindi è un sistema istituzionale e culturale. Questa sua essenza non va ignorata quando si tenti di situarne caratteri e funzioni nella vita contemporanea, fino a ieri dominata dalle potenze cristiane e dalla loro apodittica certezza di disporre di strumenti e di metodi di ricerca, enormemente superiori a quelli di qualsiasi altro popolo. Adesso, però, che quelle stesse potenze attraversano una fase di decadenza, che tutte le comunità islamiche hanno conseguito l'indipendenza, costituendosi in Stati autonomi (con la cospicua eccezione di quelle esistenti nell'Unione Sovietica, ancora inserite in una formazione federale dominata da etnie europee di fede cristiana), il problema delle relazioni tra società guidate dalle due massime religioni monoteistiche (cristiana e islamica) appare di stringente attualità, ma anche di complessa soluzione. Rimossa la leggenda di una superiorità congenita, e pressoché biologica, dell'Occidente sull'Islam, va sottolineato che il carattere trionfalistico recentemente assunto da quest'ultimo non è un fatto nuova ed è da tenere presente come criterio di giudizio quando si vogliano rettamente valutare una mentalità e un comportamento musulmani che altrimenti resterebbero incomprensibili.
Nella visione islamica, la Ummà (dalla parola "umm", che in arabo vuoi dire "madre") designa la comunità degli individui soggetti ad Allah, contrapposta alla "Città della guerra", cioè ai Paesi non islamici, dove i diritti divini sono conculcati e vilipesi e che debbono quindi essere soggiogati, se necessario, con la forza. la struttura teocratica dell'Islam mutua i suoi caratteri di necessità dal mondo fisico e da quello ultraterreno. Entrambi obbediscono alla normativa emanante dalla rivelazione profetica depositata nel Corano.
Questa comunità integrata che riconosce ai suoi affiliati la condizione di fratelli, ha subìto nei quattordici secoli di esistenza fasi di espansione, generatrice di esultanza nel cui contesto vittorie e successi, ottenuti prevalentemente con le armi, erano giudicati come prove della predilezione divina e riconoscimento del meriti conseguiti.
In certe fasi della storia europea, la conquista del continente da parte del musulmani parve imminente e inevitabile. Così fu, all'inizio dell'Egira, allorché in pochi decenni gli eserciti arabi, portatori del verbo e fanatizzati dalla certezza di essere strumenti di Allah, oltre a conquistare un territorio enorme, compreso tra il Marocco, l'Asia centrale e l'india, penetrarono in Europa, dalla Spagna e dalla Sicilia, compiendovi scorrerie e devastazioni. L'Italia sarebbe stata probabilmente sottomessa per intero, se non fosse intervenuta nell'anno 849 la vittoria di Ostia, ad opera di Papa Leone IV.
Settecento anni più tardi, il movimento di espansione dell'Islam fu ripreso ad opera dei Turchi, convertitisi al messaggio di Maometto. Dopo aver distrutto l'impero Romano d'Oriente, occupando Costantinopoli (1453), essi dilagarono nella penisola balcanica, annettendo un territorio dopo l'altro. Il loro ardimento giunse fino a porre l'assedio a Vienna (1683), liberata dal pericolo di soccombere agli invasori dall'intervento provvidenziale di Giovanni Sobieski, re della cattolicissima Polonia.
Fu un periodo di gloria che parve rinnovare, ad opera del Turchi, il sogno arabo di realizzare la conversione dell'intero ecumene.
