§ Commenti

E' giunto il tempo di sfide globali




Carlo De Benedetti



Fino a pochi anni fa, molti europei sembravano rassegnati all'inevitabile declino economico ed all'eventuale sottomissione a regioni più ricche e più dinamiche, come l'America, il Giappone e l'Asia industrializzata. Una situazione politica complessiva basata sull'equilibrio di due blocchi opposti aveva, senza alcun dubbio, posto l'Europa in una posizione strategica incerta ed instabile. La debolezza economica dell'Europa era diventata ancora più evidente in un mondo in cui la tecnologia stava producendo cambiamenti radicali. Oggi, l'immagine dell'Europa come punto debole dell'attività economica mondiale è obsoleta, ma la battaglia non è ancora vinta. La rigidità e la frammentazione dei mercati europei costituiscono l'ostacolo principale per i cambiamenti. Inoltre, questi fattori negativi sono stati aggravati da un conservatorismo trincerato e dall'attenzione agli interessi particolari in cui la crescita abnorme dello stato sociale ha avuto un ruolo importante.
L'integrazione economica del Vecchio Continente, in progetto per il 1992, dà agli europei l'opportunità senza precedenti di organizzare l'industria e le infrastrutture su una base completamente nuova. Un cambiamento tecnologico radicale è, in potenza, un fattore fondamentale di crescita per l'Europa. Oggi l'innovazione tecnologica porta direttamente alla "globalizzazione" e gli europei sono più abituati di tanti altri a spostare i confini nazionali ed a cooperare su diversi mercati. Oggi l'Europa ha l'opportunità di fare un balzo in avanti decisivo, invece di avanzare con passo lento ed incerto come ha fatto negli ultimi anni. Questo non significa che sono finiti la stagnazione ed il declino, o che ci siamo lasciati alle spalle la vecchia Europa. Ma abbiamo l'opportunità concreta di rompere con gli aspetti negativi del recente passato europeo, portando avanti con noi solo gli aspetti positivi.
Credo che, nelle politiche nazionali, tre fattori siano di importanza capitale:
- l'ideale politico, che può essere una formidabile forza propulsiva;
- la necessità urgente, che accelera il processo decisionale;
- e il guadagno economico, che incanala e guida l'uso delle risorse di uomini e di capitale.
Oggi tutti questi tre fattori si stanno avviando verso l'integrazione europea del 1992. L'ideale politico dei fondatori della Comunità europea non è andato perso, ma ha fornito le basi per una visione dell'Europa maturata lentamente con il graduale movimento verso l'integrazione, processo che consiste nel portare l'Europa ad un mercato unificato nel 1992. In passato, nel mondo economico non si è sempre capita chiaramente l'importanza dell'integrazione europea. La fine degli anni Sessanta e l'inizio degli anni Settanta hanno visto una prima ondata di accordi ed alleanze tra le società europee. Quasi tutte queste iniziative imprenditoriali sono rapidamente fallite.
In generale, sono diventate o società plurinazionali senza un centro di controllo e di coordinamento chiaramente definito, oppure società multinazionali in senso classico, società altamente integrate, basate su una struttura decisionale fortemente accentrata, con procedure e prodotti uniformi.
Non erano ancora maturi i tempi perché prendesse piede l'idea dei "network" (rete) opposto al "monolito" (blocco unico). Il modello network riguarda una struttura pan-nazionale in cui diverse culture e prodotti corporativi possono esistere fianco a fianco, all'interno di un'organizzazione decentrata altamente flessibile, e con un centro di controllo che ha il compito di stimolare reciprocamente la collaborazione utile ad ogni livello. Le società europee sono maturate da allora in poi, almeno da due punti di vista:
- primo, hanno compiuto grandi progressi nel mettere a punto una mentalità davvero internazionale. Negli ultimi anni, il processo di globalizzazione economica ha creato infinite opportunità per lo scambio di know-how tecnologico, componenti, prodotti finiti e processi di produzione. Tutto ciò ha alimentato una corrente di pensiero pratica, orientata verso il mondo economico, in favore dell'unificazione. Chi agisce in una prospettiva universale tende a vedere gli attuali controlli doganali, restrizioni finanziarie e norme contraddittorie come anacronismi che accentuano la frammentazione dei mercati nazionali europei, chiusi dal punto di vista geografico;
- secondo, le società hanno capito che un'Europa unita non è più un'opzione, come poteva essere quindici o vent'anni fa, ma è una necessità. Senza almeno una dimensione continentale (in termini di quote di mercato, strutture commerciali e produttive, accesso ai mercati finanziari e così via), è impossibile far fronte alle duplici pressioni competitive che provengono dagli Stati Uniti e dal Giappone.

