Fino a pochi anni
fa, molti europei sembravano rassegnati all'inevitabile declino economico
ed all'eventuale sottomissione a regioni più ricche e più
dinamiche, come l'America, il Giappone e l'Asia industrializzata.
Una situazione politica complessiva basata sull'equilibrio di due
blocchi opposti aveva, senza alcun dubbio, posto l'Europa in una posizione
strategica incerta ed instabile. La debolezza economica dell'Europa
era diventata ancora più evidente in un mondo in cui la tecnologia
stava producendo cambiamenti radicali. Oggi, l'immagine dell'Europa
come punto debole dell'attività economica mondiale è
obsoleta, ma la battaglia non è ancora vinta. La rigidità
e la frammentazione dei mercati europei costituiscono l'ostacolo principale
per i cambiamenti. Inoltre, questi fattori negativi sono stati aggravati
da un conservatorismo trincerato e dall'attenzione agli interessi
particolari in cui la crescita abnorme dello stato sociale ha avuto
un ruolo importante.
L'integrazione economica del Vecchio Continente, in progetto per il
1992, dà agli europei l'opportunità senza precedenti
di organizzare l'industria e le infrastrutture su una base completamente
nuova. Un cambiamento tecnologico radicale è, in potenza, un
fattore fondamentale di crescita per l'Europa. Oggi l'innovazione
tecnologica porta direttamente alla "globalizzazione" e
gli europei sono più abituati di tanti altri a spostare i confini
nazionali ed a cooperare su diversi mercati. Oggi l'Europa ha l'opportunità
di fare un balzo in avanti decisivo, invece di avanzare con passo
lento ed incerto come ha fatto negli ultimi anni. Questo non significa
che sono finiti la stagnazione ed il declino, o che ci siamo lasciati
alle spalle la vecchia Europa. Ma abbiamo l'opportunità concreta
di rompere con gli aspetti negativi del recente passato europeo, portando
avanti con noi solo gli aspetti positivi.
Credo che, nelle politiche nazionali, tre fattori siano di importanza
capitale:
- l'ideale politico, che può essere una formidabile forza propulsiva;
- la necessità urgente, che accelera il processo decisionale;
- e il guadagno economico, che incanala e guida l'uso delle risorse
di uomini e di capitale.
Oggi tutti questi tre fattori si stanno avviando verso l'integrazione
europea del 1992. L'ideale politico dei fondatori della Comunità
europea non è andato perso, ma ha fornito le basi per una visione
dell'Europa maturata lentamente con il graduale movimento verso l'integrazione,
processo che consiste nel portare l'Europa ad un mercato unificato
nel 1992. In passato, nel mondo economico non si è sempre capita
chiaramente l'importanza dell'integrazione europea. La fine degli
anni Sessanta e l'inizio degli anni Settanta hanno visto una prima
ondata di accordi ed alleanze tra le società europee. Quasi
tutte queste iniziative imprenditoriali sono rapidamente fallite.
In generale, sono diventate o società plurinazionali senza
un centro di controllo e di coordinamento chiaramente definito, oppure
società multinazionali in senso classico, società altamente
integrate, basate su una struttura decisionale fortemente accentrata,
con procedure e prodotti uniformi.
Non erano ancora maturi i tempi perché prendesse piede l'idea
dei "network" (rete) opposto al "monolito" (blocco
unico). Il modello network riguarda una struttura pan-nazionale in
cui diverse culture e prodotti corporativi possono esistere fianco
a fianco, all'interno di un'organizzazione decentrata altamente flessibile,
e con un centro di controllo che ha il compito di stimolare reciprocamente
la collaborazione utile ad ogni livello. Le società europee
sono maturate da allora in poi, almeno da due punti di vista:
- primo, hanno compiuto grandi progressi nel mettere a punto una mentalità
davvero internazionale. Negli ultimi anni, il processo di globalizzazione
economica ha creato infinite opportunità per lo scambio di
know-how tecnologico, componenti, prodotti finiti e processi di produzione.
