§ Stato debitore - Stato insolvente

La tassa differita




Paolo Savona



Il problema del debito pubblico italiano è diventato così grave da meritare un continuo approfondimento nella speranza che il Parlamento si decida ad affrontarlo prima che accada il peggio. Sulla strada di questa presa di coscienza c'è l'abitudine, diffusa anche tra economisti di professione, di sottolineare insistentemente che non esiste in teoria nessun limite individuale a priori oltre il quale si renderà indispensabile il non-rimborso del debito pubblico o forme di finanza straordinaria. Ciò è falso.
Esiste infatti una teoria, peraltro l'unica accreditata sul piano scientifico, che individua il debito pubblico come "tassa differita"; l'accensione di un debito da parte dello Stato è, in sostanza, una forma di rinvio dell'imposizione fiscale. Il motivo di questo rinvio è (o dovrebbe essere) quello di consentire che la spesa in disavanzo generi un maggior volume di reddito, tale che il gettito fiscale derivante da questo maggior reddito faccia fronte all'ammortamento del titolo.
Un calcolo molto semplice ci consente di valutare per l'economia nel suo complesso se questa attesa di maggior reddito e di maggior gettito fiscale abbia un qualche fondamento pratico. Se l'economia nel suo complesso cresce permanentemente a un tasso reale inferiore al rendimento reale dei titoli pubblici, la condizione di rimborsabilità non sussiste ed il "limite" di tollerabilità può dirsi superato. L'Italia vive in questa condizione dal 1984. Per dirla in termini più elementari, quando il divario tra l'incremento reale totale del Pil e il rendimento reale complessivo dei titoli pubblici è negativo, significa che tutto il nuovo reddito prodotto nel Paese serve a pagare gli interessi del debito pubblico; ma significa anche che il capitale investito rende meno del suo costo, ossia si distruggono capitale e possibilità di lavoro.
Oltre questa regoletta "spiccia", esiste un teorema elaborato da Evsey Domar, secondo il quale il volume del debito pubblico ha raggiunto il punto critico se una stretta monetaria, necessaria per controllare la domanda globale, innalza i tassi dell'interesse in misura tale da ampliare - attraverso gli oneri finanziari - il disavanzo pubblico. In tal caso, infatti, lo strumento monetario è neutralizzato e resta solo lo strumento fiscale. Anche per questa via si ritorna alla "tassa differita".
Può obiettarsi che nessuna delle due spiegazioni fornisce una dimostrazione dell'esistenza di un limite di sostenibilità, ossia di un valore oltre il quale lo Stato diviene insolvente o deve ricorrere ad atti di finanza straordinaria. A parte il fatto che il limite non è un preciso valore, ma una condizione economica, e che questa condizione è già stata individuata dalla teoria della "tassa differita" e dal teorema di Domar, si può rispondere con la riflessione di Enzo Grilli, direttore del dipartimento economico della Banca Mondiale, che di comportamenti di Paesi indebitati ne ha osservati molti in questi anni difficili: il fatto che non si riesca ad indicare un valore, non significa che esso non esista; vuoi dire probabilmente che non siamo capaci di calcolarlo. Per dirla in altre parole, se la teoria non interpreta la realtà, peggio per la teoria, e non viceversa, come parrebbe ricavarsi dalla facilità con cui si liquida in Italia il problema dell'esistenza del limite di tollerabilità del debito pubblico.
Il fatto che la fantasia dei governanti e del foro consiglieri, unitamente ad una solida economia produttiva e ad una buona propensione al risparmio delle famiglie italiane non faccia scattare le implicazioni derivanti dal superamento del limite di tollerabilità fa pensare ai più attenti non che il limite non esista ma che qualche forma di consolidamento e di finanza straordinaria proceda mascherata all'interno dell'economia. Ciò non significa che consolidamento o finanza straordinaria ci sono già domiciliati inconsciamente presso alcune categorie di possessori di titoli pubblici e di redditieri.
Intorno all'anno Mille, in molte parti d'Italia si attendeva la fine del mondo. Passata quella data, gli osservatori più superficiali - ossia quelli che ritenevano che questa fine dovesse manifestarsi in forme macroscopiche e violente - credettero che nulla fosse accaduto. Si dovette aspettare dei secoli per capire che in effetti vi fu intorno al volgere del millennio la "fine del mondo", nel senso che un'epoca della storia dell'uomo era finita. Credo che per il debito pubblico italiano stia accadendo lo stesso; solo che in questa materia anche per i "superficiali" potrebbe esserci un segno percepibile...