La minaccia alle società europee sta crescendo visibilmente. I concorrenti americani sono aiutati da un dollaro indebolito, mentre le restrizioni del mercato americano nei confronti delle esportazioni giapponesi hanno aumentato il livello di pressione commerciale sull'Europa da parte del Giappone.

Questa minaccia competitiva è composta dalla produzione commerciale sempre più chiusa ed anche da legami finanziari tra gli Stati Uniti ed il Giappone. Perciò, alla radice della conversione del settore corporativo verso l'idea di Europa, sta un misto di paura e profitto economico, un bastone ed una carota.


La scadenza del 1992 è diventata, di conseguenza, un punto di riferimento fondamentale per molte iniziative imprenditoriali diverse. Ora le società hanno un ruolo fondamentale nel processo di integrazione europea, non solo stimolando una rinascita industriale ed economica, ma anche facendo pressione sui governi perché emanino riforme strutturali ed istituzionali all'interno del quadro europeo.
Le mie forti convinzioni a questo proposito si riflettono sia nell'impegno personale sia nelle risorse finanziarie che ho dedicato alla costruzione della prima holding (gruppo finanziario di controllo) veramente europea, una società che ho chiamato Europe 1992. A questo proposito, posso dire con piacere che alcune società di fama internazionale, come la società svizzera NestIè e le società belghe Cobepa e Gevaert, si sono unite alla mia iniziativa ed altri potrebbero farlo.
Sono pienamente consapevole dei rischi implicati da questa iniziativa, anche se ne citerò solo due. Il primo è che tale idea forse è in anticipo sul suo tempo, che gli ambienti economici e politici non sono ancora pronti per accettare il tipo di modello europeo che propongo.
Il secondo è che la formazione della Europe 1992 ed il mio impegno ad investire nella SGB potrebbero essere fraintese ed interpretate semplicemente come operazioni di rilevamento o fusione per scopi puramente finanziari.
Questa iniziativa è un progetto imprenditoriale volto a stimolare la crescita europea durante gli anni Novanta ed a parteciparvi. Nell'Europa senza confini interni che i nostri governi hanno promesso di creare entro la fine del 1992, le dimensioni e la composizione dei gruppi industriali devono inevitabilmente cambiare. Iniziative di questo tipo incontrano opposizioni, perché colpiscono gli interessi di chi cerca di mantenere speciali privilegi, talvolta di carattere quasi feudale.
Ci sono 16 milioni di disoccupati, nella Cee, di cui 5,7 milioni hanno meno di 25 anni. E' davvero un drammatico spreco di risorse valide. L'Europa ha la maggiore concentrazione di risparmi del mondo. Fin troppo spesso questi risparmi sono usati in modo scadente. Sono impiegati per finanziare deficit di bilanci ed attività industriali obsolete. Dovrebbero, invece, essere utilizzati per finanziare gli investimenti e per creare nuovi posti di lavoro. Queste risorse sono necessarie per costruire un futuro rispettabile per l'Europa. L'Europa è anche un importante centro di ricerca e sviluppo, poiché spende quasi quanto gli Stati Uniti e più del Giappone per la ricerca; ma il rendimento di questi investimenti è attenuato dalla duplicazione e dalla frammentazione del lavoro di ricerca. Raggiungere una nuova dimensione davvero europea per le nostre società è il solo modo per ritornare ad una crescita reale; e solo un importante approccio imprenditoriale europeo può trasformare l'attuale spreco di manodopera, risparmi e tecnologia nelle risorse richieste per questa crescita.
Dobbiamo ammetterlo, una nuova ondata di imprenditorialismo farò avviare qualcosa che assomiglia al "processo di distruzione creativa" di Joseph Schumpeter tra quelle istituzioni che oggi sopravvivono solo grazie a sovvenzioni e protezioni. Nonostante ciò, è chiaro che il futuro non è più nelle mani di società e nazioni individuali che operano in una prospettiva nazionale e regionale. La sfida globale competitiva richiede un lavoro di équipe a livello continentale.