Tutto ciò ha alimentato una corrente di pensiero pratica, orientata
verso il mondo economico, in favore dell'unificazione. Chi agisce
in una prospettiva universale tende a vedere gli attuali controlli
doganali, restrizioni finanziarie e norme contraddittorie come anacronismi
che accentuano la frammentazione dei mercati nazionali europei, chiusi
dal punto di vista geografico;
- secondo, le società hanno capito che un'Europa unita non
è più un'opzione, come poteva essere quindici o vent'anni
fa, ma è una necessità. Senza almeno una dimensione
continentale (in termini di quote di mercato, strutture commerciali
e produttive, accesso ai mercati finanziari e così via), è
impossibile far fronte alle duplici pressioni competitive che provengono
dagli Stati Uniti e dal Giappone.

La minaccia alle
società europee sta crescendo visibilmente. I concorrenti americani
sono aiutati da un dollaro indebolito, mentre le restrizioni del mercato
americano nei confronti delle esportazioni giapponesi hanno aumentato
il livello di pressione commerciale sull'Europa da parte del Giappone.

Questa minaccia
competitiva è composta dalla produzione commerciale sempre
più chiusa ed anche da legami finanziari tra gli Stati Uniti
ed il Giappone. Perciò, alla radice della conversione del settore
corporativo verso l'idea di Europa, sta un misto di paura e profitto
economico, un bastone ed una carota.

La scadenza del 1992 è diventata, di conseguenza, un punto
di riferimento fondamentale per molte iniziative imprenditoriali diverse.
Ora le società hanno un ruolo fondamentale nel processo di
integrazione europea, non solo stimolando una rinascita industriale
ed economica, ma anche facendo pressione sui governi perché
emanino riforme strutturali ed istituzionali all'interno del quadro
europeo.
Le mie forti convinzioni a questo proposito si riflettono sia nell'impegno
personale sia nelle risorse finanziarie che ho dedicato alla costruzione
della prima holding (gruppo finanziario di controllo) veramente europea,
una società che ho chiamato Europe 1992. A questo proposito,
posso dire con piacere che alcune società di fama internazionale,
come la società svizzera NestIè e le società
belghe Cobepa e Gevaert, si sono unite alla mia iniziativa ed altri
potrebbero farlo.
Sono pienamente consapevole dei rischi implicati da questa iniziativa,
anche se ne citerò solo due. Il primo è che tale idea
forse è in anticipo sul suo tempo, che gli ambienti economici
e politici non sono ancora pronti per accettare il tipo di modello
europeo che propongo.
Il secondo è che la formazione della Europe 1992 ed il mio
impegno ad investire nella SGB potrebbero essere fraintese ed interpretate
semplicemente come operazioni di rilevamento o fusione per scopi puramente
finanziari.
Questa iniziativa è un progetto imprenditoriale volto a stimolare
la crescita europea durante gli anni Novanta ed a parteciparvi. Nell'Europa
senza confini interni che i nostri governi hanno promesso di creare
entro la fine del 1992, le dimensioni e la composizione dei gruppi
industriali devono inevitabilmente cambiare. Iniziative di questo
tipo incontrano opposizioni, perché colpiscono gli interessi
di chi cerca di mantenere speciali privilegi, talvolta di carattere
quasi feudale.
Ci sono 16 milioni di disoccupati, nella Cee, di cui 5,7 milioni hanno
meno di 25 anni. E' davvero un drammatico spreco di risorse valide.
L'Europa ha la maggiore concentrazione di risparmi del mondo. Fin
troppo spesso questi risparmi sono usati in modo scadente. Sono impiegati
per finanziare deficit di bilanci ed attività industriali obsolete.
Dovrebbero, invece, essere utilizzati per finanziare gli investimenti
e per creare nuovi posti di lavoro. Queste risorse sono necessarie
per costruire un futuro rispettabile per l'Europa. L'Europa è
anche un importante centro di ricerca e sviluppo, poiché spende
quasi quanto gli Stati Uniti e più del Giappone per la ricerca;
ma il rendimento di questi investimenti è attenuato dalla duplicazione
e dalla frammentazione del lavoro di ricerca. Raggiungere una nuova
dimensione davvero europea per le nostre società è il
solo modo per ritornare ad una crescita reale; e solo un importante
approccio imprenditoriale europeo può trasformare l'attuale
spreco di manodopera, risparmi e tecnologia nelle risorse richieste
per questa crescita.
Dobbiamo ammetterlo, una nuova ondata di imprenditorialismo farò
avviare qualcosa che assomiglia al "processo di distruzione creativa"
di Joseph Schumpeter tra quelle istituzioni che oggi sopravvivono
solo grazie a sovvenzioni e protezioni. Nonostante ciò, è
chiaro che il futuro non è più nelle mani di società
e nazioni individuali che operano in una prospettiva nazionale e regionale.