Debito pubblico
Una valanga che minaccia i nostri figli

L'interrogativo è ricorrente nei discorsi della gente: c'è il pericolo di un consolidamento del debito pubblico? In altre parole: si può prevedere che lo Stato non sia più in grado, un giorno anche non lontano, di rimborsare l'enorme montagna di debiti, di "pagherò" (oltre 800 mila miliardi di lire) contratti con i risparmiatori italiani?
E' necessario ragionare, di fronte o questa situazione che non ha corrispondenze in alcun Paese industriale o industrializzato che si voglia. Il dato inquietante, il pericolo dietro l'angolo, scaturiscono do una semplice constatazione: la corsa alla spesa pubblica, all'aumento del deficit, continuo e accelera, proprio mentre tutti ne denunciano la gravità e ne avvertono l'insensatezza.
Ma è così. Si ragiona sui grandi numeri. Si ammette che un Paese non può vivere consumando più di quanto produce; si riconosce che è un assurdo contrarre debiti per finanziare le spese correnti, ipotecando il domani dei nostri figli; si dice che è destabilizzante avere uno stock di debito che raggiunge il prodotto interno lordo di un anno del Paese... Ogni cittadino ha sulle spalle un onere di 15 milioni!
Nello stesso tempo, però, le corporazioni di tutti i colori e di tutte le religioni, quando si trovano di fronte alla possibilità di ottenere qualcosa, ignorano il quadro delle compatibilità. Denunciano la sperequazione in atto e pretendono di eliminarla subito, per la via più breve. Che è quella non di riequilibrare globalmente la situazione, di riformare strutture e istituti che fanno acqua da tutte le parti, ma più semplicemente di ottenere qualcosa, di porsi al livello più alto.
E' il caso, per restare alla cronaca, del "tetto" delle pensioni, che in pratica è saltato con la Finanziaria e che ha innescato fra gli Enti previdenziali la corsa allo scavalco. Bene. Il risultato di voler sanare un'ingiustizia, senza ridisegnare la previdenza, comporta di fatto un'ulteriore accelerazione della spesa pubblica. Perché la Previdenza sociale è pagata, come ben sappiamo, prevalentemente con i soldi di tutti noi cittadini che lavoriamo. Meglio: è pagato con le cambiali che sottoscriviamo allo Stato, che copre in questa maniera i debiti previdenziali. Spesa corrente pagata con titoli che verranno... onorati dalle nuove generazioni.
Appunto. Si rinvia. Ed è proprio per questo che, conti alla mano, anche coloro che si dichiaravano favorevoli a misure come quella dell'abolizione dei tetti pensionistici temono un consolidamento del debito pubblico. Perché la montagna, espandendosi, ampliandosi, aumentando incessantemente di dimensione e di peso, può un bel giorno non reggere. E sarebbero dolori. Ipotesi possibile? Va messa nel novero degli scenari che ogni cittadino traccia, anche se alla stato dei fatti appare fantasiosa. L'Italia non fa parte (per nostra fortuna) del Terzo Mondo. Siamo considerati solvibili a livello internazionale. Tutto ciò ci conforto e deve confortare i sottoscrittori di titoli pubblici. Ma con un'esortazione: è tempo che tutti e soprattutto i politici imparino a "fare i conti", una buona volta, con uno stock di debito così elevato. Ne va dell'equilibrio economico generale, che non ammette fughe dalle responsabilità.
Gli esperti, con i dati a portato di mano, dimostrano che un investimento in lire negli ultimi anni, raffrontato a un investimento in marchi, ha dato un utile maggiore, tenendo conto e del differenziale d'inflazione e dei "riallineamenti" della nostra moneta. Quindi, chi ha investito in titoli pubblici italiani ha guadagnato. Ne consegue che il nostro debito può essere oggi collocato anche nel portafogli dei risparmiatori internazionali. Quest'operazione l'hanno fatta gli Stati Uniti; possiamo farla anche noi, magari con più misura... Molto giusto. Il respiro si allunga. Il pericolo è rinviato. Ma senza illusioni, sia chiaro. Perché è tempo di attuare un decisivo "recupero di sovranità" nel governo dell'economia, se vogliamo garantire sonni tranquilli ai risparmiatori italiani e soprattutto ai nostri figli.