Se vince Poujade

La "destra radicale", che vede nel libero mercato la soluzione di quasi tutti i problemi, è stata duramente sconfitto in Francia, ma non ha vita facile neppure nel resto dell'Occidente. Margaret Thatcher, senza dubbio punta di diamante di questo modo di intendere la politica economica e la società in generale, ha assaporato la sua prima sconfitta parlamentare sul problema della riforma della sicurezza sociale, mentre si moltiplicano i segni di inquietudine all'interno del Partito conservatore. Negli Stati Uniti si ritiene indispensabile introdurre nuove imposte, e l'era del reaganismo trionfante va decisamente verso il tramonto. In Italia, i discorsi sulle leggi antitrust si orientano nella stessa direzione. In Germania Federale, il Cancelliere Khol ha subìto un vero e proprio tracollo elettorale nello SchIeswig-Holstein a beneficio dei socialdemocratici. In Giappone l'evoluzione è più lenta e quasi sotterranea, anche perché in passato il Paese non aveva fatto molte concessioni alla nuova modo della politica economica, mantenendo un controllo centrale assai attento sulla propria economia.
La destra radicale non è stato costretto alle battute d'arresto dalla sinistre, che anzi appaiono più in crisi che mai, bensì da un'altra destra, quella tradizionale, conservatrice e populista. E' l'anima poujadista della Francia che ha sconfitto Chirac; sono i deputati ansiosi di non perdere, con troppi tagli alla spesa, i voti popolari che hanno messo in difficoltà la Thatcher; è una classe media che vede in pericolo i propri posti di lavoro a premere sui due massimi partiti americani perché, al di là di tutte le differenze, alzino barriere protezionistiche. Ovunque monta il risentimento contro una società troppo dinamica, ma senza regole; ovunque vi è la richiesta di nuove normative e si sentono mugugni contro il liberalismo rampante. E' possibile, a questo punto, che la crisi mondiale, evitata dai riflessi rapidi delle Banche Centrali dopo il crollo delle Borse, sia determinata da Parlamenti timorosi; che venga segnata la fine di questo modo di fare politica economica; che invece di un crollo ci attendano lunghi anni di piagnistei, di querimonie, di sviluppi frenati, di pesanti battute d'arresto ai processi di liberalizzazione dell'economia mondiale tipici degli anni Ottanta. Esaminiamo quattro aree particolarmente sensibili.
In primo luogo ci sono, ovviamente, gli Stati Uniti. Qui si profila il passaggio da misure protezionistiche "retail", vale a dire mirate a singoli prodotti e a singoli Paesi, a misure "wholesale", ossia riguardanti la generalità delle importazioni. A questa escalation dovremo francamente abituarci e il resto del mondo potrò fare ben poco. E probabilmente ha ragione il deputato Gephardt, autore del progetto di legge più protezionista, quando afferma che il resto del mondo accetterò senza reagire: le esportazioni americane, al di là di una fascia relativamente piccola, non competono direttamente con i nostri prodotti finiti e sono quindi difficili da colpire. Non ha senso mettere dazi su prodotti chimici, microchips e simili, che sono essenziali per i nostri processi produttivi; e tanto meno ha senso mettere dazi sull'esportazione di auto americane, che tanto non saranno mai vendute in quantità apprezzabili sui nostri mercati. Quindi, in