La sfida globale competitiva richiede un lavoro di équipe a
livello continentale.
Se vince Poujade
La "destra
radicale", che vede nel libero mercato la soluzione di quasi
tutti i problemi, è stata duramente sconfitto in Francia, ma
non ha vita facile neppure nel resto dell'Occidente. Margaret Thatcher,
senza dubbio punta di diamante di questo modo di intendere la politica
economica e la società in generale, ha assaporato la sua prima
sconfitta parlamentare sul problema della riforma della sicurezza
sociale, mentre si moltiplicano i segni di inquietudine all'interno
del Partito conservatore. Negli Stati Uniti si ritiene indispensabile
introdurre nuove imposte, e l'era del reaganismo trionfante va decisamente
verso il tramonto. In Italia, i discorsi sulle leggi antitrust si
orientano nella stessa direzione. In Germania Federale, il Cancelliere
Khol ha subìto un vero e proprio tracollo elettorale nello
SchIeswig-Holstein a beneficio dei socialdemocratici. In Giappone
l'evoluzione è più lenta e quasi sotterranea, anche
perché in passato il Paese non aveva fatto molte concessioni
alla nuova modo della politica economica, mantenendo un controllo
centrale assai attento sulla propria economia.
La destra radicale non è stato costretto alle battute d'arresto
dalla sinistre, che anzi appaiono più in crisi che mai, bensì
da un'altra destra, quella tradizionale, conservatrice e populista.
E' l'anima poujadista della Francia che ha sconfitto Chirac; sono
i deputati ansiosi di non perdere, con troppi tagli alla spesa, i
voti popolari che hanno messo in difficoltà la Thatcher; è
una classe media che vede in pericolo i propri posti di lavoro a premere
sui due massimi partiti americani perché, al di là di
tutte le differenze, alzino barriere protezionistiche. Ovunque monta
il risentimento contro una società troppo dinamica, ma senza
regole; ovunque vi è la richiesta di nuove normative e si sentono
mugugni contro il liberalismo rampante. E' possibile, a questo punto,
che la crisi mondiale, evitata dai riflessi rapidi delle Banche Centrali
dopo il crollo delle Borse, sia determinata da Parlamenti timorosi;
che venga segnata la fine di questo modo di fare politica economica;
che invece di un crollo ci attendano lunghi anni di piagnistei, di
querimonie, di sviluppi frenati, di pesanti battute d'arresto ai processi
di liberalizzazione dell'economia mondiale tipici degli anni Ottanta.
Esaminiamo quattro aree particolarmente sensibili.
In primo luogo ci sono, ovviamente, gli Stati Uniti. Qui si profila
il passaggio da misure protezionistiche "retail", vale a
dire mirate a singoli prodotti e a singoli Paesi, a misure "wholesale",
ossia riguardanti la generalità delle importazioni. A questa
escalation dovremo francamente abituarci e il resto del mondo potrò
fare ben poco. E probabilmente ha ragione il deputato Gephardt, autore
del progetto di legge più protezionista, quando afferma che
il resto del mondo accetterò senza reagire: le esportazioni
americane, al di là di una fascia relativamente piccola, non
competono direttamente con i nostri prodotti finiti e sono quindi
difficili da colpire. Non ha senso mettere dazi su prodotti chimici,
microchips e simili, che sono essenziali per i nostri processi produttivi;
e tanto meno ha senso mettere dazi sull'esportazione di auto americane,
che tanto non saranno mai vendute in quantità apprezzabili
sui nostri mercati. Quindi, in buona misura, accetteremo e subiremo.
Il vero confine oltre il quale l'ondata protezionistica americana
non potrò spingersi sarà quello dei mercati finanziari
e delle restrizioni all'acquisto di imprese americane da parte di
imprese straniere (eccezion fatta per i casi specifici ed estremi,
ad esempio di società militarmente importanti). Tali sviluppi,
mai sopportati dagli europei, porterebbero a una pesante situazione
conflittuale. Le autorità Usa somiglierebbero a quel legnaiuolo
che sega il ramo sul quale è seduto: gli americani, infatti,
hanno troppo bisogno di un afflusso costante di capitali esteri per
le esigenze quindicinali del Tesoro per permettersi un'azione di questo
tipo.
