Il
problema del debito pubblico italiano è diventato così
grave da meritare un continuo approfondimento nella speranza che il
Parlamento si decida ad affrontarlo prima che accada il peggio. Sulla
strada di questa presa di coscienza c'è l'abitudine, diffusa
anche tra economisti di professione, di sottolineare insistentemente
che non esiste in teoria nessun limite individuale a priori oltre il
quale si renderà indispensabile il non-rimborso del debito pubblico
o forme di finanza straordinaria. Ciò è falso.
Esiste infatti una teoria, peraltro l'unica accreditata sul piano scientifico,
che individua il debito pubblico come "tassa differita"; l'accensione
di un debito da parte dello Stato è, in sostanza, una forma di
rinvio dell'imposizione fiscale. Il motivo di questo rinvio è
(o dovrebbe essere) quello di consentire che la spesa in disavanzo generi
un maggior volume di reddito, tale che il gettito fiscale derivante
da questo maggior reddito faccia fronte all'ammortamento del titolo.
Un calcolo molto semplice ci consente di valutare per l'economia nel
suo complesso se questa attesa di maggior reddito e di maggior gettito
fiscale abbia un qualche fondamento pratico. Se l'economia nel suo complesso
cresce permanentemente a un tasso reale inferiore al rendimento reale
dei titoli pubblici, la condizione di rimborsabilità non sussiste
ed il "limite" di tollerabilità può dirsi superato.
L'Italia vive in questa condizione dal 1984. Per dirla in termini più
elementari, quando il divario tra l'incremento reale totale del Pil
e il rendimento reale complessivo dei titoli pubblici è negativo,
significa che tutto il nuovo reddito prodotto nel Paese serve a pagare
gli interessi del debito pubblico; ma significa anche che il capitale
investito rende meno del suo costo, ossia si distruggono capitale e
possibilità di lavoro.
Oltre questa regoletta "spiccia", esiste un teorema elaborato
da Evsey Domar, secondo il quale il volume del debito pubblico ha raggiunto
il punto critico se una stretta monetaria, necessaria per controllare
la domanda globale, innalza i tassi dell'interesse in misura tale da
ampliare - attraverso gli oneri finanziari - il disavanzo pubblico.
In tal caso, infatti, lo strumento monetario è neutralizzato
e resta solo lo strumento fiscale. Anche per questa via si ritorna alla
"tassa differita".
Può obiettarsi che nessuna delle due spiegazioni fornisce una
dimostrazione dell'esistenza di un limite di sostenibilità, ossia
di un valore oltre il quale lo Stato diviene insolvente o deve ricorrere
ad atti di finanza straordinaria. A parte il fatto che il limite non
è un preciso valore, ma una condizione economica, e che questa
condizione è già stata individuata dalla teoria della
"tassa differita" e dal teorema di Domar, si può rispondere
con la riflessione di Enzo Grilli, direttore del dipartimento economico
della Banca Mondiale, che di comportamenti di Paesi indebitati ne ha
osservati molti in questi anni difficili: il fatto che non si riesca
ad indicare un valore, non significa che esso non esista; vuoi dire
probabilmente che non siamo capaci di calcolarlo. Per dirla in altre
parole, se la teoria non interpreta la realtà, peggio per la
teoria, e non viceversa, come parrebbe ricavarsi dalla facilità
con cui si liquida in Italia il problema dell'esistenza del limite di
tollerabilità del debito pubblico.
Il fatto che la fantasia dei governanti e del foro consiglieri, unitamente
ad una solida economia produttiva e ad una buona propensione al risparmio
delle famiglie italiane non faccia scattare le implicazioni derivanti
dal superamento del limite di tollerabilità fa pensare ai più
attenti non che il limite non esista ma che qualche forma di consolidamento
e di finanza straordinaria proceda mascherata all'interno dell'economia.
Ciò non significa che consolidamento o finanza straordinaria
ci sono già domiciliati inconsciamente presso alcune categorie
di possessori di titoli pubblici e di redditieri.