Una legge con molti enigmi

Ad infierire ancora sulle magagne della Legge finanziaria c'è il rischio di meritarsi l'accusa di ingenerosità, tali e tante sono state le critiche piovute sul provvedimento, sulle sue procedure e sui suoi meccanismi; in particolare, poi, sulla Finanziaria '88 che, a dieci anni dalle norme istitutive, sarà forse l'ultima di una sorta di "prima serie".
Quest'anno, la vicenda politica che ha condotto per mano, fino all'uscita di scena, il governo Goria, ha inciso notevolmente sulla struttura della legge e sulla "qualità" delle sue norme. In virtù dei marchingegni messi in opera per limitare al massimo i voti segreti e quindi le imboscate parlamentari, quei caratteri si sono accentuati e la lettura della Finanziaria somiglia in più di un passo a quei quesiti crittografati cari agli enigmisti. Interi articoli o parti di essi non recano la materia su cui legiferano, di modo che può capitare, tanto per fare un esempio, di trovare le norme che prorogano il regime di tesoreria unica al comma 8 dell'articolo 21, sotto il capo "Disposizioni in materia di occupazione e previdenza". Che è un bel modo di mettere ordine nelle cose.
Tuttavia, più costruttivamente, le forze politiche e infine lo stesso governo hanno posto mano alla riforma della legge numero 468 del '78 (le cui norme regolano, com'è noto, la legge finanziaria) partendo dalla constatazione che in definitiva la fissazione per legge del limite di indebitamento dello Stato per l'esercizio di riferimento finisce per essere nei fatti contraddittorio rispetto alle norme dell'articolo 81 della Costituzione sulla necessità di indicare la copertura per le nuove e maggiori spese. Lo spirito di quella norma, dovuta - com'è noto - a Einaudi, non può essere certo quello di coprire le spese con l'indebitamento, in un bilancio scopertamente in deficit qual è il nostro.
Per quanto riguarda il Mezzogiorno, c'è da dire che la Finanziaria contribuisce anche a perpetuare in qualche modo l'eterno equivoco fra spesa ordinaria e intervento straordinario, in modo che talune azioni -come ad esempio la fiscalizzazione degli oneri sociali o gli incentivi all'innovazione tecnologica - fanno carico per il Nord sull'azione ordinaria dello Stato, mentre per il Sud gravano sui fondi dell'intervento straordinario. L'equivoco ha continuato a gravare sulla Finanziaria, che per l'anno scorso prevedeva 7.000 miliardi di interventi ordinari dello Stato nel Mezzogiorno, gran parte dei quali non spesi.
La rimodulazione delle risorse dell'intervento straordinario operata tenendo conto della capacità (più correttamente: dell'incapacità) di spesa, aggiunge spesso inefficienza a inefficienza, giacché nei fatti, trasferiti i fondi, la spesa non si verifica né qui né lì. Ci sarebbe anzi da osservare che la lotta, spesso provinciale e campanilistica, condotta da molti parlamentari per l'assegnazione di fondi a questo o a quei progetto, risulta abbastanza fuorviante, dal momento che la macchina amministrativa dello Stato (e ancor più delle regioni, in particolare di quelle meridionali) è inceppata e non riesce a funzionare a meno di "oliature" di cui da tempo sono piene le cronache.
Ad esaminare le cifre '88 degli interventi a favore del Mezzogiorno ci si avvede che su un totale di investimenti per quasi 4.000 miliardi c'è una sola posta di 500 milioni sottratta per l'appunto ai fondi della Legge n. 64/86 e destinata all'occupazione giovanile. Per il resto, a parte gli impegni del Fio per i beni culturali e quelli per il rifinanziamento della legge n. 219, si tratta di somme di minore rilievo.
Ma tutto sommato, più che vedere in che modo il Mezzogiorno esce dalla Finanziaria '88, c'è da chiedersi che Mezzogiorno trova la nuova legge. La "64" ha iniziato ad operare in una atmosfera rissoso e poco costruttiva, ancora priva di un equilibrio nel nuovo assetto istituzionale dell'intervento straordinario. Gli impegni rispetto agli stanziamenti (siamo lontani quindi dalla spesa effettiva) sfiorano il 22-23% rispettivamente per le agevolazioni finanziarie e per le azioni organiche. Sono dati la cui drammaticità veniva messa bene in evidenza da Sabino Cassese in occasione della presentazione delle due nuove riviste della Svimez. Occasione che forniva il destro a Massimo Finoia per osservare esattamente che in definitiva i periodi migliori per il Mezzogiorno coincidono con quelli di alta espansione per il Paese, rafforzando le impressioni che i miglioramenti conseguiti non siano frutto di una politica appositamente studiata per il Sud, quanto di fasi congiunturali genericamente favorevoli. Basti considerare che negli otto esercizi che vanno dal '79 all'86 il totale generale dell'intervento straordinario è diminuito in termini reali di circa il 25%, passando, in lire del '75, da 1.049 miliardi ai 780 dell'86, con significative riduzioni soprattutto nei settori direttamente produttivi (agricoltura e industria). Nel frattempo, la disoccupazione meridionale è passata in tre anni dal 14,9 del 1985 a circa il 20 dell'87, con un incremento di ben cinque punti, mentre il corrispondente dato del Centro-Nord è rimasto fermo all'8%.
E' opinione diffusa che, nonostante la buona congiuntura internazionale, il governo sarà costretto a una manovra in qualche modo restrittiva per raffreddare la domanda interna, mentre il costo del lavoro continua a essere abbastanza fuori controllo e le aspettative al ribasso dei tassi d'interesse pare debbano subire una battuta d'arresto. Sono questi, dunque, i problemi del Paese, e nel quadro da essi delineato il Mezzogiorno non si avvantaggerà certamente. Né molto lo aiuteranno le confuse norme della Legge finanziaria.