Circa due secoli dopo, quasi a suggello del processo di decadenza dell'Impero Ottomano, ebbe luogo la spedizione di Napoleone in Oriente (1798), che segnò l'inizio delle annessioni del Paesi islamici. Al termine della prima guerra mondiale (1918), erano quasi tutti soggetti alle potenze europee, seppure con varia gradazione di intensità. Il movimento di emancipazione politica ebbe inizio all'incirca alla fine della seconda guerra mondiale (1945), sotto la spinta delle idee di rinnovamento che da oltre un secolo chiamavano a raccolta i fedeli, incitandoli all'insurrezione contro l'occupante cristiano, agitando il ricordo della gloria passata.
La decadenza dell'Occidente, accompagnata dalla fine degli Imperi Coloniali, portò a una nuova fase di esaltazione, spinta talvolta ai limiti del fanatismo, rafforzata oggi dai mezzi finanziari procurati dalla vendita del greggio, la cui disponibilità da parte degli Stati musulmani (11, sui 13 membri Opec) è intesa come testimonianza certa del fervore divino, da impiegarsi per la maggiore gloria dell'Islam.
E' così rinata l'ostilità sistematica contro l'Occidente, mai in realtà scomparsa, ma soltanto attenuatasi all'epoca della grande espansione coloniale. Se si tiene a mente che l'impero arabo prima e quello turco più tardi si sono per secoli consacrati alla difesa e all'affermazione dell'Islam sulle altre società religiose, si trattasse di cristiani, di zoroastriani, di indù, di buddhisti o di animisti, è facile comprendere la violenza con cui i Paesi arabi (e indirettamente tutti i musulmani) si sono accaniti contro Israele, considerato un corpo estraneo, penetrato aggressivamente nel loro mondo, e per di più nella città (Gerusalemme) seconda solo alla Mecca per santità, il cui possesso da parte degli ebrei è condannato come il massimo del sacrilegi.
E' dubbio che l'Occidente sia consapevole del carattere necessario e irrinunciabile dell'avversione del mondo musulmano (e in special modo dei Paesi arabi) contro Israele, ispiratore del fanatismo di alcuni integralisti, come i Fratelli Musulmani. Questa confraternita è stata responsabile dell'assassinio del presidente egiziano Anwar Sadat, per avere egli sottoscritto la pace col nemico. I suoi obiettivi ultimi sono facilmente individuabili. Sul lungo periodo, essa si propone di imporre il primato dell'Islam su tutte le altre culture e religioni. Un esempio di intransigenza è stato fornito dal rifiuto dei capi musulmani della Nigeria settentrionale a incontrarsi con Giovanni Paolo li, per un colloquio di carattere ecumenico, in occasione della visita pontificale alla loro regione.
Questa altera chiusura al mondo non islamico caratterizza per ora alcune minoranze, ma potrebbe allargarsi fino a determinare il rigetto di ogni intesa con l'Occidente. Che questo sia l'orientamento di certi settori è provato dalla condotta della nuova classe dirigente iraniana, che ha portato all'occupazione dell'ambasciata americano a Teheran e, indirettamente, alla distruzione di quella di Islamabad (Pakistan). Ma neanche questi episodi mancano di precedenti. Provano semmai una continuità di comportamento e d'azione. Significativo fu l'arresto, alla fine del 1600, dell'ambasciatore del re francese Luigi XIV, il più potente sovrano del tempo, catturato dalle guardie turche a Costantinopoli, maltrattato e percosso.