Intorno all'anno Mille, in molte parti d'Italia si attendeva la fine
del mondo. Passata quella data, gli osservatori più superficiali
- ossia quelli che ritenevano che questa fine dovesse manifestarsi in
forme macroscopiche e violente - credettero che nulla fosse accaduto.
Si dovette aspettare dei secoli per capire che in effetti vi fu intorno
al volgere del millennio la "fine del mondo", nel senso che
un'epoca della storia dell'uomo era finita. Credo che per il debito
pubblico italiano stia accadendo lo stesso; solo che in questa materia
anche per i "superficiali" potrebbe esserci un segno percepibile...
Debito pubblico
Una valanga che minaccia i nostri figli
L'interrogativo
è ricorrente nei discorsi della gente: c'è il pericolo
di un consolidamento del debito pubblico? In altre parole: si può
prevedere che lo Stato non sia più in grado, un giorno anche
non lontano, di rimborsare l'enorme montagna di debiti, di "pagherò"
(oltre 800 mila miliardi di lire) contratti con i risparmiatori italiani?
E' necessario ragionare, di fronte o questa situazione che non ha
corrispondenze in alcun Paese industriale o industrializzato che si
voglia. Il dato inquietante, il pericolo dietro l'angolo, scaturiscono
do una semplice constatazione: la corsa alla spesa pubblica, all'aumento
del deficit, continuo e accelera, proprio mentre tutti ne denunciano
la gravità e ne avvertono l'insensatezza.
Ma è così. Si ragiona sui grandi numeri. Si ammette
che un Paese non può vivere consumando più di quanto
produce; si riconosce che è un assurdo contrarre debiti per
finanziare le spese correnti, ipotecando il domani dei nostri figli;
si dice che è destabilizzante avere uno stock di debito che
raggiunge il prodotto interno lordo di un anno del Paese... Ogni cittadino
ha sulle spalle un onere di 15 milioni!
Nello stesso tempo, però, le corporazioni di tutti i colori
e di tutte le religioni, quando si trovano di fronte alla possibilità
di ottenere qualcosa, ignorano il quadro delle compatibilità.
Denunciano la sperequazione in atto e pretendono di eliminarla subito,
per la via più breve. Che è quella non di riequilibrare
globalmente la situazione, di riformare strutture e istituti che fanno
acqua da tutte le parti, ma più semplicemente di ottenere qualcosa,
di porsi al livello più alto.
E' il caso, per restare alla cronaca, del "tetto" delle
pensioni, che in pratica è saltato con la Finanziaria e che
ha innescato fra gli Enti previdenziali la corsa allo scavalco. Bene.
Il risultato di voler sanare un'ingiustizia, senza ridisegnare la
previdenza, comporta di fatto un'ulteriore accelerazione della spesa
pubblica. Perché la Previdenza sociale è pagata, come
ben sappiamo, prevalentemente con i soldi di tutti noi cittadini che
lavoriamo. Meglio: è pagato con le cambiali che sottoscriviamo
allo Stato, che copre in questa maniera i debiti previdenziali. Spesa
corrente pagata con titoli che verranno... onorati dalle nuove generazioni.
Appunto. Si rinvia. Ed è proprio per questo che, conti alla
mano, anche coloro che si dichiaravano favorevoli a misure come quella
dell'abolizione dei tetti pensionistici temono un consolidamento del
debito pubblico. Perché la montagna, espandendosi, ampliandosi,
aumentando incessantemente di dimensione e di peso, può un
bel giorno non reggere. E sarebbero dolori. Ipotesi possibile? Va
messa nel novero degli scenari che ogni cittadino traccia, anche se
alla stato dei fatti appare fantasiosa. L'Italia non fa parte (per
nostra fortuna) del Terzo Mondo. Siamo considerati solvibili a livello
internazionale. Tutto ciò ci conforto e deve confortare i sottoscrittori
di titoli pubblici. Ma con un'esortazione: è tempo che tutti
e soprattutto i politici imparino a "fare i conti", una
buona volta, con uno stock di debito così elevato. Ne va dell'equilibrio
economico generale, che non ammette fughe dalle responsabilità.
