§ Un certo tipo di donna

Tra vicoli e salotti senza poesia




Elena Pagano Rizzo



La cultura e le voci di un dialetto non sempre vengono totalmente documentate e spesso una vasta produzione sull'esperienza intima vissuta, propria di un'epoca, rimane dimenticato ai confini delle innovazioni del costume e del dialetto stesso, rischiando di scomparire.
Nella situazione attuale varie parole con una perfetta veste dialettale continuano a rientrare in silenzio nel passato, per congiungersi ad altre già completamente in disuso. Eppure da esse s'intuiscono episodi non inutili di una società leccese, aderente a forme tradizionali,. che rimane immutata per secoli nella condizione di soggezione economica e di pressioni storiche, ma che si attribuisce la libertà d'inventare con il suo linguaggio, il dialetto, parole vivaci, appropriate, ricche di significati, e le parolacce da rivolgere a persone di ogni ceto sociale, perché anche i ricchi hanno i propri pregi e difetti.
In particolare, per quanto riguarda una ricerca tra le parole registrate o tramandate di bocca in bocca, sicuramente integrate nel nostro dialetto da molti anni, si scopre che sono molte quelle modellate su I l'interpretazione di una realtà complessa e fantasiosa che si chiama "donna", osservata minuziosamente nel suo comportamento e nei tratti fisici, in modo poco indulgente e benevolo.
Per dare una cornice storica alla nostra ricerca ci trasferiamo nel periodo compreso tra le due guerre mondiali e il prefemminismo di massa, in una società che ancora mostra maggiore disponibilità per le classi altolocate. Siamo negli anni delle ultime chiacchierate nei salotti e nei vicoli, ambienti adatti al parlare delle donne, veri veicoli di trasmissione linguistica e d'informazione sul vivere quotidiano. E un modo utile per comunicare e conoscere, preferibile all'assenza di ogni partecipazione alla vita comunitaria.
E le donne leccesi si scambiano "parole" forse coniate proprio dal l'immaginazione femminile, pur nell'interno delle stesse istituzioni patriarcali, dalle quali si può trarre una galleria di tipi oscillanti tra comicità e soprusi nelle attribuzioni offensive e satiriche.
Dietro il gioco sociale degli epiteti che s'intrecciano e feriscono o suscitano la risata si sbandiera però l'intento moralistico del rimprovero e del richiamo al modello precostituito in una società che vuole la donna ngarbata fatiante, tutta casa e figghi, ca sape sparagnare, ca addù la minti sape sunare: na vera spata. A dire il vero non si vuole poco da questa donna. Eppure all'angelo del focolare, tipo del tutto consueto e non idealizzato, non vanno indirizzate particolari lodi: il suo comportamento rientra nella perpetuazione dell'istituto familiare.
Giudizi severi sono riservati per la donna che trasgredisce alle regole del lavoro domestico ed è pigra, sporca, disordinata, trasandata; è veramente ncresciusa, camascia, sfatiata, rrunzuna, scioscia, piscioscia, ndunda, ndugghia, ndrusci, ntrusciula, lurda, sciottulusa, scigghiata, scuncignata, franteddusa, sparpagghiata, sparisciata, llampisciata... Si raggiunge il culmine nel definire la deplorata donna sporca mburdata, muceta, rassusa, nsiata, Ilardisciata, mustisciusa, nfetesciuta... Dopo questo concerto di attribuzioni, ecco staccarsi un altro tipo femminile: la svampita superficiale, volubile, poco impegnata, che ama andare a zonzo ed è sperpeteca, zumpapapara, zumparuculi, spattipittule, sciuana, scuncrusa, trastulona, capistoteca, quasi tarantisciata... Che dire poi di quella comare che va girando di casa in casa per spiare e spettegolare con ipocrisia ed opportunismo? Per lei abbondano le critiche perché è trasitizza, malangante, cacacase, portanduci, mintifuecu, nasilonga, tafaneddara, cconzapiatti, zummeddusa, zunfiuna, faccillavata, sportantina, lupasurda, tramenzana, malelingua, trapulina, strafacciara... Se poi ha pure il difetto di strillare e di parlare troppo è faiassa, schiddata, trénula. Non è proprio ben vista questa comare, che viene identificata pure come lu, Gazzettinu: però le sue confidenze vengono ascoltate avidamente nel vicolo e nel palazzo della signora.