Cinque alternative per il deficit italiano

Il Tesoro italiano continua ad avere il fiato grosso, con crisi piuttosto ricorrenti, determinate dalla necessità di risolvere i problemi immediati. Ma che cosa potrà succedere nel lungo periodo? E che cosa occorre per riportare sotto controllo il nostro debito pubblico? Nell'ambito di una serie di ricerche, il Centro Studi Einaudi ha realizzato un modello che consente di simulare per gli anni futuri l'andamento delle due grandezze (deficit e riduzione del debito pubblico) che sono la chiave di volta della nostra politica economica. E' dunque possibile esplorare le alternative che abbiamo di fronte.
Il modello è essenzialmente semplice. Collega, infatti, tra loro, le grandezze globali della spesa pubblica (la spesa al netto degli interessi e la spesa per interessi) e d'elle entrate pubbliche al prodotto interno lordo. Esso consente di formulare rapidamente ipotesi anche molto diverse tra loro circa l'evoluzione futura dei conti pubblici in determinate ipotesi di sviluppo del reddito, di variazione della pressione fiscale, di contenimento della spesa. Il suo campo di osservazione è attualmente di quindici anni, ma può essere facilmente esteso. Con il modello è possibile prendere in considerazione anche variazioni lineari delle variabili (ad esempio, un tasso di sviluppo, un carico fiscale, un'inflazione crescenti o decrescenti nel corso dei quindi anni) e fornisce risultati sia in termini monetari sia in termini reali che permettono di studiare l'impatto dell'inflazione. Modelli in parte analoghi sono stati proposti anche da altri centri di ricerca.
Nel compiere la simulazione qui presentata, si sono adottate ipotesi che, al momento, appaiono realistiche, ossia tassi di sviluppo reali nell'ordine del 2,5-3%, un'inflazione tra il 4 e il 6%, tassi di interesse reali sostanzialmente pari a quelli attuali, o magari con qualche limatura per gli anni futuri. Naturalmente, il modello consente senza difficoltà di mutare queste premesse e di studiare scenari di altro tipo, se le condizioni dell'economia lo richiedessero.
Le conclusioni generali non si discostano troppo da quelle di altri centri di ricerca che hanno affrontato i medesimi problemi: èmesso soprattutto in risalto il forte potenziale espansivo del deficit pubblico quando il tasso di interesse reale sul debito è più elevato del tasso di sviluppo reale del prodotto interno lordo. Questo potenziale espansivo, esercitato su una massa di debiti di dimensioni sostanzialmente pari al prodotto interno lordo, rende del tutto insufficienti le altre azioni di contenimento della spesa, compreso l'annullamento del deficit primario (imposte meno spese al netto degli interessi) che è al momento l'unica strategia dichiarata del governo. Nello schema, la prima ipotesi mostra che cosa succederà nel caso di un sostanziale mantenimento della situazione attuale, con costanza dell'incidenza della spesa pubblica sul reddito, dell'elasticità delle imposte rispetto al reddito e dell'inflazione e con un tasso di sviluppo reale (2,87%) molto vicino alla media degli ultimi tre anni. Nell'arco del quindicennio considerato, il peso del deficit