Gli esperti, con i dati a portato di mano, dimostrano che un investimento
in lire negli ultimi anni, raffrontato a un investimento in marchi,
ha dato un utile maggiore, tenendo conto e del differenziale d'inflazione
e dei "riallineamenti" della nostra moneta. Quindi, chi
ha investito in titoli pubblici italiani ha guadagnato. Ne consegue
che il nostro debito può essere oggi collocato anche nel portafogli
dei risparmiatori internazionali. Quest'operazione l'hanno fatta gli
Stati Uniti; possiamo farla anche noi, magari con più misura...
Molto giusto. Il respiro si allunga. Il pericolo è rinviato.
Ma senza illusioni, sia chiaro. Perché è tempo di attuare
un decisivo "recupero di sovranità" nel governo dell'economia,
se vogliamo garantire sonni tranquilli ai risparmiatori italiani e
soprattutto ai nostri figli.
Una legge con
molti enigmi
Ad infierire ancora
sulle magagne della Legge finanziaria c'è il rischio di meritarsi
l'accusa di ingenerosità, tali e tante sono state le critiche
piovute sul provvedimento, sulle sue procedure e sui suoi meccanismi;
in particolare, poi, sulla Finanziaria '88 che, a dieci anni dalle
norme istitutive, sarà forse l'ultima di una sorta di "prima
serie".
Quest'anno, la vicenda politica che ha condotto per mano, fino all'uscita
di scena, il governo Goria, ha inciso notevolmente sulla struttura
della legge e sulla "qualità" delle sue norme. In
virtù dei marchingegni messi in opera per limitare al massimo
i voti segreti e quindi le imboscate parlamentari, quei caratteri
si sono accentuati e la lettura della Finanziaria somiglia in più
di un passo a quei quesiti crittografati cari agli enigmisti. Interi
articoli o parti di essi non recano la materia su cui legiferano,
di modo che può capitare, tanto per fare un esempio, di trovare
le norme che prorogano il regime di tesoreria unica al comma 8 dell'articolo
21, sotto il capo "Disposizioni in materia di occupazione e previdenza".
Che è un bel modo di mettere ordine nelle cose.
Tuttavia, più costruttivamente, le forze politiche e infine
lo stesso governo hanno posto mano alla riforma della legge numero
468 del '78 (le cui norme regolano, com'è noto, la legge finanziaria)
partendo dalla constatazione che in definitiva la fissazione per legge
del limite di indebitamento dello Stato per l'esercizio di riferimento
finisce per essere nei fatti contraddittorio rispetto alle norme dell'articolo
81 della Costituzione sulla necessità di indicare la copertura
per le nuove e maggiori spese. Lo spirito di quella norma, dovuta
- com'è noto - a Einaudi, non può essere certo quello
di coprire le spese con l'indebitamento, in un bilancio scopertamente
in deficit qual è il nostro.
Per quanto riguarda il Mezzogiorno, c'è da dire che la Finanziaria
contribuisce anche a perpetuare in qualche modo l'eterno equivoco
fra spesa ordinaria e intervento straordinario, in modo che talune
azioni -come ad esempio la fiscalizzazione degli oneri sociali o gli
incentivi all'innovazione tecnologica - fanno carico per il Nord sull'azione
ordinaria dello Stato, mentre per il Sud gravano sui fondi dell'intervento
straordinario. L'equivoco ha continuato a gravare sulla Finanziaria,
che per l'anno scorso prevedeva 7.000 miliardi di interventi ordinari
dello Stato nel Mezzogiorno, gran parte dei quali non spesi.