La nuova diaspora

Estate 1970. Al culmine della repressione antipalestinese in Giordania, quella che sarebbe passata alla storia come il "settembre nero" (forse 10.000 morti), volendo screditare di fronte al mondo arabo il suo accanito avversario Yasser Arafat, capo dell'0lp, re Hussein lo definì "ebreo", accennando al suo naso abbastanza pronunciato. Arafat rispose che si sentiva discendente di quegli ebrei che non avevano lasciato la Terra Santa dopo la distruzione di Gerusalemme ad opera dell'imperatore Tito, nel 70 dell'era cristiano.
Le cose non stanno proprio così. Nel senso che la Palestina (deve il suo nome all'ebraico Pleshet, cioè "terra dei Filistei", tradotto in greco come Palaistina) fu sommersa dall'ondata araba nel 637 dopo Cristo, e poi da tutti gli invasori (dai Crociati a Napoleone, dai Mongoli ai Mamelucchi) che volevano assicurarsi il controllo del passaggio tra Asia e Africa, insieme con una formidabile finestra aperta sul Mediterraneo. Ma la "boutade" di Arafat è sintomatica della ricerca di un'identità nazionale e di radici che la storia tenta di estirpare.
Nel 1964, quando fu fondata, l'Olp si proclamò unica rappresentante del tre milioni di palestinesi viventi tra il fiume Giordano e il mare prima del 1948, cioè prima della fondazione di Israele, e del loro discendenti. Oggi, in Terra Santa ci sono circa due milioni e 300 mila palestinesi: 900 mila in Cisgiordania, 600 mila a Goza, 100 mila nei quartieri arabi di Gerusalemme e 700 mila a Eretz Israel, lo Stato ebraico vero e proprio. Ma il calcolo non tiene conto della diaspora palestinese, dovuto alle sconfitte arabe del 1948 e del 1967. li Libano, la Giordania e in parte la Siria rigurgitano di campi-profughi; la manodopera palestinese a prezzo vile fa marciare le economie di molti Paesi arabi; intellettuali palestinesi insegnano in università orientali e occidentali, da Mosca a Perugia, da Harvard a Heidelberg.
I palestinesi, infatti, sono un popolo mediterraneo tutt'altro che arretrato o fanatico. li massimalismo non è di casa nella loro cultura e nella loro antropolagia. Oltre tutto, molti sono cristiani (cattolici o anglicani). E non mancano scrittori vicini al Nobel, come la grande poetessa di Nablus, Fadwa Tuqan, la cui antologia, Sola con i giorni, ricorda le nostalgiche rime del nostro Guido Cavalcanti.
Eppure, contrariamente agli Ebrei, i Palestinesi non sono riusciti ad esprimere una classe dirigente in grado di condurli all'emancipazione nazionale. Nel caos dell'Impero Ottomano, prima del 1914, i loro signori feudali (e tra questi molti cristianolibanesi) si giocavano letteralmente le terre al casinò di Montecarlo. Quelle terre finivano poi in mano a potentati israeliti della finanza, come i Rothschild o i Montefiore.
Il leggendario Lawrence d'Arabia (Thomas Edward Lawrence) avrebbe voluto anche in Palestina un regno indigeno. Ma era tardi. Nel 1917, infatti, Londra aveva pubblicato la "dichiarazione Balfour", con la quale auspicava la fondazione di un "focolare ebraico" in Palestina. Spinto dapprima dalle riflessioni di Theodor HerzI, un giornalista austriaco presente a Parigi ai tempi dell'"affaire Dreyfus", poi dall'immigrazione ebraica che si sottraeva ai "pogrom" in Russia e in Polonia, si stava organizzando la prima aliyà, la prima "salita" ebraica verso Gerusalemme. I Palestinesi seppero combattere: nel 1929 a Heron, dove sorge il santuario-tomba di Abramo; nel 1936-39, agli albori dell'Olocausto in Europa, in tutto il Mandato britannico. Ma alla fine non prevalsero.
Il 29 novembre 1947, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite stabilì la divisione del Mandato britannico in due Stati, geograficamente abbastanza improbabili: Israele e Palestina. Il 4 maggio 1948, per bocca di David Ben Gurion, Israele dichiarò la propria indipendenza. Fu subito guerra. La neonata Israele fu invasa da sette eserciti arabi. Si difese, attaccò, vinse e annesse altri territori strappati ai Palestinesi, che spesso i "fratelli arabi" avevano invitato a sgomberare col motto: "Tra una settimana sarete di nuovo a casa". E combatterono anche i Palestinesi. Tra i molti loro caduti, va ricordato in particolare il poeta Abdel Kader el Husseini, ucciso di fronte alla città sacra a tre religioni, il 6 aprile 1948.
Un mese prima, agli ordini del generale britannico sir John Bagot Glubb ("Glubb pashà"), "al Jeish al Aravi", la Legione Arabo giordana, aveva investito Gerusalemme, non certo per liberarla, ma per annettere i 5.900 chilometri quadrati della Cisgiordania, come del resto fecero gli Egiziani con la Striscia di Gaza (362 chilometri quadrati). Perché, alla resa del conti, neanche i "fratelli arabi" consideravano i Palestinesi degni di sovranità. Il resto della disavventura umana dei Palestinesi è storia che viviamo da vent'anni. Quando, nel giugno 1967, le autorità israeliane mostrarono agli inviati speciali di tutto il mondo i territori arabi appena occupati, si diffuse la convinzione che molte cose sarebbero cambiate in quella regione, e che una trasfusione di XX secolo avrebbe potuto modernizzare una Palestina rimasta colonia, ai margini della storia. I problemi, ovviamente, erano più complessi di quanto pensassero gli osservatori stranieri. Nel 1964, tre anni prima della Caporetto araba nella "guerra dei sei giorni", era stata fondata l'Olp, succo politico e militare di vari gruppi palestinesi, il principale (e più ricco) del quali, già allora presieduto da Arafat, si chiamava "al Fatah", acronimo che confonde un poco le idee, perché, sempre in arabo, significherebbe "vittoria", ma che in realtà va letto all'incontrario, e significa "morte".
E di morte l'Olp ne ha seminata a piene mani, col terrorismo, soprattutto dopo il 1969, quando Arafat ne divenne il presidente. Ma ha anche e sempre pagato un prezzo altissimo, e non solo a causa degli Israeliani. Nel 1970 in Giordania e nel 1976 in Libano i Palestinesi tentarono, raminghi in Medio Oriente, di crearsi un Paese in un altro Paese. E furono passati per le armi dai beduini di re Hussein, poi dai regolari siriani a Tal el Zaatar.