Per giudicare quel tipo di golosa che scarufa da sola c'è da scegliere tra cannaruta, cannetta, cannuzzuta, minancuerpu, squazzata, ncascizza, ezziusa, suzzuìa, pizzipìa, porcabinchiata, spurdacchiata, spilusa, muscienchiata: tene lu spundoriu e non pensa a tanta gente che stenta a vivere. Si deve trattare con disdegno ancor più accentuato quell'avara che non aiuta nemmeno i più bisognosi e chiamarla, con parole crude e sferzanti ma efficaci, spizzecuna, spurchia, spizzicafusu, culistrinta, strittulicchia, spriculamigghiu, terata, séneca, sparamazze, carestusa, spurpanuzzuli...
C'è poi, quella ragazzina, na cacanitula mucciusa, che non rispetta gli anziani e non accetta i rimproveri: è veramente spruntina, spertechina, schiattacore, schiattusa, culitorta, ncapunita, punteddusa, faccintaddata e ntascenata? Oppure avverte l'esigenza che si prepari un nuovo tipo umano in un nuovo ordine sociale?
Le parole finora riportate, non tutte nell'uso come altre che verranno in seguito, conservano un gusto cittadino, vivacità e maliziosa ironia che da sempre appartengono al sapere delle donne. Spesso sono beffarde e licenziose, ma raggiungono i diversi tipi nella loro essenzialità. E anche il caso della signura te cappieddu, la tipica rappresentante dell'aristocrazia, decaduta o no, e dell'alta borghesia. Per l'epoca presa in esame il cappello è l'emblema del perbenismo, del privilegi delle classi agiate, delle fantasie di potere. Ma la borghesia avanza e anche la moglie del menzasciamberga, il borghese medio, sfoggia il suo bravo cappello pur con gli eccessi, a volte ridicoli, di un comportamento non proprio disinvolto e signorile. Perciò viene etichettata come la signura cu l'ugna spaccata che si pavoneggia e vuole porre le distanze con "la gente bassa". Questa signora è la creazione di una società che inizia a evolversi e non è ben accetta a nessuna classe sociale perché ete struffulusa, pumpusa, ufana, spantusa, lardusa, pallunara, mussusa, cuntenusa, petucchiumpennatu, tagghialardi...
E' quella presa di mira quasi con accanimento forse perché vuole trasgredire all'ordine prestabilito nelle distanze sociali. E viene criticata perché cammina ntillata, ncadduzzata, mpupazzata, mpernacchiata, mpaparazzata, ariusa... Al suo confronto si annulla la povera donna spasulata, scurtecuna, rranciata, spritta, scarcagnata, scarcinata che viene commiserata, mentre, nello stesso tempo, si fa strada lo sberleffo che fa assumere, alla povera donna, le sembianze di zinzulusa, pendagghiusa, strazzuna, ciapezze, pezzentusa, spentecata, spamecata... E' un modo di prendere in giro proprio la miseria e le parole scoccano come dardi, che in fondo, però, non sono avvelenati. Ad essi non sfugge la signura te cappieddu, quella autentica, che viene osservata, anche lei, in ogni suo atteggiamento. è veramente tanto illibata, devota, virtuosa, oppure vuole salvare le apparenze ed è un'ipocrita musistrinta, bizzocafausa, mozzecapaternosci, musitezuccaru, na donnamintimilla capicalata, simile a tante altre donne che non vantano natali illustri? Veramente si devono porre differenze tra le classi sociali? Mentre si pongono interrogativi, nel vivere quotidiano le parole del nostro dialetto vogliono dire "tutto" senza vezzi e intenzioni puritane, nonostante possano essere impietose ed evidenziare difetti sgradevoli, anche fisici. Per questa ragione sono molte le parole composte che condensano più di una significazione e di un riferimento, con sfumature tanto sottili da rendere dubbio e poco efficiente la loro classificazione in sinonimi.