La rimodulazione delle risorse dell'intervento straordinario operata
tenendo conto della capacità (più correttamente: dell'incapacità)
di spesa, aggiunge spesso inefficienza a inefficienza, giacché
nei fatti, trasferiti i fondi, la spesa non si verifica né
qui né lì. Ci sarebbe anzi da osservare che la lotta,
spesso provinciale e campanilistica, condotta da molti parlamentari
per l'assegnazione di fondi a questo o a quei progetto, risulta abbastanza
fuorviante, dal momento che la macchina amministrativa dello Stato
(e ancor più delle regioni, in particolare di quelle meridionali)
è inceppata e non riesce a funzionare a meno di "oliature"
di cui da tempo sono piene le cronache.
Ad esaminare le cifre '88 degli interventi a favore del Mezzogiorno
ci si avvede che su un totale di investimenti per quasi 4.000 miliardi
c'è una sola posta di 500 milioni sottratta per l'appunto ai
fondi della Legge n. 64/86 e destinata all'occupazione giovanile.
Per il resto, a parte gli impegni del Fio per i beni culturali e quelli
per il rifinanziamento della legge n. 219, si tratta di somme di minore
rilievo.
Ma tutto sommato, più che vedere in che modo il Mezzogiorno
esce dalla Finanziaria '88, c'è da chiedersi che Mezzogiorno
trova la nuova legge. La "64" ha iniziato ad operare in
una atmosfera rissoso e poco costruttiva, ancora priva di un equilibrio
nel nuovo assetto istituzionale dell'intervento straordinario. Gli
impegni rispetto agli stanziamenti (siamo lontani quindi dalla spesa
effettiva) sfiorano il 22-23% rispettivamente per le agevolazioni
finanziarie e per le azioni organiche. Sono dati la cui drammaticità
veniva messa bene in evidenza da Sabino Cassese in occasione della
presentazione delle due nuove riviste della Svimez. Occasione che
forniva il destro a Massimo Finoia per osservare esattamente che in
definitiva i periodi migliori per il Mezzogiorno coincidono con quelli
di alta espansione per il Paese, rafforzando le impressioni che i
miglioramenti conseguiti non siano frutto di una politica appositamente
studiata per il Sud, quanto di fasi congiunturali genericamente favorevoli.
Basti considerare che negli otto esercizi che vanno dal '79 all'86
il totale generale dell'intervento straordinario è diminuito
in termini reali di circa il 25%, passando, in lire del '75, da 1.049
miliardi ai 780 dell'86, con significative riduzioni soprattutto nei
settori direttamente produttivi (agricoltura e industria). Nel frattempo,
la disoccupazione meridionale è passata in tre anni dal 14,9
del 1985 a circa il 20 dell'87, con un incremento di ben cinque punti,
mentre il corrispondente dato del Centro-Nord è rimasto fermo
all'8%.
E' opinione diffusa che, nonostante la buona congiuntura internazionale,
il governo sarà costretto a una manovra in qualche modo restrittiva
per raffreddare la domanda interna, mentre il costo del lavoro continua
a essere abbastanza fuori controllo e le aspettative al ribasso dei
tassi d'interesse pare debbano subire una battuta d'arresto. Sono
questi, dunque, i problemi del Paese, e nel quadro da essi delineato
il Mezzogiorno non si avvantaggerà certamente. Né molto
lo aiuteranno le confuse norme della Legge finanziaria.
Cinque alternative
per il deficit italiano
Il Tesoro italiano
continua ad avere il fiato grosso, con crisi piuttosto ricorrenti,
determinate dalla necessità di risolvere i problemi immediati.
Ma che cosa potrà succedere nel lungo periodo? E che cosa occorre
per riportare sotto controllo il nostro debito pubblico? Nell'ambito
di una serie di ricerche, il Centro Studi Einaudi ha realizzato un
modello che consente di simulare per gli anni futuri l'andamento delle
due grandezze (deficit e riduzione del debito pubblico) che sono la
chiave di volta della nostra politica economica. E' dunque possibile
esplorare le alternative che abbiamo di fronte.