Chiesa di Roma e Islam

"L'orrore per questa scienza e per questa tecnologia finirò per farmi abbracciare l'assurda credenza di Dio", fa dire Buñuel a uno degli enigmatici protagonisti (forse il più autobiografico) della Via lattea. Questa riflessione sulla crisi morale dell'Occidente è straordinariamente simile all'accusa che Khomeyni rivolge agli "infedeli" e che suona press'a poco così: "Noi non temiamo la vostra scienza e la vostra tecnologia, temiamo le vostre idee e i vostri costumi". C'è una differenza essenziale: l'Occidente che medita sulla propria crisi non può distinguere tra scienza e idee, tra tecnologia e costumi; il risveglio islamico, invece, basa su questa distinzione l'intera strategia dei suoi rapporti col mondo occidentale.
Il problema di fondo è questo: l'attuale risveglio islamico ritiene inaccettabili, in quanto diametralmente opposti all'essenza dell'Islam storico, i principii illuministici della laicità dello Stato e del primato della coscienza individuale. Dice Francesco Gabrieli: Al momento religioso, individualmente e socialmente considerato, è e resta nell'Islam preponderante rispetto a ogni altra norma di vita personale e collettiva. Quei concetti illuministici resteranno inaccettabili fino a che inaccettabile gli risulterò la messa in discussione del primato religioso".
La stessa idea di progresso, inteso come sviluppo complessivo, materiale e morale, è difficilmente recepibile e traducibile nell'universo culturale islamico. Nella visione religiosa musulmana l'optimum si è realizzato agli inizi dell'Islam, epoca alla quale segue una serie ininterrotta di decadenze. Infatti, ogni movimento di rinascita del mondo islamico si è sempre presentato come un recupero delle origini, "come un tentativo di restaurare nella loro purezza e nel loro rigore i precetti della rivelazione coranica (da qui deriva la barbarica giustizia penale della Shari'a introdotta in Iran) e quelli deducibili dall'esperienza delle prime generazioni musulmane". Rispetto al Cristianesimo, che si presenta come fede rivolta al futuro, e che concepisce la storia umana come una crescita verso la pienezza escatologica, l'Islam risulta "rivolto al passato". Quanto al "modernismo islamico", che alla fine dell'Ottocento e all'inizio di questo secolo ha tentato di conciliare la fede musulmana con le conquiste anche culturali dell'Occidente, Gabrieli lo ritiene "esaurito con il risorgimento politico dei popoli musulmani, compiutosi, e ancora oggi in via di sviluppo, all'insegna di un esasperato nazionalismo e di un duro integralismo religioso".
Secondo una singolare leggenda medioevale, Maometto sarebbe stato un cardinale che, deluso di non essere stato nominato papa, avrebbe abbandonato il Cristiainesimo e fondato una religione rivale. E non sorprendente che questa leggenda abbia avuto successo nella massa delle altre favole rozzamente e anche trivialmente messe a carico del profeta nei primi secoli dell'ègira da un'apologetica cristiana, sprovveduta di qualsiasi conoscenza obiettiva della sua persona e della sua opera, ma soprattutto avvilita perché non riusciva a spiegare un avvenimento come quello dell'apparizione di una nuova fede dopo l'avvento di Cristo e soprattutto della sua diffusione fulminea e vastissima, tale da oscurare quella ritenuta miracolosa del Cristianesimo.
Solo nel secolo XII Pietro il Venerabile decise di recarsi in Spagna per procurarsi una traduzione attendibile del Corano. Ottenutala, la spedì a San Bernardo, perché ne facesse la confutazione. E ne tentò una lui stesso, nel segno del rispetto e dell'amore per i musulmani. Troppo tardi, però. Le Crociate stavano scavando un fossato incolmabile tra Cristiani e seguaci dell'Islam. Ci vollero comunque le ripetute invasioni arabe dell'Europa per rovesciare il disprezzo precedente in apologia ed esaltazione da parte di studiosi come il Reland e il Gagnier, (quest'ultimo, però, era un apostata). Solo verso la fine dell'800 e nei primi decenni del '900 seri studiosi cattolici (Lammens, Power, ecc.) approdarono a una riabilitazione scientifica di Maometto e dell'Islam. Solo che allora il pericolo della mezzaluna non incombeva più sulla cristianità. Non solo: la guerra fredda, dopo il secondo conflitto mondiale, favoriva le prudenti simpatie della Chiesa cattolica per l'Islam, nel quadro della costituzione di un unico fronte delle forze spirituali da opporre al materialismo ateo del comunismo internazionale.
Contemporaneamente, del resto, il processo di decolonizzazione poneva in atto un rilancio dell'islamismo su scala intercontinentale, tra Asia e Africa. E la sensibilità politica della Santa Sede alla nuova situazione è attestata dal quadro delle relazioni diplomatiche prontamente accettate o prevenute con le sue delegazioni apostoliche. Giovanni XXIII, col suo Concilio, trasferì soprattutto sul piano religioso questo comportamento della Chiesa di Roma, seguito da Paolo VI, che nel '64, un anno e mezzo prima della chiusura del Vaticano li, istituì il Segretariato per i non cristiani, affidandolo a uno studioso di storia delle religioni, il cardinale austriaco Koenig. Ben presto, però, la politica finì per infiltrarsi pericolosamente nell'attività del nuovo organismo vaticano: dapprima con l'occupazione di Gerusalemme e della Cisgiordania da parte di Israele nel '67, poi con lo scatenamento della guerra del petrolio. Non del tutto a caso, proprio nel '74, Paolo Vi decise la creazione di una speciale Commissione per i rapporti religiosi con l'Islam, alle dipendenze del Segretariato per i non cristiani (nel frattempo dilatatosi notevolmente: oggi conta 10 cardinali e 12 vescovi, e un corpus di 46 consultori, oltre a tutto l'apparato di officiali di vario grado).
I recenti avvenimenti, e soprattutto le ripercussioni della politica di Khomeyni e la guerra Iran-Iraq in lontani Paesi musulmani dell'Asia e dell'Africa, sembrano ammonire che la situazione volge verso una drammatica crisi. Al punto che c'è chi prevede che fra non molto l'ecumene cristiana potrà trovarsi a fronteggiare ancora una volta l'ecumene islamica. Con danni incalcolabili per l'una e per l'altra.