Tra le parole scoperte, quelle derivate da verbi frequentativi, sempre del nostro dialetto, hanno qualcosa di magico e di duttile, come pure quelle con affissi, alterazioni e varianti barocche valide a potenziare o a deformare il significato. Questa particolarità si manifesta nelle espressioni che qualificano la donna nei suoi tratti fisici in modo quasi sempre sprezzante ma con il potere di suscitare emozioni e di divertire.
Ed ecco apparire, nello sfondo della galleria, un altro tipo di donna: è schifiltosa, insipida, lenta, tutta lassamestare, sagnafridda, pignulusa, cagnisciusa, scalisciusa, sciacqualattuche...
Quell'altra alta e magra, dal corpo non aggraziato, viene definito mazzatescupa, quaremma, ciuccialonga, strangalasciuna, sàraca, siloca, spirlinchia sperlonga sperlangoi, sparpagghiapasseri...
Adesso avanza la donna bassa e grassa, cioè scarcioppula, cacafae, mboccularda, giucculatera, culitesporta, celano, occula, sculoffia, scorfana, burzona, quatara, squaquaracchiata...
L'altra, dall'aria disincantata, si atteggia a stupidina o lo è davvero? Allora è proprio pappacola, nicchenacche, lella, cchilla, babbata, Ilocca, papacchiona, mbambulata, minchialire, minchiona, nfessaluta...
C'è pure la vanitosa vuantusa, milurdina, parata, mpezzata, scuscetata, pierditiempu ca se gnetta li capiddi stuccati o se face la foffula, per arricciarseli. Anche questa esce di casa linta e pinta, nquacchiata, nquatarata, mascarata perché comincia a truccarsi di nascosto.
Eh, no, donne: adesso non fate lu jabbu a quella povera ragazza che definite fusciuta, ncuzzerrata, spergugnata e mappinata. è stata tradita da chi amava e ora se ne sta sola, scurnusa, spritta e scunsulata, nutecata, spierta e demierta. E' infelice e merito la comprensione proprio da voi che, secondo le consuetudini, frequentate la chiesa e seguite commosse, a volte scalze, le processioni del Santi più amati. E ridete pure per la vecchia seduta nel vicolo, Scangata, cecaruculi, scapeddisciata, rrunchiata, scancarisciata, sturtigghiata, struncunisciata, ete nu talornu, nu catafarcu... Sono parole amare, che suscitano immagini da Corte dei Miracoli: eppure contengono tanta verità: nella crudezza delle situazioni umane. C'è un'altra donna sola, della quale si ha paura, spesso a torto, chiamata masciara, macara, stulara, malumbra, mammasirena, nannorca...
Sono tante le parole per le donne, in un dialetto che non cerca di sostituire con eufemismi dizioni particolari per non privarsi della sua arguzia e autenticità. Basti pensare che anche Santa Lucia viene chiamata pesciacchiara perché fa piovere nel giorno della sua fiera. A maggior ragione e senza esitazione si deve chiamare sculacchiata, pruticulu, culitisa, tuppitisa, pigghiancapu, dicintara, scioculuna, facifaci quella donna sfacciata ma simpatica ed estroversa che si pone con aria di sfida nei confronti di chi la critica e pretende cieca obbedienza.
Le parole qui trascritte ed altre ancora sembrano nate per mettere in risalto gli aspetti negativi della donna e non la sua realtà sociale e passionale. Quelle offensive e licenziose, presenti in ogni dialetto, fanno pensare che siano state assunte per il gusto di provocare la risata, senza tener conto del conflitti interni, o per reprimere profondi e pressanti desideri di evasione, destinati a rimanere muti. Solo il maschio innamorato, nella sua galanteria spagnoleggiante, si è avvicinato alla sua donna con tenerezza e l'ha definita no pisiricchia, nu fiuru, nu puema... C'è da accontentarsi: la donna ha fascino, nonostante tutto.

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