buona misura, accetteremo e subiremo. Il vero confine oltre il quale l'ondata protezionistica americana non potrò spingersi sarà quello dei mercati finanziari e delle restrizioni all'acquisto di imprese americane da parte di imprese straniere (eccezion fatta per i casi specifici ed estremi, ad esempio di società militarmente importanti). Tali sviluppi, mai sopportati dagli europei, porterebbero a una pesante situazione conflittuale. Le autorità Usa somiglierebbero a quel legnaiuolo che sega il ramo sul quale è seduto: gli americani, infatti, hanno troppo bisogno di un afflusso costante di capitali esteri per le esigenze quindicinali del Tesoro per permettersi un'azione di questo tipo.
Aspettiamoci, purtroppo, anche un rallentamento dei processi di unificazione europea. Alla Germania verranno, col nuovo anno in particolare, molte sollecitazioni ad aiutare l'Est in crisi, a cominciare dai fratelli separati della Repubblica Democratica Tedesca. Per quanto riguarda la Francia, Mitterrand ha già pubblicamente dichiarato che la scadenza del 1992 è troppo vicina. Possiamo pensare che i "principi del 1992" troveranno, se tutto va bene, un'applicazione più lenta nel corso di tutti gli anni Novanta, con forti differenze tra settore e settore. Le resistenze all'"invasione" straniera, con appoggio, diretto o indiretto, da parte dei governi, già manifestatasi con il caso SGB-De Benedetti, potrebbero moltiplicarsi e permettere soltanto operazioni di tipo consensuale. Una certa battuta d'arresto nelle varie liberalizzazioni ci sembra inevitabile, anche se la sua intensità dipende in buono misura dalle scelte ultime del concerto europeo occidentale.
Un'altra area nella quale il protezionismo presenterà gravi pericoli sarà quella dei rapporti col Terzo Mondo. La questione riguarderà soprattutto gli Stati Uniti, più direttamente minacciati dalle esportazioni del Sud-Est asiatico e dell'America Latina. Il Congresso americano ha già fortemente ridotto le facilitazioni di cui godono sul mercato statunitense molti produttori del Terzo Mondo, e possiamo pensare che con il nuovo anno le pressioni in questa direzione aumenteranno. Tessili e calzaturieri, già oggi toccati dalla concorrenza dei Paesi emergenti, stanno alzando la voce. Dotato di potere contrattuale ancora minore di quello europeo, il Terzo Mondo potrebbe avere i danni più gravi da questa nuova ondata protezionistica.
Infine, tra Comunità Europea e Giappone potrebbero verificarsi conflitti spettacolari, anche se di entità pratica piuttosto limitato. Sono note le crescenti resistenze comunitarie alle "fabbriche-cacciavite", usate dai giapponesi per montare i loro prodotti con tutta tranquillità all'interno delle barriere doganali Cee. Non è previsto, invece, al di là di qualche iniziativa molto appariscente, un forte attrito tra Stati Uniti e Giappone. La complementarietà tra le due economie fa sì che Washington semplicemente non possa fare a meno né dei microchips né dei fondi delle istituzioni finanziarie nipponiche.
Ci aspetta, in ultima analisi, un periodo tormentato, di relativa, graduale chiusura. I radicali della destra pagano così una certa dose di "fanatismo" nel portare alle estreme conseguenze principi sacrosanti. Il guaio è che per questi loro errori pagheremo tutti con una dinamico economica più lenta.