L'ISLAM IN 26 PAROLE

ALEVI: nome turco della setta del seguaci del califfo Ali. Sciiti progressisti, gli aleviti combattono i Sunniti.

ARKAN: i cinque principii-base dell'Islam: 1) Shahada, professione di fede: "Non c'è altra divinità oltre a Dio, e Maometto è l'inviato di Dio"; 2) Preghiera canonico da recitare cinque volte al giorno; 3) Sakat, la rituale tassa obbligatoria pari al 2,5% delle entrare di ogni musulmano, da versare in favore del poveri; 4) Digiuno rituale nel mese di Ramadan; 5) Hajj, il pellegrinaggio alla Mecca da compiersi salvo impedimenti gravi, almeno una volta nella vita.

AYATOLLAH: "Segno di Dio". Titolo onorifico dato dalla comunità islamica ai più importanti tra i "mujtahid", coloro che interpretano in maniera autonoma le fonti religiose. Questa possibilità di interpretazione distingue, gli Sciiti dai Sunniti (per questi ultimi, non è possibile alcuna
interpretazione).

CALIFFO: "Vicario". Autorità del potere politico, caduta in disuso. Non ereditario, era nominato e destituito dalla comunità.

CORANO: "Lettura". E' l'unico testo sacro dell'Islam, considerato parola diretta di Dio, rivelata a Maometto. E' diviso in 114 capitoli, o "sure".

CURDI: gruppo etnico di lingua ironica, privi di Stato autonomo, divisi tra Turchia, Iran, Iraq e Urss. le loro continue rivolte si sono sempre risolte in massacri.

ÉGIRA: "Emigrazione". Indica la fuga di Maometto dalla Mecca a Medina, nel 622 d.C., anno che dà inizio al calendario islamico.