Il modello è essenzialmente semplice. Collega, infatti, tra
loro, le grandezze globali della spesa pubblica (la spesa al netto
degli interessi e la spesa per interessi) e d'elle entrate pubbliche
al prodotto interno lordo. Esso consente di formulare rapidamente
ipotesi anche molto diverse tra loro circa l'evoluzione futura dei
conti pubblici in determinate ipotesi di sviluppo del reddito, di
variazione della pressione fiscale, di contenimento della spesa. Il
suo campo di osservazione è attualmente di quindici anni, ma
può essere facilmente esteso. Con il modello è possibile
prendere in considerazione anche variazioni lineari delle variabili
(ad esempio, un tasso di sviluppo, un carico fiscale, un'inflazione
crescenti o decrescenti nel corso dei quindi anni) e fornisce risultati
sia in termini monetari sia in termini reali che permettono di studiare
l'impatto dell'inflazione. Modelli in parte analoghi sono stati proposti
anche da altri centri di ricerca.
Nel compiere la simulazione qui presentata, si sono adottate ipotesi
che, al momento, appaiono realistiche, ossia tassi di sviluppo reali
nell'ordine del 2,5-3%, un'inflazione tra il 4 e il 6%, tassi di interesse
reali sostanzialmente pari a quelli attuali, o magari con qualche
limatura per gli anni futuri. Naturalmente, il modello consente senza
difficoltà di mutare queste premesse e di studiare scenari
di altro tipo, se le condizioni dell'economia lo richiedessero.
Le conclusioni generali non si discostano troppo da quelle di altri
centri di ricerca che hanno affrontato i medesimi problemi: èmesso
soprattutto in risalto il forte potenziale espansivo del deficit pubblico
quando il tasso di interesse reale sul debito è più
elevato del tasso di sviluppo reale del prodotto interno lordo. Questo
potenziale espansivo, esercitato su una massa di debiti di dimensioni
sostanzialmente pari al prodotto interno lordo, rende del tutto insufficienti
le altre azioni di contenimento della spesa, compreso l'annullamento
del deficit primario (imposte meno spese al netto degli interessi)
che è al momento l'unica strategia dichiarata del governo.
Nello schema, la prima ipotesi mostra che cosa succederà nel
caso di un sostanziale mantenimento della situazione attuale, con
costanza dell'incidenza della spesa pubblica sul reddito, dell'elasticità
delle imposte rispetto al reddito e dell'inflazione e con un tasso
di sviluppo reale (2,87%) molto vicino alla media degli ultimi tre
anni. Nell'arco del quindicennio considerato, il peso del deficit
aumenta, anche se a ritmi sempre decrescenti, per stabilizzarsi, o
quasi, a livelli molto elevati. Dobbiamo quindi ripetere una banalità
che, d'altra parte, non viene mai ribadita abbastanza: non è
possibile arrestare la "colata lavica" del deficit pubblico
senza un aumento delle entrate, dal momento che è irrealistico
tagliare di molto la spesa corrente, per sua natura rigidissima e
per la quale anzi occorre prevedere aumenti, anche se sperabilmente
inferiori all'aumento del prodotto interno lordo. Il fattore che,
preso singolarmente, produce l'effetto più sensibile è
l'elasticità delle imposte rispetto al reddito, ossia la capacità
delle entrate fiscali di salire più velocemente dell'aumento
del prodotto interno lordo.
Tale elasticità può essere dovuta al "fiscal drag"
(in presenza di un'inflazione che, nelle nostre previsioni, si è
considerata come moderata), oppure a successi nella lotta all'evasione
che consentano sostanziali recuperi del reddito ora "sfuggente".
La seconda ipotesi descrive una politica che ha come cardine una riduzione
dell'incidenza della spesa pubblica pari allo 0,05% l'anno, mentre
l'elasticità delle imposte rispetto al reddito rimane sostanzialmente
sui valori attuali; la terza ipotesi, per contro, lascia invariata
l'incidenza della spesa pubblica, ma ammette una maggiore elasticità
delle imposte in un quadro lievemente più inflazionistico del
precedente. Si può osservare come il peso del debito continui
ad aumentare per quattro-cinque anni (una conclusione che pare comunque
inevitabile), per decrescere poi sempre più rapidamente. Alla
fine, le due ipotesi si equivalgono, ma nel medio periodo quella che
prevede inasprimenti fiscali appare più efficace.