aumenta, anche se a ritmi sempre decrescenti, per stabilizzarsi, o quasi, a livelli molto elevati. Dobbiamo quindi ripetere una banalità che, d'altra parte, non viene mai ribadita abbastanza: non è possibile arrestare la "colata lavica" del deficit pubblico senza un aumento delle entrate, dal momento che è irrealistico tagliare di molto la spesa corrente, per sua natura rigidissima e per la quale anzi occorre prevedere aumenti, anche se sperabilmente inferiori all'aumento del prodotto interno lordo. Il fattore che, preso singolarmente, produce l'effetto più sensibile è l'elasticità delle imposte rispetto al reddito, ossia la capacità delle entrate fiscali di salire più velocemente dell'aumento del prodotto interno lordo.
Tale elasticità può essere dovuta al "fiscal drag" (in presenza di un'inflazione che, nelle nostre previsioni, si è considerata come moderata), oppure a successi nella lotta all'evasione che consentano sostanziali recuperi del reddito ora "sfuggente".
La seconda ipotesi descrive una politica che ha come cardine una riduzione dell'incidenza della spesa pubblica pari allo 0,05% l'anno, mentre l'elasticità delle imposte rispetto al reddito rimane sostanzialmente sui valori attuali; la terza ipotesi, per contro, lascia invariata l'incidenza della spesa pubblica, ma ammette una maggiore elasticità delle imposte in un quadro lievemente più inflazionistico del precedente. Si può osservare come il peso del debito continui ad aumentare per quattro-cinque anni (una conclusione che pare comunque inevitabile), per decrescere poi sempre più rapidamente. Alla fine, le due ipotesi si equivalgono, ma nel medio periodo quella che prevede inasprimenti fiscali appare più efficace.
L'alienazione di parti del patrimonio pubblico (mediante conversione di titoli del debito pubblico in titoli di proprietà di imprese, enti economici, immobili e simili) produce un sollievo immediato di grande portata, ma non può essere considerata risolutiva. E' un coadiuvante molto utile, più efficace se somministrato subito (più aumenta il debito e meno il suo effetto è profondo) e se diluito in qualche anno. Da solo, però, non basta.
Questa conclusione è importante, perché colloca in una diverso prospettiva la proposta più innovativo che è venuta dal mondo politico a proposito del deficit. Ci riferiamo precisamente al programma di alienazioni avanzato da alcuni politici ed economisti, che risulta interessante ma non decisivo: nei due casi che abbiamo riportato come quarta e quinta ipotesi si ammettono rispettivamente una conversione "una tantum" di titoli del debito pubblico in titoli di proprietà pari a 300 mila miliardi e una conversione, invece, di 30 mila miliardi ogni anno. Si vede chiaramente come nel primo caso il debito, anche se molto ridotto, continua a salire con la stessa dinamica di prima, senza che il problema del suo aumento venga risolto. Esso viene solo spostato, ma i beni pubblici non potranno essere alienati una seconda volta. Nel secondo caso (la conversione "diluita"), l'alienazione graduale permette al debito di non aumentare, anzi di calare leggermente; anche qui, però, cessata la cura, la crescita riprenderà.