GENTE DEL LIBRO: gli infedeli che seguono un libro rivelato e riconosciuto dall'Islam: ebrei e cristiani.

JIHÁD: "Guerra santa". Si fa solo per difendere la fede islamica. Chi muore nel Jihad, secondo il Corano si conquista automaticamente il paradiso. Deve essere dichiarata ufficialmente.

ISLÁM: "L'affidarsi volontariamente a Dio". la seconda religione più diffusa nel mondo: 750 milioni di fedeli, contro 985 milioni di cristiani.

IMÁM: per i Sunniti è solo colui che guida le preghiere giornaliere. Per gli Sciiti non ci può essere un altro imam, poiché il 121, della famiglia di Ali, èancora vivo e soltanto "occultato". Tornerà alla "fine del tempi".

KAFÍR: "Infedele". Vale per tutti i non musulmani.

MECCA: (Makka Al moukarrama), la città santa dell'Islam, in Arabia Saudita. Vi si conserva la Ka'ba, la "pietra nera", annerita, secondo la tradizione, dal peccato originale.

MEDINA: (Al Madina Al Maunawarah), "La città del profeta" e seconda città santa dell'Islam. Fu la città musulmana dalla quale Maometto ripartì per la riconquista della Mecca.

MUSULMANO: "Affidato a Dio". Tutti gli uomini lo sono, ma è la volontà dell'atto che distingue i musulmani dagli infedeli.

MAHDI: concetto millenaristico. "Colui che prepara la seconda venuta di Cristo sulla terra alla fine del mondo per sconfiggere gli' ultimi infedeli". Nella storia, numerosi personaggi si sono autoproclamati Mahdi, provocando insurrezioni e rivolte. Celebre il Mahdi sudanese che si ribellò nel secolo scorso alla dominazione britannica. Per gli Sciiti, in particolare, Mahdi è il nome del 12° imam "occultato".

MUFTÍ: "Colui che pronuncia le Fetwa", i pareri giuridici sui singoli casi presentati. Il muftì ha riconosciuto la possibilità di bere la Coca-Cola, ma ha negato il permesso di girare un film su Maometto e sulla fecondazione artificiale. Ha grande seguito e autorità nella comunità islamica.

RASUL: forse, "Inviato di Dio". Concetto più ampio di "Nabi", "profeta", perché è stato colui che ha dato anche una legislazione completa. Tra i Rasul, Adamo, Mosè, Abramo, Cristo e Maometto, considerato "Il sigillo". Dopo di lui, non ci potranno essere altri profeti, fino alla fine del mondo.

SUFI: o Dervisci. Affiliati alla confraternita religiosa a carattere iniziatico (un sinonimo è "faquir", da cui l'italiano "fachiro"). Sono laici organizzati in comunità conventuali, temuti da molti governi islamici.

SHÁRI'A: "La via maestra". L'insieme di tutta la legislazione che guida la vita del musulmano (da i commerci ai rapporti familiari).
Comprende il Corano e l'Hadith.

SCIITI: seguaci della Sci'a ("il partito") di Ali. Dei quattro califfi succeduti alla morte di Maometto, gli Sciiti riconoscono solo il quarto, Ali. Rappresentano il 10% della comunità islamica e fino ad oggi sono continuamente divisi da spaccature e scismi. Costituiscono la maggioranza in Iran e in Iraq.

SUNNITI: i seguaci di Sunna, "l'imitazione" del profeta. Costituiscono il 90% della comunità islamica. Le differenze tra Sunniti e Sciiti non impediscono ai rispettivi fedeli di seguire insieme cerimonie e funzioni.

SCEICCO: "Vecchio". Titolo onorifico dato a persone particolarmente venerabili per autorità religiosa. Assume un senso di rispetto in alcuni Paesi arabi.

UMMÁ: la comunità composta da tutti i musulmani, senza distinzione di nazionalità, estesa dal Marocco all'Indonesia.

ULAMÁ: "Saggio". E' l'esperto interprete della Shari'a. Non è una carica ufficiale, ma viene attribuita a quei saggi del quali viene riconosciuta l'autorità morale e religiosa.

WAHABITI: seguaci della scuola teologica che appoggiò Ibn Saud, fondatore dell'attuale dinastia saudita. Al potere in Arabia, si battono per un'applicazione letterale e integralista dei principii islamici.


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