L'alienazione di parti del patrimonio pubblico (mediante conversione
di titoli del debito pubblico in titoli di proprietà di imprese,
enti economici, immobili e simili) produce un sollievo immediato di
grande portata, ma non può essere considerata risolutiva. E'
un coadiuvante molto utile, più efficace se somministrato subito
(più aumenta il debito e meno il suo effetto è profondo)
e se diluito in qualche anno. Da solo, però, non basta.
Questa conclusione è importante, perché colloca in una
diverso prospettiva la proposta più innovativo che è
venuta dal mondo politico a proposito del deficit. Ci riferiamo precisamente
al programma di alienazioni avanzato da alcuni politici ed economisti,
che risulta interessante ma non decisivo: nei due casi che abbiamo
riportato come quarta e quinta ipotesi si ammettono rispettivamente
una conversione "una tantum" di titoli del debito pubblico
in titoli di proprietà pari a 300 mila miliardi e una conversione,
invece, di 30 mila miliardi ogni anno. Si vede chiaramente come nel
primo caso il debito, anche se molto ridotto, continua a salire con
la stessa dinamica di prima, senza che il problema del suo aumento
venga risolto. Esso viene solo spostato, ma i beni pubblici non potranno
essere alienati una seconda volta. Nel secondo caso (la conversione
"diluita"), l'alienazione graduale permette al debito di
non aumentare, anzi di calare leggermente; anche qui, però,
cessata la cura, la crescita riprenderà.
Un moderato incremento della pressione fiscale: si ritiene che l'1-1,5%
diluito nel corso dei prossimi cinque anni produca effetti di estrema
importanza. Questo si può ottenere mediante modifiche delle
aliquote Iva, che avrebbero altresì il vantaggio di avvicinarci
alla media europea, e con contemporanei sgravi (di minore entità
complessiva) sull'Irpef. Si ritiene infatti politicamente impossibile
un incremento quantitativo senza una parallela modificazione qualitativa
nella struttura dell'imposizione.
Un "tetto" rigido alla spesa pubblica complessiva al netto
degli interessi, in percentuale del Pil: ciò può portare
a minori investimenti pubblici, in quanto proprio sugli investimenti
è più facile tagliare. Per raggiungere l'obiettivo di
un contenimento rigoroso della spesa pubblica evitando effetti depressivi
sul Pil, è necessario che una parte degli investimenti che
sarebbero dovuti provenire dal settore pubblico siano realizzati invece
dai privati; vanno quindi compiuti passi avanti in una privatizzazione
che comporti il passaggio, almeno parziale, all'area privata di determinate
attività.
Una sperimentazione per quanto riguarda la conversione di titoli del
debito pubblico in titoli di proprietà che potrebbe ottenere
l'effetto desiderato: nella tabella si è delineata questa "ricetta",
che potrebbe essere alla base di un progetto politico di ,vasta portata.
La spesa rimane bloccata in percentuale ai livelli attuali (questa
cifra dovrebbe diventare uno dei cardini dei programmi politici),
per le imposte si ammette un lieve ma continuo aumento dell'elasticità;
tassi di sviluppo, di interesse e di inflazione rimangono invariati.
Anche in questo caso l'incidenza del debito pubblico continua ad aumentare
fino al 1990, poi rimane invariata per quattro anni e si riduce leggermente
a partire dal 1993. Nello stesso anno, il deficit al netto degli interessi
viene trasformato in un surplus. In tutto il periodo 1988-95 vengono
effettuate vendite di beni pubblici, pagate con titoli già
in circolazione, che in questo modo vengono estinti, per 5.000 miliardi
all'anno.
Una soluzione di questo genere scarica l'onere del rientro in diverse
direzioni, è sufficientemente bilanciata e permette tempi relativamente
rapidi. Potrebbe rappresentare la base di un progetto politico. Sempre,
naturalmente, che ce ne sia la volontà.
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