Un moderato incremento della pressione fiscale: si ritiene che l'1-1,5% diluito nel corso dei prossimi cinque anni produca effetti di estrema importanza. Questo si può ottenere mediante modifiche delle aliquote Iva, che avrebbero altresì il vantaggio di avvicinarci alla media europea, e con contemporanei sgravi (di minore entità complessiva) sull'Irpef. Si ritiene infatti politicamente impossibile un incremento quantitativo senza una parallela modificazione qualitativa nella struttura dell'imposizione.
Un "tetto" rigido alla spesa pubblica complessiva al netto degli interessi, in percentuale del Pil: ciò può portare a minori investimenti pubblici, in quanto proprio sugli investimenti è più facile tagliare. Per raggiungere l'obiettivo di un contenimento rigoroso della spesa pubblica evitando effetti depressivi sul Pil, è necessario che una parte degli investimenti che sarebbero dovuti provenire dal settore pubblico siano realizzati invece dai privati; vanno quindi compiuti passi avanti in una privatizzazione che comporti il passaggio, almeno parziale, all'area privata di determinate attività.
Una sperimentazione per quanto riguarda la conversione di titoli del debito pubblico in titoli di proprietà che potrebbe ottenere l'effetto desiderato: nella tabella si è delineata questa "ricetta", che potrebbe essere alla base di un progetto politico di ,vasta portata. La spesa rimane bloccata in percentuale ai livelli attuali (questa cifra dovrebbe diventare uno dei cardini dei programmi politici), per le imposte si ammette un lieve ma continuo aumento dell'elasticità; tassi di sviluppo, di interesse e di inflazione rimangono invariati. Anche in questo caso l'incidenza del debito pubblico continua ad aumentare fino al 1990, poi rimane invariata per quattro anni e si riduce leggermente a partire dal 1993. Nello stesso anno, il deficit al netto degli interessi viene trasformato in un surplus. In tutto il periodo 1988-95 vengono effettuate vendite di beni pubblici, pagate con titoli già in circolazione, che in questo modo vengono estinti, per 5.000 miliardi all'anno.
Una soluzione di questo genere scarica l'onere del rientro in diverse direzioni, è sufficientemente bilanciata e permette tempi relativamente rapidi. Potrebbe rappresentare la base di un progetto politico. Sempre, naturalmente, che ce ne sia la volontà.


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