Aspettiamoci, purtroppo, anche un rallentamento dei processi di unificazione
europea. Alla Germania verranno, col nuovo anno in particolare, molte
sollecitazioni ad aiutare l'Est in crisi, a cominciare dai fratelli
separati della Repubblica Democratica Tedesca. Per quanto riguarda
la Francia, Mitterrand ha già pubblicamente dichiarato che
la scadenza del 1992 è troppo vicina. Possiamo pensare che
i "principi del 1992" troveranno, se tutto va bene, un'applicazione
più lenta nel corso di tutti gli anni Novanta, con forti differenze
tra settore e settore. Le resistenze all'"invasione" straniera,
con appoggio, diretto o indiretto, da parte dei governi, già
manifestatasi con il caso SGB-De Benedetti, potrebbero moltiplicarsi
e permettere soltanto operazioni di tipo consensuale. Una certa battuta
d'arresto nelle varie liberalizzazioni ci sembra inevitabile, anche
se la sua intensità dipende in buono misura dalle scelte ultime
del concerto europeo occidentale.
Un'altra area nella quale il protezionismo presenterà gravi
pericoli sarà quella dei rapporti col Terzo Mondo. La questione
riguarderà soprattutto gli Stati Uniti, più direttamente
minacciati dalle esportazioni del Sud-Est asiatico e dell'America
Latina. Il Congresso americano ha già fortemente ridotto le
facilitazioni di cui godono sul mercato statunitense molti produttori
del Terzo Mondo, e possiamo pensare che con il nuovo anno le pressioni
in questa direzione aumenteranno. Tessili e calzaturieri, già
oggi toccati dalla concorrenza dei Paesi emergenti, stanno alzando
la voce. Dotato di potere contrattuale ancora minore di quello europeo,
il Terzo Mondo potrebbe avere i danni più gravi da questa nuova
ondata protezionistica.
Infine, tra Comunità Europea e Giappone potrebbero verificarsi
conflitti spettacolari, anche se di entità pratica piuttosto
limitato. Sono note le crescenti resistenze comunitarie alle "fabbriche-cacciavite",
usate dai giapponesi per montare i loro prodotti con tutta tranquillità
all'interno delle barriere doganali Cee. Non è previsto, invece,
al di là di qualche iniziativa molto appariscente, un forte
attrito tra Stati Uniti e Giappone. La complementarietà tra
le due economie fa sì che Washington semplicemente non possa
fare a meno né dei microchips né dei fondi delle istituzioni
finanziarie nipponiche.
Ci aspetta, in ultima analisi, un periodo tormentato, di relativa,
graduale chiusura. I radicali della destra pagano così una
certa dose di "fanatismo" nel portare alle estreme conseguenze
principi sacrosanti. Il guaio è che per questi loro errori
pagheremo tutti con una dinamico economica più lenta.
Sbilancio Cee
Da "unione
doganale" a "mercato unico". Almeno nelle intenzioni,
è un programma sul quale le convergenze sono numerose. Non
si tratta, infatti, soltanto di un progetto comunitario, ma anche
di un tema di riflessione e di dibattito generale. Qualche dubbio,
tuttavia, è legittimo sull'adeguatezza degli strumenti istituzionali
comunitari. Se si guarda, in particolare, ai problemi economici e
finanziari della Comunità, più di una perplessità
può risultare giustificata. Da una parte, infatti, ci si può
chiedere se Bruxelles goda davvero di un sufficiente livello di indipendenza
dalle singole nazionalità; dall'altra, bisogna interrogarsi
sull'esistenza reale di un volume adeguato di risorse comunitarie
destinabile all'allargamento dell'integrazione. Entrambi questi ordini
di problemi si riflettono sulle difficoltà, in più casi
annose, che stringono il bilancio comunitario e che hanno toccato
sia la parte delle entrate sia quella delle uscite.
Le entrate, specialmente perciò che riguarda le cosiddette
"risorse proprie", sono in crisi da diversi anni. Infatti,
il cespite principale è ormai costituito dal contributo degli
Stati membri, pari all'1,4% della base imponibile armonizzata dell'imposta
sul valore aggiunto. La quota è stata recentemente rivista
verso l'alto (era soltanto dell'1% fino al 1986) per compensare l'effetto
sulla base imponibile (e naturalmente sulle entrate di Bruxelles)
del declino della propensione media al consumo nei Paesi della Comunità.