Sbilancio Cee

Da "unione doganale" a "mercato unico". Almeno nelle intenzioni, è un programma sul quale le convergenze sono numerose. Non si tratta, infatti, soltanto di un progetto comunitario, ma anche di un tema di riflessione e di dibattito generale. Qualche dubbio, tuttavia, è legittimo sull'adeguatezza degli strumenti istituzionali comunitari. Se si guarda, in particolare, ai problemi economici e finanziari della Comunità, più di una perplessità può risultare giustificata. Da una parte, infatti, ci si può chiedere se Bruxelles goda davvero di un sufficiente livello di indipendenza dalle singole nazionalità; dall'altra, bisogna interrogarsi sull'esistenza reale di un volume adeguato di risorse comunitarie destinabile all'allargamento dell'integrazione. Entrambi questi ordini di problemi si riflettono sulle difficoltà, in più casi annose, che stringono il bilancio comunitario e che hanno toccato sia la parte delle entrate sia quella delle uscite.
Le entrate, specialmente perciò che riguarda le cosiddette "risorse proprie", sono in crisi da diversi anni. Infatti, il cespite principale è ormai costituito dal contributo degli Stati membri, pari all'1,4% della base imponibile armonizzata dell'imposta sul valore aggiunto. La quota è stata recentemente rivista verso l'alto (era soltanto dell'1% fino al 1986) per compensare l'effetto sulla base imponibile (e naturalmente sulle entrate di Bruxelles) del declino della propensione media al consumo nei Paesi della Comunità.
Questo, tuttavia, non è l'unico punto debole delle finanze comunitarie. Com'è noto, una parte degli introiti è costituita dal dazio esterno comune, che è elevato soprattutto sui beni agricoli per consentire il mantenimento di elevati prezzi interni e il funzionamento della Pac (Politica agricola comune). Nel tempo, gli alti prezzi agricoli hanno favorito l'autosufficienza (e assai spesso la sovrapproduzione) comunitaria per molti di tali beni, e il dazio agricolo esterno ha progressivamente ridotto la sua azione drenante (dal 13,8% delle risorse Cee nel 1978 al 5% nel 1987). Per questi motivi, Bruxelles ha invocato più volte negli ultimi anni un contributo ulteriore degli Stati per far quadrare le somme del bilancio: questo, però, mette in essere una situazione certo poco desiderabile, perché fortemente limitante dell'autonomia di Bruxelles.
Dalla parte delle uscite, le difficoltà non sono minori. Nel 1987, la Pac ha assorbito, esclusivamente per la sua parte gestita sotto la voce "garanzia", il 65,1% delle risorse comunitarie, percentuale certamente inferiore a quella degli anni passati (nel 1985 il dato era pari al 76,7%), ma più per ragioni contabili (per esempio, l'aumento dell'aliquota contributiva sulla base imponibile Iva armonizzata), che per ragioni di vero e proprio ridimensionamento dell'intervento nel settore agricolo. Alle politiche "strutturali", cioè alle politiche di "orientamento" della produzione agricola e di recupero dello sviluppo nelle regioni "in ritardo" della Cee, si è potuto destinare appena il 18,7% delle risorse e, infine, per la politica energetica, industriale e per la ricerca, è rimasto appena il 2,2%. Per di più, i fondi sono stati ripartiti sulla base di quote prefissate, con scarso supporto di precise analisi tecnico-economiche di convenienza.
E' evidente, perciò, che per fare del bilancio comunitario uno strumento efficiente si devono prima risolvere i problemi di forte legame di dipendenza dai cordoni delle borse dei singoli Stati e di squilibrata composizione della spesa.
Sul fronte delle entrate, intanto, è stata approvata l'introduzione di una risorsa aggiuntiva proporzionale al Pnl dei singoli Paesi (che hanno già manifestato le prime insoddisfazioni, per la maggiore o minore accuratezza di stima del settore sommerso dell'economia nelle varie contabilità nazionali). Sul fronte delle uscite, è stato raggiunto un accordo per consistenti tagli alla Pac, da effettuarsi soprattutto nei settori eccedentari, (con gran malcontento degli ultimi entrati, Grecia, Spagna e
Portogallo, i cui settori agricoli hanno visto, è il caso di dirlo, solo la fase finale dell'epoca, ormai avviata al tramonto, delle "vacche grasse"). Inoltre, è stato concordato un forte aumento dei fondi "strutturali", da realizzarsi tuttavia soltanto nel medio periodo.
Qualcosa sembra muoversi nel macchinoso sistema comunitario. Solo qualche anno fa, il settore agricolo costituiva in alcuni casi una realtà dimensionalmente (ed elettoralmente) troppo rilevante perché se ne toccassero gli interessi, anche quando questi si fossero dimostrati in contrasto con quelli generali. Non si possono però ancora sciogliere tutte le riserve sulla manovra complessiva che va delineandosi per gli anni futuri sul bilancio comunitario. Come è già accaduto nell'ultimo decennio, gli organismi di Bruxelles espanderanno infatti ulteriormente la loro sfera d'influenza sull'impiego delle risorse europee. La spesa Cee rapportata al Pnl comunitario era pari allo 0,53% nel 1975, ed è progressivamente salita fino allo 0,96% (1987): non c'è dubbio, quindi, che, anche grazie all'introduzione del ,nuovo contributo, in avvenire sia destinata a crescere ancora. Se prenderà canali differenti da quelli percorsi finora, e se tali canali privilegeranno la spesa per lo sviluppo reale su quella per l'assistenza, allora le maggiori risorse assegnate alla Cee potranno avere un senso economico. Nel caso opposto, ci troveremo purtroppo ancora una volta con un meccanismo distorsivo in più delle forze di mercato.


Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000