Questo, tuttavia, non è l'unico punto debole delle finanze
comunitarie. Com'è noto, una parte degli introiti è
costituita dal dazio esterno comune, che è elevato soprattutto
sui beni agricoli per consentire il mantenimento di elevati prezzi
interni e il funzionamento della Pac (Politica agricola comune). Nel
tempo, gli alti prezzi agricoli hanno favorito l'autosufficienza (e
assai spesso la sovrapproduzione) comunitaria per molti di tali beni,
e il dazio agricolo esterno ha progressivamente ridotto la sua azione
drenante (dal 13,8% delle risorse Cee nel 1978 al 5% nel 1987). Per
questi motivi, Bruxelles ha invocato più volte negli ultimi
anni un contributo ulteriore degli Stati per far quadrare le somme
del bilancio: questo, però, mette in essere una situazione
certo poco desiderabile, perché fortemente limitante dell'autonomia
di Bruxelles.
Dalla parte delle uscite, le difficoltà non sono minori. Nel
1987, la Pac ha assorbito, esclusivamente per la sua parte gestita
sotto la voce "garanzia", il 65,1% delle risorse comunitarie,
percentuale certamente inferiore a quella degli anni passati (nel
1985 il dato era pari al 76,7%), ma più per ragioni contabili
(per esempio, l'aumento dell'aliquota contributiva sulla base imponibile
Iva armonizzata), che per ragioni di vero e proprio ridimensionamento
dell'intervento nel settore agricolo. Alle politiche "strutturali",
cioè alle politiche di "orientamento" della produzione
agricola e di recupero dello sviluppo nelle regioni "in ritardo"
della Cee, si è potuto destinare appena il 18,7% delle risorse
e, infine, per la politica energetica, industriale e per la ricerca,
è rimasto appena il 2,2%. Per di più, i fondi sono stati
ripartiti sulla base di quote prefissate, con scarso supporto di precise
analisi tecnico-economiche di convenienza.
E' evidente, perciò, che per fare del bilancio comunitario
uno strumento efficiente si devono prima risolvere i problemi di forte
legame di dipendenza dai cordoni delle borse dei singoli Stati e di
squilibrata composizione della spesa.
Sul fronte delle entrate, intanto, è stata approvata l'introduzione
di una risorsa aggiuntiva proporzionale al Pnl dei singoli Paesi (che
hanno già manifestato le prime insoddisfazioni, per la maggiore
o minore accuratezza di stima del settore sommerso dell'economia nelle
varie contabilità nazionali). Sul fronte delle uscite, è
stato raggiunto un accordo per consistenti tagli alla Pac, da effettuarsi
soprattutto nei settori eccedentari, (con gran malcontento degli ultimi
entrati, Grecia, Spagna e
Portogallo, i cui settori agricoli hanno visto, è il caso di
dirlo, solo la fase finale dell'epoca, ormai avviata al tramonto,
delle "vacche grasse"). Inoltre, è stato concordato
un forte aumento dei fondi "strutturali", da realizzarsi
tuttavia soltanto nel medio periodo.
Qualcosa sembra muoversi nel macchinoso sistema comunitario. Solo
qualche anno fa, il settore agricolo costituiva in alcuni casi una
realtà dimensionalmente (ed elettoralmente) troppo rilevante
perché se ne toccassero gli interessi, anche quando questi
si fossero dimostrati in contrasto con quelli generali. Non si possono
però ancora sciogliere tutte le riserve sulla manovra complessiva
che va delineandosi per gli anni futuri sul bilancio comunitario.
Come è già accaduto nell'ultimo decennio, gli organismi
di Bruxelles espanderanno infatti ulteriormente la loro sfera d'influenza
sull'impiego delle risorse europee. La spesa Cee rapportata al Pnl
comunitario era pari allo 0,53% nel 1975, ed è progressivamente
salita fino allo 0,96% (1987): non c'è dubbio, quindi, che,
anche grazie all'introduzione del ,nuovo contributo, in avvenire sia
destinata a crescere ancora. Se prenderà canali differenti
da quelli percorsi finora, e se tali canali privilegeranno la spesa
per lo sviluppo reale su quella per l'assistenza, allora le maggiori
risorse assegnate alla Cee potranno avere un senso economico. Nel
caso opposto, ci troveremo purtroppo ancora una volta con un meccanismo
distorsivo in più delle forze di mercato.